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Compendio Garibaldino

Michail Alexandrovic Bakunin, ospite di Garibaldi a Caprera nel gennaio 1864, in una lettera alla contessa Elisabeth Salhias de Tournemire, scriveva: “… Garibaldi […] è guarito del tutto, e benché zoppichi un poco è forte come un leone e sta in piedi dalla mattina alla sera. Lavora nel suo giardino […], tutto [è] seminato dalle sue mani sulla roccia e tra la roccia. La vista è triste e bellissima. Non c’è che una casa in pietra, bianca, pomposamente chiamata ‘Palazzo di Garibaldi’, un’altra piccola di ferro e una terza, ancor più piccola, di legno. Nel giardino ha giovani alberi e piante, aranci, limoni, mandorli, viti, fichi, le palmier aux dattes, ecc. ecc. e molti fiori. Erano fioriti del resto soltanto i mandorli e la bellissima rosa bianca […]”.

In queste rapide impressioni si sintetizzano il senso, il fascino, la storia, l’identità della casa dove il Generale decise di creare il luogo della vita: sua, della sua famiglia, dei suoi collaboratori e delle sue numerose ammiratrici, dei suoi compagni e soldati, dei frequenti e numerosi ospiti internazionali.

A Caprera, Garibaldi arriva nel 1855 in un periodo particolarmente difficile – dopo la morte di Anita, la caduta della Repubblica Romana, l’obbligato abbandono dei figli – e qui trascorre gli ultimi ventisei anni della sua vita, ritornandovi ogni volta dopo le imprese militari che lo videro protagonista – la spedizione dei Mille (1860), il drammatico epilogo dell’impresa per liberare Roma dal governo papalino, conclusasi drammaticamente ad Aspromonte (1862), il lapidario Obbedisco che bloccò la sua avanzata verso Trento nella Terza Guerra d’Indipendenza (1866), la partecipazione alla Guerra Franco-Prussiana (1870).

L’isola, a cui dedica il primo canto del Poema Autobiografico (“Sulle tue cime di granito, io sento / Di libertade l’aura, e non nel fondo / Corruttor delle Reggie, o mia selvaggia / Solitaria Caprera…”), diventa il teatro in cui rappresentare il rifiuto delle glorie mondane, l’aspirazione alla semplicità, alla vita rurale, al rapporto totale con la terra e il mare; una rappresentazione apparentemente rivolta solo alla cerchia di amici e familiari che condividevano la sua scelta di vita, in realtà conosciuta e apprezzata dall’Europa all’America.

Il “Cincinnato del nostro tempo”* diventa l’immagine forte che va ad affiancare e arricchire quella dell’eroe militare: su giornali, riviste a larghissima diffusione e stampe, la casa di Caprera gioca un ruolo determinante nel creare e consolidare la fama e la leggenda del Generale. Su Illustrated London News, Frank Vizetelly lo disegna mentre lavora la terra, e sottolinea “[…] Giuseppe Garibaldi, colui che ha il potere di abbattere e di creare i re, porta una carriola piena di radici che ha tolto con la zappa dal terreno pietroso…”.

Un terreno esigente e ingeneroso a cui egli si dedica con dedizione, testardaggine e meticolosa cura per tirarne fuori un paio di orti, un frutteto, un aranceto di cui andava orgoglioso, un bell’uliveto, e poi gli alveari (a forma circolare, provenienti dall’Inghilterra come la maggior parte delle attrezzature e dei macchinari agricoli più innovativi) e la grande stalla (“un asino donatomi dal signor Collins: viene chiamato Pio IX… un altro donatomi dal signor Collins: viene chiamato Don Chico [Francesco Giuseppe]… due altri comperati da Susini: vengono chiamati Oudinot e Napoleone III…” annota nei suoi Quaderni Agricoli), il mulino a vento. Alla grandezza pubblica del personaggio, la casa di Caprera risponde con l’ostentazione delle virtù private, in analogia (come ricorda Lucy Riall) con il simbolismo ereditato dalle rivoluzioni americana e francese, ad attestare la “genuinità” dell’eroe che non cede la propria integrità morale alle lusinghe della notorietà politica, che a metà degli anni Sessanta dell’Ottocento aveva raggiunto il culmine.

Garibaldi acquista l’isola – una prima parte con il proprio patrimonio, la seconda grazie a una sottoscrizione fra sostenitori inglesi capeggiati da quella Emma Roberts che da “fidanzata inglese” diventerà l’amica di tutta la vita, educatrice del figlio di Garibaldi, Ricciotti – per potervi forgiare una comunità in progress. Tutte le piccole costruzioni che si aggregano le une alle altre intorno all’ampio cortile dove oggi troneggia il pino piantato quando nacque la figlia Clelia concorrono a formare la “casa di Garibaldi”: non solo quindi la più grande, la “casa bianca” che spicca nel granito e tra le piante avvicinandosi dalla Maddalena, ma anche la piccolissima casa dove – per la prima volta sull’isola – soggiornò con il figlio Menotti, la successiva casa di legno e la “casa di ferro”, una struttura di legno rivestita in lamiera metallica, donata nel 1861 a Garibaldi dal commilitone Felice Orrigoni, che l’aveva acquistata a Londra e da lì spedita a Caprera in 38 casse, compresa quella con gli utensili per costruirla.

La casa cresce, si modifica intorno al Generale e alla comunità che con lui vive, si allarga e cambia: nuovi compagni e segretari, nuove fidanzate e mogli, nuovi figli, e sempre “pellegrini” a rendere omaggio all’Eroe dei due mondi. E ogni aggiunta, ogni ampliamento non è solo edilizio ma ancor più affettivo, sentimentale – l’ultimo, il “salotto buono” costruito in occasione del matrimonio tra Giuseppe e Francesca Armosino e ricordato dalla data (26 gennaio 1880) che campeggia sullo stipite esterno della porta finestra, diventerà la camera dove sarà trasportato il letto in cui il 2 giugno 1882 Garibaldi morirà, davanti alla finestra dove mare e terra si uniscono, là verso la Corsica.
La casa, mentre ancora Garibaldi vi abita e vi lavora, diventa luogo di pellegrinaggio e museo di memorie.

In Garibaldi a Caprera (opera ancora una volta rivolta a un pubblico internazionale e tradotta in inglese, olandese, francese, svedese e tedesco), Augusto Vecchi, colonnello difensore della Repubblica Romana, già sottolineava come il Generale e l’isola partecipassero della stessa sacralità in un diffuso e condiviso immaginario. Da questo ruolo di “museo di memorie”, di luogo legato alla creazione del mito, la casa di Caprera non si è mai allontanata: visitare oggi la Casa Museo di Garibaldi (e l’area del Compendio Garibaldino) significa ripercorrere tappe disegnate da coloro che nel corso di oltre un secolo ne hanno preservato l’aura, enfatizzato i cimeli, tolto elementi considerati non funzionali alla celebrazione dell’eroe, ricomposto gli ambienti con la volontà di preservare l’autenticità non tanto della casa quanto del luogo-icona amato e visitato.

Le stanze della “casa bianca” introducono e accompagnano il visitatore al luogo sacro e inviolabile, alla “stanza della morte” dove ogni cosa è bloccata alle 18 e 20 di quel 2 giugno 1882: dalle lancette dell’orologio all’armadio dei medicinali. I cimeli e le fotografie – sui muri, dentro le vetrine, nelle stanze: il mitico poncho, le papaline in velluto nero ricamato, le stampelle usate dopo la ferita riportata ad Aspromonte (forse un po’ troppo alte per un uomo di circa 1 metro e 65) – sono punteggiature in un crescendo emozionale che prosegue fino alle tombe, raccolte sotto gli alberi, dove a fianco di Garibaldi, sepolto in un masso di granito, riposano i figli Manlio, Rosa, Anita, Clelia, Teresita e l’ultima compagna, la moglie Francesca.

Il lanternino in ottone e vetro, a base circolare, era utilizzato dal Generale soprattutto quando doveva recarsi all’esterno dell’abitazione, all’imbrunire o durane la notte, per assolvere alle esigenze legate alla sua attività di agricoltore e allevatore.

Casa Garibaldi – Caprera