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Il consolidamento del metodo

In ogni caso, l’esperienza con Francesco Rosi, ed il lavoro sul Giuliano, sono da considerarsi cruciali per la carriera di Solinas, per lo sviluppo del suo stile e per il consolidamento del metodo attraverso il quale sviluppare un processo creativo. Infatti a partire da questo momento Franco Solinas inizia a definire con maggiore rigore e precisione il suo metodo, tra ricerca e perfezionamento stilistico, ma soprattutto a maturare è la poetica dello scrittore sardo. Le descrizioni sono occhiate pure, le sensazioni sembrano autodefinirsi in poche parole. Dietro la perfetta spersonalizzazione della scrittura si cela l’ambiguità dei personaggi di Solinas che pian piano si spogliano di ogni sovrastruttura, per mostrarsi per quello che sono e per apparire sempre più ambigui, sempre più fortemente umani e privi di tipizzazione. In oltre, è con questo film che certamente prende avvio l’oggettiva presa di coscienza dello sceneggiatore, che raggiunta una certa credibilità nell’ambiente, si spinge verso il terzomondismo e gli argomenti di impegno sociale, senza che queste definizioni possano considerarsi sufficienti a spiegare integralmente la portata del suo lavoro. Il periodo che va dal 56 ai primi anni sessanta, è quello nel quale si rivela più che un metodo, una coerenza espressiva, una caparbietà e una volontà di critica e di apertura che condurranno Franco Solinas al suo personalissimo stile, riconoscibile spesso anche in opere non completamente sue. Certamente il tempo da dedicare alla ricerca è ritenuto fondamentale. Una ricerca sul campo, condotta senza risparmiarsi, se necessario in lungo e in largo per il mondo e direttamente derivata dagli eterogenei metodi di ricerca sul campo di stampo neorealista. Sempre più importante nel metodo di Solinas è l’individuazione e l’isolamento del tema che avviene attraverso il confronto con i collaboratori. Senza il tema non ci può essere la sceneggiatura e di conseguenza il film, ma non basta il tema, serve, in questo Solinas si rivela presto un maestro, la sua giustapposizione letteraria, in una forma che sia ad un tempo espressiva, leggibile e interpretabile per il regista e l’intera troupe. In lui si possono notare come distinti e riuniti allo stesso tempo, l’interesse quasi scientifico per la politica e l’uomo inserito nella società, e quello per l’umanità nel suo insieme, inteso come analisi della vita e dell’esistenza scevra da legami politici. Non certamente digiuno della lezione pudovkiana, proprio in questo senso la sua attenzione principale era rivolta ad individuare il messaggio da mettere in scena in relazione con un racconto per immagini e alla maniera ottimale per raccontarlo. Nella fase successiva al tema arriva il racconto, o meglio il soggetto. Il tema si organizza attorno ad un nucleo narrativo, uscendo dall’astrazione, per trovare un collegamento organico con la storia. Secondo questa riflessione, la sceneggiatura nasce da un progetto comunicativo e ideologico, da un messaggio, per trasformarsi in un processo organico, in un racconto sceneggiato, in cui si descrivono nel dettaglio personaggi e azioni, ponendo attenzione sia agli elementi visivi che a quelli drammaturgico narrativi, visualizzando con cura l’azione e prevedendone risvolti psicologici e struttura drammatica. Ecco l’iter pratico e teorico che Solinas segue nell’ideare le sceneggiature. Un percorso facilmente apprezzabile nella lettura di ogni suo lavoro. Egli riponeva inoltre grande attenzione alla scrittura, una cura certosina nell’uso di ogni singola parola la quale veniva soppesata e spesso discussa per ore col collaboratore di turno. La letterarietà nella scrittura del soggetto, l’attenzione per la forma nel trattamento e successivamente nelle varie versioni della sceneggiatura, è un tratto distintivo fondamentale del suo stile. Per Solinas un argomento importante non poteva che essere descritto attraverso uno stile altrettanto curato. Il lavoro di scrittura non si esaurisce dunque nell’intreccio e nella sua visualizzazione, ma implica la ricerca di volti, gesti, oggetti e spazi, capaci di raccontare al meglio, con una forza simbolica di rappresentazione, la storia, e si fonda sulla necessità di fornire al regista, non solo e semplicemente le scene, ma anche le sensazioni, attraverso descrizioni ambientali e suggestioni assai rare da ritrovare comunemente in una sceneggiatura. In lui vi è la necessità di proporre storie attraverso una meticolosa e pignola ricerca dell’essenzialità, della precisione stilistica e della cura matematica nel costruire la struttura. Nascono già all’insegna di questa ferma volontà di chiarezza, della necessità di divulgare un messaggio, un tema, le sceneggiature di Giovanna, La grande strada azzurra e Kapò. La volontà zavattiniana di voler trasferire il proprio mondo interiore, non solo dalla mente alla pagina, ma bensì dalla pagina al film, di non accontentarsi di un semplice contributo tecnico, guida la ricerca dell’espressività.
Solo più tardi, Solinas si dirà deluso dalla proverbiale invisibilità del suo mestiere, quando, col passare degli anni, quell’entità di regista e sceneggiatore, una volta ben distinte, iniziano a confondersi, un po l’effetto Zavattini, un po. per l’avanzare del cinema d’autore, un po. per quel fenomeno specificamente italiano che vuole che i registi siano stati in precedenza sceneggiatori, e che in conseguenza di ciò, una volta passati alla regia continuino a lavorare alla scrittura del film.
Gli anni 60 sono quelli turbolenti di un’Italia e una politica mondiale in subbuglio, stravolta dall’affacciarsi del terzo mondo sulla scena politica mondiale, ma anche dalla contestazione studentesca su scala planetaria, dalla drammatica guerra in Vietnam e dai fatti di Praga. Per Franco Solinas questi sono anche gli anni di dure battaglie condotte attraverso l’ANAC che culmineranno nella protesta durante la mostra del Cinema di Venezia del 1968, e nella scissione dell’associazione tra chi si diceva fermamente convinto della necessità per gli autori di una partecipazione attiva nella formazione di una coscienza critica e politica nella gente (Maselli e Solinas sono tra questi) e coloro i quali invece non credevano che un’associazione di autori dovesse proporsi come momento culturale del paese operando scelte che andassero oltre i confini della professionalità e non fosse dunque esclusivamente incentrata sulla difesa sindacale degli interessi professionali degli stessi autori.
Subito dopo il Giuliano nel 1962, e ancora grazie a Cristaldi, Solinas si rimette alla ricerca di un nuovo tema per un film di Pontecorvo. Come noto, dei tre temi che lo sceneggiatore propose a Cristaldi, La Fiat, l’adattamento del racconto Bartleby lo scrivano di Melville (che diventava un operaio) e il terzo mondo, si scelse quest’ultimo tema. Sceneggiatore e regista vanno in Algeria, all’indomani dell’indipendenza, per compiere le dovute ricerche dalle quali nasce la sceneggiatura di Parà, che, come vedremo nell’ultima parte di questo lavoro, ha una valenza genetica per tutta la filmografia successiva dell’autore sardo. Tuttavia il lavoro non divenne mai un film, costituendo la prima vera delusione per il Solinas sceneggiatore, che, negli anni che seguiranno, vedrà sì crescere il suo prestigio come autore, parallelamente al rifiuto da parte di produttori o distributori, di alcune delle suo opere più significative.

Gianni Tetti