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Asfodelo

Asfodelo (nome scientifico Asphodelus microcarpus o aestivus; nome locale tarabucciu o tarabucciulu e ferrulitta). Articolo di Giovanna Sotgiu.

Pianta erbacea perenne, molto resistente che ama i luoghi soleggiati e colonizza estesi campi. In passato, le lunghe foglie lineari-lanceolate, venivano fatte essiccare ed utilizzate per riempire i materassi e per farne dei bellissimi cestini. I tuberi, ricchi di amido, trovavano impiego in medicina per combattere le affezioni cutanee.

I maddalenini conoscono la pianta fresca col nome di tarabucciu e lo stelo essiccato col nome di ferrulitta. Il primo è rimasto nei toponimi: a Spargi nella zona alta dell’isola c’era una tanca, coltivata dai Berretta a grano e orzo alternati ogni due anni, chiamata Tarabucciulajju. Dell’uso commestibile delle radici è rimasto un lontano ricordo: pare che se ne ricavasse una sorta di farina da aggiungere a quella di grano o che si consumassero in insalata previa bollitura. Certo è invece che i fiori e i frutti costituiscono fonte di cibo per le api e per le silvie, i piccoli uccelli della macchia che gli isolani chiamano ciaciarre. Si conosce ancora l’uso medicinale soprattutto delle radici: pestate e applicate ai piedi combattono i geloni; scaldate, tagliate a fette e poste sui calli ne facilitano il distacco; spezzate e sminuzzate sono utili contro le eruzioni cutanee in genere e, particolarmente, per le macchie biancastre sulle pelli delicate chiamate pettijjini.

La pianta dell’asfodelo, diffusissima in Sardegna, ha ancora una notevole importanza nella cultura dei sardi, seppur non come nelle epoche precedenti. Il germoglio fresco dello stelo è consumato come un asparago. La corteccia dello stelo, seccata, è utilizzata per intrecciare cesti che servivano per riporre o trasportare pane, ma anche come base per la realizzazione della pasta de sos ciciones o su succu. I suoi tuberi hanno alimentato le classi povere in momenti di carestia, e venivanole cucinavano sotto la cenere. Lo stelo secco, serviva per bruciare le setole dei maiali appena uccisi. Le foglie della pianta fresche erano utilizzate per raccogliere pecorini freschi. D’estate, le foglie ben secche, venivano consumate dalle pecore dopo una notte di rugiada.

Il miele di asfodelo è uno dei tipi di miele tipici della Sardegna, dal colore chiaro trasparente, quasi incolore che si produce in marzo – aprile dai fiori di Asphodelus species, una pianta spontanea dei terreni incolti e dei pascoli, che fiorisce in primavera. Il sapore dolce e il profumo sono molto delicati e per apprezzarlo va gustato senza accostarvi altri sapori che lo sovrasterebbero. L’aroma è poco persistente e leggermente acido e la cristallizzazione è molto fine.

L’asfodelo acquisì la considerazione di fiore degli inferi, come ci rammenta Omero nell’Odissea, perché era una pianta della quale ci si nutriva nei tempi di carestia come attesta Esiodo. Quando nell’antichità si decise di suddividere il mondo degli inferi secondo i meriti acquisiti, durante la vita terrena, da ogni uomo, la casa dell’Ade fu divisa in tre parti: il Tartaro per i non pii, i Prati di asfodelo per coloro che erano stati né buoni né cattivi e i Campi Elisi per i buoni. L’asfodelo acquisì tale considerazione perché era una pianta della quale ci si nutriva nei tempi di carestia. Veniva piantato dai Greci sulle tombe, perché così anche i morti, avrebbero potuto trovare il necessario nutrimento. Plinio riferisce che ai suoi tempi lo si piantava davanti alla porta delle case di campagna, come rimedio contro sortilegi negativi e che i tuberi venivano cucinati nella cenere con l’aggiunta di sale e olio, e, a suo dire, ne era ghiotto Pitagora. Fornisce diverse ricette impiegando l’asfodelo come ricostituente. Segnala che i semi immersi nel vino guarivano morsi e punture di serpenti e scorpioni. Gli autori antichi citano molte ricette per cucinare i tuberi della radice. Teofrasto sostiene che i tuberi sono la parte migliore e si è soliti mangiarli con i fichi; riferisce anche altri usi culinari e medicinali. La medicina greca lo raccomandava anche come contravveleno e panacea universale. Nel Medioevo, Alberto Magno, considerandola erba saturnina, ne lodava le proprietà: “se il tubero è poco cotto, gli indemoniati che la portano addosso sono liberati, non soffrono che il demonio stia in casa, e se fossero fanciulli alla dentizione, metterebbero i denti senza dolore, e se l’uomo porta di notte la sua radice sarà preservato da qualunque disgrazia”. La ricetta. Topinambur in padella. Ingredienti: 500 g di topinambur, olio evo, 2 spicchi d’aglio, pepe e sale. Pulite pazientemente i topinambur, lavateli, spazzolate bene la buccia e con un coltello sbucciateli. Tagliate il tubero a rondelle o a pezzetti e versateli in una larga padella dove avrete fatto rosolare, a fuoco leggero, l’aglio con un goccio di olio. Mescolate per qualche minuto, salate e aggiungete un bicchiere d’acqua. Continuate la cottura, aggiungendo acqua man mano che asciuga, fino a che i tuberi non saranno diventati morbidi. Regolate di sale, spegnete e servite il contorno caldo con una grattata fresca di pepe.