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8 ottobre 1849, il primo soggiorno di Garibaldi a La Maddalena

Nelle comunità che vivono dal mare e sul mare, è il mare che domina la vita in comune ed è sempre il mare che lega gli uomini con saldi vincoli di solidarietà che resistono anche alla morte. E’ ben risaputo come la gente di mare accorra come un solo uomo quando una nave sia in difficoltà, e non soltanto quando sia in pericolo la vita umana, ma anche quando sia necessario intervenire per la salvezza dell’imbarcazione e del suo carico. In queste occasioni emergono sempre il più grande coraggio, le migliori capacità marinare e soprattutto il più disinteressato altruismo verso coloro che, quotidianamente, affrontano le insidie delle grandi acque salate.

La comunità maddalenina, il cui nucleo originario era formato da pastori corsi legati però a Bonifacio dal cordone ombelicale del piccolo cabotaggio, per la particolare conformazione dell’arcipelago, le difficoltà che gli stretti carruggi comportano per la navigazione, le innumerevoli secche ed i venti improvvisi che spesso si levano da ogni direzione, non poteva non divenire se non una comunità a grande vocazione marinara. Tale fu infatti riconosciuta ben due secoli fa quando il governo piemontese, trasferitosi in Sardegna, la elesse a base della propria marina. Ne è nata una stirpe di marinai, arricchita dall’apporto di altri marinai venuti nell’isola da lidi lontani, che ha dato al mare i suoi figli migliori i quali non hanno mai mancato di accorrere in aiuto di quanti erano in pericolo portando loro soccorso e compiendo quasi sempre atti di vero eroismo.

E le occasioni non sono mancate. Non poche furono infatti le imbarcazioni maddalenine che superando i confini e violando le norme sulle pratiche sanitarie accorsero a Lavezzi in occasione del naufragio della Semillante, e quelle che nel 1943 prestarono la loro opera in occasione dell’affondamento dell’incrociatore Trieste avvenuto nelle acque di Palau nel corso del secondo conflitto mondiale. E tali eventi si sono perpetuati fino ai nostri giorni: fra gli episodi recenti, difatti, è d’obbligo ricordare l’impulso generoso di Giuseppe d’Arco, pescatore di Cala Gavetta, che è valso a salvare due vite umane e che è stato meritatamente riconosciuto con il conferimento della Medaglia d’Oro al valor civile.

Una lettera dell’8 ottobre 1849 diretta al sindaco Nicolao Susini dal capitano di vascello Antonio Millelire, comandante del brigantino Daino, oltre a darci la possibilità di rivivere uno dei tanti eventi in cui emerse la generosità marinara degl’isolani, ci offre la possibilità di riflettere su un particolare momento storico che forse sarà decisivo nella vita del maggior personaggio che verrà poi a far parte di questa gente proclamandosene cittadino, prima da marinaio e poi da agricoltore.
Il vento che si levò improvvisamente questa mattina al momento in cui si apprestava a lasciare questo porto – scrive il Millelire – nel mentre che non pose in pericolo il bastimento dietro le precauzioni prese, mi porse però l’occasione di ammirare i sentimenti di umanità che animano gli abitanti di quest’isola ad azioni generose, per essersi adoperate con la massima sollecitudine a prestar mano all’equipaggio.
Persuaso che tali sentimenti non verrebbero meno in loro verso un bastimento di bandiera estera, e superbo di far parte anch’io di questa magnanima popolazione, mi rivolgo alla S.V.Ill.ma per pregarla di esternare ai miei compatrioti i vivi sensi della mia gratitudine, e colgo inoltre l’occasione per offrirle gli atti della mia singolar devozione”.

La presenza del brigantino Daino nelle acque di La Maddalena e l’urgenza che esso aveva di lasciare il porto malgrado il sopraggiungere del maltempo non erano del tutto occasionali. Pochi giorni prima, il 25 settembre, con il piroscafo Tripoli comandato da Francesco Millelire, era infatti giunto per la prima volta nell’isola, proveniente da Tunisi, Giuseppe Garibaldi.

Lo scomodo ospite, dopo il fallimento della Repubblica Romana, la morte di Anita ed il trafugamento attraverso gli Appennini con il fido Leggero, era stato arrestato, o meglio trattenuto “in liberata et honorata militare custodia” presso l’alloggio del generale La Marmora, commissario straordinario di Genova, per essere poi avviato all’esilio. A Tunisi, però, il Bey, pressato da esigenze diplomatiche che non gli consentivano di indisporre i francesi, aveva rifiutato di riceverlo e al Millelire, al quale fu intimata l’immediata partenza, non restò che salpare alla volta della capitale sarda dove, dopo un serrato gioco al rimbalzo tra l’intendente Pes a Cagliari e l’intendente Di Monale a Sassari, ricevette l’ordine di riprendere il mare con una scorta di venti cacciatori franchi, e condurre l’esule e i suoi compagni a La Maddalena in attesa di determinazioni.

A La Maddalena Garibaldi ebbe l’obbligo di dormire nella casa del comandante Falchi, incaricato della sua sorveglianza, ma di giorno, dopo aver dato la sua parola d’onore di non allontanarsi dall’isola, aveva la facoltà di muoversi liberamente. Dopo tante peripezie, trovò nell’isola sincer amici che lo accolsero con calore e, sebbene consapevole di essere sempre e in ogni momento strettamente controllato, ne approfittò per dedicarsi alla caccia, alla pesca e al gioco delle bocce. Reduce dall’infausta disfatta e amareggiato dal dolore per la morte di Anita e dal distacco dai suoi figli, quei giorni furono per lui la prima parentesi di pace e di distensione: “Voi e l’amabilissima vostra famiglia – scriverà a Francesco Susini da Gibilterra – mi avete fatta penibile veramente la mia separazione dalla Maddalena, ove fui beneficiato dell’asilo più confacente all’afflitta mia situazione, ed in cui ho ritrovato la quiete dell’anima sconvolta dalle peripezie d’una vita di tempeste”. Nelle sue memorie, tuttavia, si rammaricherà che proprio in quei giorni, per lui tanto sereni, a Torino si sospettava che egli stesse intessendo nell’isola una qualche congiura: “Cosa ridicola! – scriverà – Non mancò chi m’accusasse al governo Sardo, o il governo stesso lo finse: ch’io tramavo rivoluzioni in quell’Isola, dove la metà della popolazione era a servizio regio, o pensionata”.

Il Daino aveva dunque l’incarico di far giungere a Genova segreti messaggi e dettagliate relazioni sulla presenza a La Maddalena di Garibaldi, di Giovan Battista Culiolo (il maggior Leggero) e Luigi Cocelli, che avevano voluto seguirlo nell’esilio, e del legionario Raffaele Teggia che si era imbarcato a Cagliari per condividere la sorte dei suoi compagni.

Il maltempo di quella mattina dovette durare parecchi giorni; il 12 ottobre successivo, infatti, nelle acque di Barabò, fu lo stesso Garibaldi, ospite di Francesco Susini per una partita di pesca, a rendersi a sua volta protagonista del salvataggio di quattro uomini in pericolo sul mare. L’episodio, del quale Garibaldi non farà mai menzione nei suoi scritti e nelle sue memorie, è così riportato da Angelo Falconi: “…il vento infuriava e il mare si era fatto grosso, una barca di pescatori, con a bordo il patrono Antonio Tarantini, un figlioletto di questi …e altri due uomini, non potendo reggere al fortunale si capovolse. E fu un tutt’uno vedere Garibaldi, mezzo vestito tuffarsi in mare e condurre alla spiaggia i tre uomini; ma avendogli detto che il ragazzo, avvolto nella vela, era calato a fondo, si rituffò, stette alcuni secondi sott’acqua, e ricomparve con in braccio il piccolo Tarantini quasi svenuto”.

Nel 1902, quando Angelo Falconi scriveva sull’Unione Sarda queste note, Angelo Tarantini, il piccolo salvato da Garibaldi, era ancora vivente ed un suo zio (forse uno degli uomini salvati da Garibaldi durante quel fortunale), insieme al tempiese Francesco Grandi (unici sardi), era stato dei Mille. Ed ebbe lunga vita, poichè, come riferisce il Petella, nel 1911 viveva da pensionato a Santa Teresa Gallura dopo aver servito nella R.Marina in qualità di maestro veliere di 1a classe.

Garibaldi rimase amico dei Susini durante tutto il suo successivo soggiorno a La Maddalena e la famiglia di Francesco volle ricordare l’episodio e i prodi suoi figli Antonio e Nicolò, che con il Generale avevano combattuto in sudamerica e nella campagna d’Italia, apponendo sulla facciata della casetta di Barabò una scritta pitturata ad olio ornata da una figura dell’Eroe in camicia rossa orlata di verde fra due bandierine tricolori, in cui si leggeva:
Il 12 Ottobre 1849 fu giorno avventuroso per Francesco Susini  – genitore di quei due generosi e per la famiglia sua – quello in cui vide festeggiare in questa campagna sua l’Amico il Tutore il secondo Padre dei figli suoi, il prode Generale Garibaldi sotto il quale acquistarono l’uno in Montevideo l’altro in Italia onorata rinomanza e quel dì istesso l’illustre Duce slanciossi in mare e salvò quattro persone che manovravano una barchetta che quì sotto ciavirò”.

L’epigrafe originaria, scritta ed eseguita da Federico Desorben, inglese, genero di Francesco Susini, alteratasi col tempo, e riscoperta nel 1911 da Giovanni Petella sotto uno strato di calce, fu incisa a lettere rosse su una lapide calcarea anch’essa apposta sulla facciata. Purtroppo la casetta di Barabò, successivamente ristrutturata, è divenuta oggi una villetta e la lapide che ricordava il primo soggiorno di Garibaldi a La Maddalena è scomparsa dal suo sito.

Non sappiamo se Garibaldi la mattina della partenza del Daino sia accorso anche lui a dar man forte all’equipaggio, ma certamente ebbe modo di assistere all’episodio e di constatare, da buon marinaio qual’era, la generosità della gente isolana. Il 24 ottobre successivo, dopo un mese di tranquillo soggiorno a La Maddalena, lo scottante esule verrà imbarcato sul piroscafo Colombo alla volta di Gilbilterra e poi a Tangeri. Il giorno prima di partire, a conclusione del suo primo incontro con l’arcipelago, aveva scritto al sindaco Susini la seguente lettera: Maddalena, 23 ottobre 1849 “Stimatissimo Signor Sindaco, Voglia essere interprete de’ miei sensi di gratitudine a questa gentilissima popolazione. Io abbandono questa terra Italiana con vero rammarico, e non dimenticherò mai l’accoglienza di simpatia e d’amore ricevuta da’ generosi di Lei concittadini. 
Lontano dall’Italia!… quando l’immagine sua temprerà gli affanni d’una vita raminga tra le consolanti reminiscenze di quella – io ricorderò con tenero affetto certamente – il modo in cui fui accolto nella Maddalena. G. Garibaldi”.

Garibaldi lasciò a La Maddalena i suoi compagni Leggero, Cocelli e Teggia, ma portò con sé, quale amico fedele, un cane al quale impose il nome di Castore. Dovrà poi separarsene alla partenza per gli Stati Uniti, ma gli rimarrà il rammarico di quella perdita. Il 26 giugno del 1850, da Liverpool, nel viaggio di ritorno dalla sua seconda avventura americana, scriverà ad Antonio Susini Millelire che egli aveva lasciato a Montevideo al comando della Legione Italiana: ” …Sapete che io soggiornai alquanto alla Maddalena, e che fui distintamente e caramente accetto nel consorzio dell’amabile vostra famiglia. Ora fra le cose di cui fui favorito in casa vostra ho pure avuto un cane eccellente, che mi ha servito sommamente per la caccia in Tangeria, ove passai alcuni mesi. Ho conosciuto Pietro, con cui ho fatto varie partite di caccia e pesca, e simpatizzato assai. Ho avuto meco vostro fratello Nicola, e vi rispondo che sarà un bravo uffiziale”.

Chissà, forse furono proprio quegli affetti, quella pace finalmente ritrovata dopo giorni di dolore e quell’episodio di generosità marinara, che gli fecero apparire tanto congeniale la comunità maddalenina fino a far maturare in lui, al rientro dall’America, la decisione di tornare a La Maddalena e di stabilirsi definitivamente fra coloro che lo avevano accolto con tanta semplicità e con tanto calore.

La protagonista del dipinto è la piccola Rosa, detta Rosita, nata dall’unione tra il Generale e Anita, e morta a Montevideo il 23 dicembre 1845 all’età di circa quattro anni. La bambina indossa un abito elegante ed è rappresentata al centro di un’ambientazione campestre in compagnia di un vivace e saltellante cagnolino dal pelo chiaro. A contornare l’opera una raffinata cornice in legno dorato, intarsiata da geometrici motivi, raffiguranti cavalli alati con zampe corte e palmate, e dalle lunghe code di pesce attorcigliate a spirale. Le figure zoomorfe si replicano per tutto il perimetro della cornice, in modo speculare e simmetrico, e si alternano a coppe e fregi floreali. Il quadro della piccola Rosita, sin dal 1861, campeggia sopra il caminetto nello studio della casa bianca di Caprera. Compendio Garibaldino – Caprera