CulturaVideo

1943 bombardamento La Maddalena

Molto è stato scritto e detto sui bombardamenti americani del 10 aprile 1943, inutile ripetere quanto accadde. Ricordo solo che gli incrociatori pesanti Trieste e Gorizia, così come l’Arsenale, vennero pesantemente colpiti dalle bombe.
Forse non abbiamo mai considerato sufficientemente la sofferenza degli esseri umani, limitandoci ad indicare in maniera fredda numeri e dati di aerei, bombe ecc.
Forse atri e più umani aspetti non sono mai stati sufficientemente valutati.
Quello che segue è il racconto che un ufficiale del Gorizia (Armando Traetta) scrisse nei momenti successivi al bombardamento, quando, insieme al Comandante della nave, si recò all’Ospedale Militare per un’opera, improbabile, di riconoscimento di alcune vittime…
Il racconto, scritto nell’immediatezza dei fatti, è crudo e sconvolgente, va oltre i fatti storici specifici; è un quadro di morte e sofferenza, aspetti però comuni a tutte le guerre.
“… Prima di lasciare La Maddalena, approfittando del tempo necessario per la preparazione delle macchine ed in attesa dell’ora propizia per lasciare la rada, ci rechiamo, il Comandante, qualche altro ufficiale ed io, nel piccolo Ospedale Militare che rigurgita di feriti e di morti.
Il pietoso giro ha iniziato dall’obitorio. I morti sono tanti e poi tanti che, per deficienza di bare, non è stato ancora possibile dar sepoltura a tutti. La maggior parte di essi è allineata fuori dall’ufficio ricoperta ognuna da una coperta d’ordinanza su cui poggia un cartellino col nome del morto. Molti dei cartelli portano la scritta “sconosciuto”. In un altro angolo, un poco discosto dalla lunga fila delle salme allineate contro la parete, v’è un mucchio di brandelli di carne imbiancati dalla calce, in attesa che un camion, che da due giorni sta effettuando numerosi viaggi dall’ospedale al cimitero, li trasporti in una fossa comune. L’odore che si diffonde per l’aria da quei resti è terribile…
Come riconoscere in quel mucchio di carne maciullata i nostri marinai? Possibile che solo qualche giorno fa ognuno di questi mucchi informi e senza nome erano uomini che si muovevano, parlavano, sentivano, agivano con un pensiero, un volto e un nome? Quanti altri lutti, dolori, lagrime ed angosce stenderanno il loro impenetrabile velo sulle rovine che si vanno accumulando ogni giorno di più con così spaventosa continuità sul nostro paese?
Nelle sale dell’edificio centrale lo spettacolo non è meno triste perché qui la sofferenza è ancora viva. Al dolore rassegnato di alcuni si contrappone la smania del delirio degli altri; alla immobilità dolorante la reazione incosciente; al lamento fioco l’urlo straziante. Nessuna distinzione d’età e di grado, tutti uguali innanzi alla sventura ed al dolore! Occhiaie vuote, volti scomposti, corpi mutilati e sangue, sangue e sangue.
Un sottufficiale, nel delirio della sua febbre, chiama per nome il figlio imbarcato con lui sull’Incrociatore Trieste. Apprendiamo che il figlio è morto il giorno prima nella stesa stanza senza che il padre l’abbia ancora saputo. Quale sarà il ritorno alla vita di questo uomo? Potrà il suo cuore resistere alla percossa o si spezzerà d’un tratto consentendogli di ricongiungersi al figlio in un mondo in cui non è possibile che si commettano le stesse atrocità che si vanno compiendo tra gli uomini?
Martino, un mio fuochista, è seduto sull’orlo del letto e guarda fisso innanzi a sé con uno sguardo da ebete. Quando mi avvicino a lui si scosta repentinamente senza riconoscermi e mi manda dagli occhi allucinati un lampo della sua follia.
Un marinaio ci viene incontro gesticolando e cercando invano di articolare le labbra per formulare un suo pensiero. È diventato muto. Gli stringiamo la mano in silenzio e cerchiamo di allontanarci per celare la nostra commozione. Ma lui ci segue. Passiamo attraverso altre stanze, altre corsie e lui ci segue ancora, fino alla porta dell’Ospedale. Quando ci volgiamo per salutarlo ci porge un foglietto di carta su cui ha scritto a matita “Portatemi a bordo”. Ci guardiamo in faccia l’un l’altro. È impossibile. Il Comandante gli spiega che il pericolo della navigazione è grave e gli assicura che, appena possibile, lo farà portare a La Spezia. Ma il povero ragazzo non sembra eccessivamente convinto di queste assicurazioni e si allontana tristemente trascinando dietro il suo dramma e la sua delusione.
Il tratto che separa l’Ospedale dalla banchina viene fatto senza che alcuno di noi trovi la forza di dire una sola parola a commento della visita effettuata. Arriviamo a bordo che è già buio e la nave è pronta a mollare gli ormeggi.” (G. Nieddu)