La Maddalena AnticaLa piazzaforte di latta

Conclusioni

Il commento di Radio Londra, circa la colpevole solitudine in cui sarebbero stati abbandonati a La Maddalena gli incrociatori pesanti della III Divisione, era chiaramente provocatorio. Gli stessi anglo-americani sapevano che la flotta italiana non disponeva di tante unità di scorta da poter eventualmente impegnare a favore dei soli Trieste e Gorizia. Così come non sfuggiva anche alle considerazioni dei redattori dello “Italian Service” di Radio Londra che la presenza di numerose navi di scorta, anch’esse ancorate nell’estuario maddalenino non avrebbe comunque potuto salvaguardare gli incrociatori dalle offese di quel tipo d’incursioni aeree. La loro presenza avrebbe, invece, determinato un bottino ben più consistente di quello pur conseguito dai bombardieri americani in quel terribile sabato.

Come abbiamo già commentato, fine diretto di quella insinuazione era di creare discredito nelle Forze armate e nel Paese, secondo la più classica delle operazioni di propaganda nemica nel fronte interno degli avversari, con una azione di guerra psicologica. Una tale operazione, naturalmente, risultò possibile ed efficace in quella situazione in cui lo stato delle operazioni militari già mostrava chiari i segni della imminente catastrofe. Ma tanto più fu strumentalmente credibile nel pesante clima del dopo guerra, quando insinuazioni di questo tipo favorirono una abbondante letteratura del sospetto ed una accanita caccia ai traditori, cui addossare la responsabilità della sconfitta.

La Marina, in particolare, fu oggetto di una tale operazione di discredito, ed in molti suoi uomini si gettò l’ombra infamante del tradimento, che si pretendeva provato senza indizi o prove, e basato su elementi pur verificati insussistenti. La più nota di queste situazioni fu il processo che il Tribunale speciale per la difesa dello stato della Repubblica Sociale di Salò celebrò a Parma, nel maggio 1944, contro 4 Ammiragli. Li condannò alla pena capitale, quali traditori, e la sentenza fu presentata quale interpretazione del sentimento popolare contro coloro che avevano tradito la Patria.

Anche i fatti di La Maddalena furono utilizzati a dimostrare, con insinuanti congetture, che la Marina era un covo di traditori, che essa stessa poteva considerarsi traditrice come arma, nel suo complesso. Molti autori hanno infatti presentato sia l’incursione del 10 aprile 1943, sia gli avvenimenti accaduti sempre a La Maddalena dal 9 al 15 settembre dello stesso anno, quali risultati di tradimenti, quasi a dar seguito e corpo al sospetto lanciato, con ben altro fine contingente, dai microfoni di Radio Londra.

Fu addirittura Mussolini a parlarne per primo in quei termini, riferendosi proprio all’incursione aerea contro la Base maddalenina. Così, infatti, scrisse, in terza persona nell’agosto del 1944, nel VII capitolo “Da Ponza alla Maddalena al Gran Sasso” del suo libello “Il tempo del bastone e della carota – Storia di un anno (ottobre 1942/settembre 1943)”: “Il soggiorno a La Maddalena fu abbastanza lungo …. Nessun civile era nell’isola già sfollata dopo il bombardamento del maggio, che aveva provocato danni ingentissimi alla Base e l’affondamento di due unità di medio tonnellaggio. Bombardamento misterioso, con precisa conoscenza degli obiettivi. Si vedevano ancora i relitti delle grandi navi affondate…”.

L’errore di datazione può essere giustificato per le condizioni di non documentazione in cui il redivivo scriveva. Ma particolarmente evidente appare l’intento volutamente calunnioso con cui Mussolini ha accostato il “mistero” alla “precisione” dell’intervento nemico. La volontà d’insinuazione viene ulteriormente provata dalla clamorosa bugia d’aver visto i relitti delle due navi affondate. Un tale falso non poteva che essere stato prodotto scientemente e ad arte, per dare drammaticità e peso di credibilità all’insinuazione. E’ arcinoto, infatti, che il Gorizia, pur gravemente danneggiato, riparò a La Spezia e che il Trieste s’era totalmente inabissato e non mostrava affiorante alcuna parte dello scafo o delle sovrastrutture. Ne fa fede la drammatica foto della baia di Mezzoschifo, vuota e con le bolle prodotte dall’inabissamento della nave, scattata l’11 aprile dai ricognitori americani. Di certo poi non poteva evocare alcun sospetto la capacità dei ricognitori e dei bombardieri americani d’individuare, conoscere e centrare gli obiettivi prefissati.

L’ex duce aveva già indicato qualche riga prima il “traditore”, seppur in modo subdolamente indiretto, parlando dell’incontro che ebbe al suo arrivo a La Maddalena con l’ammiraglio Bruno Brivonesi, Comandante di Marisardegna. “Questo Ammiraglio, sposato ad una inglese, aveva subito un procedimento per la distruzione di un intero convoglio di ben sette navi mercantili, più tre unità da guerra, fra cui due diecimila, e affondato al completo da quattro incrociatori leggeri con pochi minuti di fuoco, senza subire la minima perdita. L’inchiesta condotta dalle autorità della Marina con evidente negligenza, non portò che a sanzioni di carattere interno contro questo ammiraglio, direttamente responsabile della perdita di dieci navi e di parecchie centinaia di uomini”.

Mussolini si riferiva all’episodio relativo all’annientamento del convoglio “Duisburg”, dal nome del piroscafo capo convoglio, che l’8 novembre 1941 partì da Messina per la Libia, e che la notte successiva si imbatté nella cosiddetta “Forza K” britannica. Questa, dotata di radar distrusse il convoglio in soli 7 minuti e si dileguò altrettanto rapidamente, sottraendosi alla risposta della scorta, tra cui figurava lo stesso Trieste, su cui in quel momento issava la propria insegna di Comandante della III Divisione l’Ammiraglio Bruno Brivonesi. Additato quale responsabile, questo Ammiraglio fu sottoposto, su sollecitazione di Mussolini che si aspettava una soluzione esemplare, al Tribunale Militare di Guerra di Roma con una imputazione che prevedeva la pena di morte. L’istruttoria durò ben otto mesi, ed a conclusione il Tribunale scagionò Brivonesi da tutte le imputazioni con la formula del “non luogo a procedere”. Ci fu anche un’inchiesta amministrativa che evidenziò solo errori tecnici.

Non a caso Mussolini non presentava i risultati del procedimento penale. Quando scriveva quel testo era in pieno sviluppo la campagna diffamatoria sulla responsabilità della Marina circa l’esito infausto della guerra. Si trattò di una campagna orchestrata dalla Repubblica Sociale di Salò, e che fu attuata soprattutto con la stampa e addirittura con manifesti murali. Il giornale di Farinacci, il gerarca fascista più vicino al nazismo, in una serie di articoli sulla guerra navale, utilizzò ampiamente l’episodio del convoglio “Duisburg”. Operò anche una grossolana falsificazione della data della circostanza, che fu indicata nel 9 novembre del 1942, per metterla in correlazione al dramma di El Alamein e far credere che quella sconfitta fosse il risultato del mancato arrivo di quel convoglio. Negli stessi articoli si sosteneva, secondo quanto ne riferisce il Comandante M.A. Bragadin nel suo noto libro “Il dramma della Marina Italiana”, che l’Ammiraglio Brivonesi avesse preso preventivi accordi con il nemico in ordine alla distruzione del convoglio.

Che anche le affermazioni di Mussolini espresse nella sua “Storia di un anno” rientrino in questa campagna lo si evince dal confronto con quanto scrive nel suo diario di prigionia, nell’agosto dell’anno precedente, ed in condizioni di assoluto disinteresse. In esso non compare alcun segno di difficoltà nei rapporti tra i due, e si legge di alcuni incontri avvenuti sia a due che in presenza di altri.

Con greve ironia lo stesso Mussolini attribuì all’“Intelligence Service” la scelta di La Maddalena e di villa Weber quale luogo della sua prigionia.

Il messaggio mussoliniano fu raccolto e diffuso da molti autori che, nell’immediato dopo guerra, fecero largo uso del venticello della calunnia nei pamphlets e negli articoli giornalistici. Per ciò che riguarda i fatti maddalenini ne troviamo alcuni riscontri scritti negli interventi di un polemista locale di buon livello, quale fu Aldo Chirico. Medico, con la vocazione di scrittore, gerarca fascista locale e podestà, protagonista della vita politica maddalenina anche nel periodo post bellico. Ebbe notorietà per lo scambio epistolare che riuscì ad intrattenere con Mussolini nei venti giorni di sua prigionia nell’isola.

A cavallo tra la fine del 1948 e gli inizi del 1949, “la Nuova Sardegna” ospitò molti suoi scritti in occasione della polemica sollevata da un libro dell’Ammiraglio Maugeri, allora Capo di Stato Maggiore della Marina, e pubblicato negli Stati Uniti. Chirico affermava d’aver saputo dalla testimonianza di moltissimi ufficiali di Marina di episodi di guerra “nei quali solo la parola tradimento poteva giustificare l’evoluzione di strane situazioni, di strani ordini e contrordini, esiti di missioni o rotte invertite o addomesticate”.

Poi Chirico passò ad utilizzare i fatti maddalenini: “Le stesse vicende cronologiche dei bombardamenti alla Maddalena hanno, ad esempio, fatto sorgere nel grosso pubblico degli interrogativi che ancor oggi attendono risposta. Era comunque aspramente criticato il comportamento di un capo che il destino ha visto lontano dalle incursioni aeree…”.

E’ poco probabile che la “voce” fosse nata originariamente e spontaneamente dal “grosso pubblico”, e fosse quindi “vox dei”. Molto più probabilmente essa venne diffusa strumentalmente tra la gente a scopo eminentemente politico. Sta però di fatto che anche autori ideologicamente e politicamente non compromessi, o comunque non interessati, riproposero dubbi e sospetti sugli stessi episodi. Da ultimo riportiamo quelli formulati da E. Casazza, maddalenino ed allora Segretario comunale di La Maddalena che visse l’attacco del 10 aprile dal Municipio, a conclusione della sua giornata di lavoro. La sua testimonianza, raccontata ne “La Nuova Sardegna” del 17 aprile 1977, introduce tutti i sospetti possibili. “Alle 14.05 apparvero da Monte Altura i bombardieri nemici, a nugoli come cavallette. Non si ebbe il segnale di preallarme, né quello di allarme. Chi scrive si trovava a quell’ora, in ufficio in comune e ricevette comunicazione telefonica della moglie che gli segnalava il passaggio su Luras di aerei con direzione La Maddalena, esortandolo a mettersi in salvo. La rete di sorveglianza della munitissima Piazzaforte taceva!”. Oltre a ciò l’autore denunciava il continuo lassismo con cui, a suo dire, si permetteva la quotidiana ricognizione da parte degli aerei nemici. “quasi in fase turistica, rilevando e fotografando i dati necessari al bombardamento”. Ma la vera denuncia la formulava ripetutamente a proposito dell’immobilità in cui venivano tenuti gli incrociatori: “inopinatamente a barba di gatto nella stessa baia”. Senza poter considerare l’impossibilità di una pur minima capacità d’interdizione aerea contro le ricognizioni da parte della nostra Aeronautica, e la gravissima insufficienza di carburante navale che annullava la mobilità delle unità navali, l’autore concludeva amaramente: “E’ stato detto discutibilmente che i popoli non hanno bisogno di eroi. Aggiorniamo, parodiando, che i popoli non hanno bisogno di traditori”.

Alla Maddalena l’opinione dominante é sempre stata vicina a quella rappresentata in quest’ultimo testo. Nella popolazione più adulta, che ancora ragiona su questi episodi, e li rievoca con appassionata memoria, rimane la stessa. Si tratta, forse, più di un “sentimento” che di una vera e propria opinione ragionata. Un sentimento a fior di pelle, che non riesce ad organizzare razionalmente neppure alcuni elementi certi di analisi. Se la “sensazione” può essere giustificata per i commenti e l’opinione dei testimoni contemporanei e diretti, che sono compartecipi anche di quella “sensazione”, non é invece accettabile nelle ricostruzioni storiografiche a distanza di 50 anni, cui é obbligatorio pretendere rigore di riscontro documentario, se la si propone come propria tesi. Non poca meraviglia ha destato, infatti, che in una rievocazione sui fatti di sangue accaduti a La Maddalena l’8 settembre 1943 – recentemente pubblicata – si riproponga la presunta responsabilità dell’Ammiraglio Bruno Brivonesi sul bombardamento del 10 aprile dello stesso anno. A tale proposito si scrive che le “fortezze volanti” statunitensi, che diventano stranamente anglo-americane, avrebbero colpito i bersagli perché ben segnalati da una spia del posto. Subito dopo le “fortezze” diventano, in questo stesso racconto, tout court inglesi e colpiscono con millimetrica precisione quando proprio il Comandante di Marisardegna era assente. La mancanza di documentazione probante l’assenza del personaggio o la non casualità della stessa, viene colmata con una insinuazione sibillina quanto calunniosa: Brivonesi era sposato ad una inglese (e questo lo sapeva già lo stesso Mussolini come abbiamo visto in precedenza), ed era anche cognato di un comandante della Royal Air Force britannica. Ergo!. C’é il tanto di “sparare”, giornalisticamente, la notizia.

Secondo questa visione, però, un capo traditore avrebbe potuto rendere possibile da solo quanto aveva bisogno di una vastissima rete di complicità. Oppure avrebbe dovuto concordare con i suoi colleghi dell’Aeronautica Sardegna di lasciare indisturbate le ricognizioni degli Alleati sull’arcipelago, bloccando le elevate capacità operative della nostra caccia che purtroppo invece non c’erano. Avrebbe dovuto altresì determinare, con la complicità di moltissimi ufficiali dell’Esercito, la cecità e la sordità di tutto il sistema di avvistamento, ammesso e non concesso che fosse adeguato e che non soffrisse delle pesanti lacune tecniche di cui in realtà soffriva. Avrebbe dovuto, infine, con la correità del Comando della III Divisione e dei Comandanti delle due unità, bloccare i due incrociatori nei recinti retali perchè fossero facile bersaglio, sebbene la nafta scorresse a fiumi, mentre invece erano pressoché a secco sia i serbatoi di bordo che i depositi a terra.

Seppur é vero che non tutti e non molti furono eroi, é ancor più vero che non tutti furono traditori, e neppure molti. Certamente nessuno aveva operato tradimenti in occasione dei fatti narrati. La ricostruzione storiografica dell’attacco del 10 aprile, letta nel contesto più ampio in cui quell’attacco era inserito, intrecciato ai vari problemi che travagliavano quel grave momento della vita nazionale, e documentato con i materiali archivistici, ha voluto integrare la memoria individuale e collettiva di elementi d’informazione e d’analisi più oggettivi.

Solo così il giudizio sui fatti può e deve essere ridefinito a cinquant’anni di distanza dal loro accadimento, cogliendo il momento celebrativo dell’importante anniversario, che é sempre occasione privilegiata di rievocazione.

Quel terribile sabato, in cui la violenza distruttrice della guerra si abbatté dal cielo sugli uomini e le cose che vivevano e stavano nella Base maddalenina, non può più essere considerato frutto malvagio di un tradimento di uomini spregevoli. E’ uno dei tanti tragici e dolorosi episodi accaduti in una lunga e sanguinosa guerra la cui responsabilità va interamente addebitata a chi l’ha voluta ed imposta a tutto un popolo.