CronologiaMillesettecento

Correva l’anno 1729

La popolazione della città di Bonifacio continua ad aumentare, raggiungendo le 2409 persone.

31 marzo

Un pregone promette l’impunità ai rei che favoriscano la cattura dei banditi ricercati per delitti di uguale o maggiore gravità.

29 luglio

Negli stati sabaudi entra in vigore la raccolta delle Leggi e costituzioni di S.M., riveduta e ampliata rispetto a quella del 1723.

31 luglio

Il viceré comunica che le galere sarde si sono spinte a corseggiare fino alle coste della Barberia. Nello stesso anno in Piemonte il governo sottrae agli ordini religiosi il monopolio dell’istruzione secondaria, chiamandoli a collaborare all’interno di un nuovo e riformato ordinamento scolastico.

11 ottobre

La corte torinese, scrisse al viceré, marchese di Cortanze, nell’ottobre del 1729: “doversi riputare usurpativo il possesso [delle isole Intermedie] ed ordinogli di mandare alli Giudici, a cui poteva spettare l’uso di dette isole, di far intendere alli pastori corsi di non introdurvi più li loro bestiami al pascolo senza la loro licenza, qual però veruna volta si dovesse negare e senza pagamento. E inoltre di valersi dell’opportunità delle galere per cacciarli ogni volta quando fossero renitenti a chiedere detta licenza, facendovi fare atti possessori affine di esercitarvi la sovranità ed escludere quella che ne potesse pretendere la Repubblica di Genova”. Il reggidore feudale di Tempio mandò in missione nelle isole il proprio luogotenente, che nel febbraio del 1730 incontrò per la prima volta ufficialmente i pastori corsi, cui intimò di richiedere la licenza di pascolo. Questi, con una certa malizia istintiva, non opposero alcun rifiuto esplicito, ma risposero che la decisione di ottemperare a quanto veniva ordinato non spettava tanto a loro quanto ai padroni del bestiame, i signori bonifacini per conto dei quali lo governavano. L’azione dilatoria non piacque al viceré, e il luogotenente tempiese dovette ritornare nelle isole per rinnovare l’intimazione in termini più pressanti. Ma anche i padroni bonifacini, tempestivamente informati delle pretese sarde, prepararono la loro contromossa, facendo intervenire il commissario di Bonifacio. Questi vietò ai patroni dei legni frequentatori delle isole, e che facevano capo alla sua giurisdizione, di trasportarvi qualsiasi sardo e tanto meno i ministri di giustizia galluresi. Addirittura, ordinò loro di dissuaderli anche con la minaccia delle armi, per cui furono provveduti di polvere e palle. In quella occasione, quindi, il funzionario tempiese, giunto alla marina di Mezzo Schifo del Parau, subì il rifiuto di trasporto sia da un legno corso che da uno napoletano, e non poté svolgere la missione affidatagli.
Si ripiegò, allora, sulla mediazione di un pastore sardo che riuscì a contattare i propri colleghi isolani, cui rinnovò l’invito a munirsi di licenza con la debole minaccia che altrimenti se ne sarebbe scritto al viceré. Incredibilmente il pastore mediatore riferì che i corsi avevano aderito a richiedere la licenza di pascolo, per cui era necessaria la presenza del funzionario che gliela concedesse. La singolare novità fu accolta con riserva soprattutto dalla corte torinese, che subodorando un tranello determinò di non esporre un funzionario del re al rischio di un grave affronto, ma di rinnovare l’invio dello stesso pastore, magari accompagnato da altri pastori galluresi, per riverificare le intenzioni dei maddalenini e caprerini. Mentre si preparava la disposizione in tal senso per il governo cagliaritano, giunse a Torino la notizia dalla Sardegna che il 29 giugno 1730 il solito luogotenente gallurese era invece riuscito a sbarcare alla Maddalena, a contattare quei pastori e a rinnovare ancora una volta l’ordine a richiedere licenza. Anche stavolta il funzionario sardo si trovò di fronte ad un rinvio di decisione, frutto evidente di una ben studiata tattica dilatoria. “Fugli da questi risposto – infatti – che dovendo fra pochi giorni aver compita la raccolta de’ grani dovevano ritirarsi a Bonifacio ed abbandonare le isole e che li padroni de’ bestiami darebbero provvidenza per essi, per qual cagione non andavano a prender la licenza”. A questo punto, complice anche un cambio di viceré nella conduzione del governo cagliaritano, si bloccò l’attività di rivendicazione della sovranità sarda sulle isole, i pastori corsi non ne seppero più niente sino al 1736 e continuarono indisturbati a utilizzare i pascoli maddalenini.

27 dicembre

La storiografia contemporanea è ancora in forte discussione sulla definizione di rivoluzione alla guerra d’indipendenza corsa del XVIII secolo. Al di là delle contrapposizioni, più o meno forti, tra gli storici corsi e francesi, spesso il problema è stato discusso senza un’analisi approfondita delle fonti archivistiche; si è trattato, a volte, di prese di posizione nazionalistiche per la difesa della “Corsica piccola nazione all’interno della Francia grande nazione”, oppure della dimostrazione, più o meno scientifica, della continuità ideologica tra la Rivoluzione corsa e la Rivoluzione francese; oppure lo studio della Corsica paolina è stato affrontato solo in prospettiva dell’avvento di Napoleone, dimenticando l’identità, la specificità ed i limiti delle vicende isolane. Sotto questo aspetto, dall’analisi della storiografia francese, inglese ed italiana più recente e grazie allo spoglio di nuove fonti archivistiche, sembrerebbe che il grande sconvolgimento dell’isola a cavallo tra la dominazione genovese e quella francese, sorto inizialmente come una rivolta, sia diventato, con il passare degli anni (e dopo l’intervento di Pasquale Paoli) una rivoluzione a carattere nazionale. La tradizione vuole che tutto abbia avuto inizio il 27 dicembre 1729, in un villaggio del Bozio, a Bustanico. Un contadino miserabile (Antonfrancesco Lanfranchi, detto Cardone), si vide rifiutare come falso il baiocco che gli reclamava il collettore d’imposte e venne minacciato d’arresto. Egli allora coinvolse i suoi concittadini nella disputa, che si sollevarono contro il percettore genovese e lo costrinsero alla fuga: l’immaginario popolare, che ha bisogno di concretizzare la storia, ha fatto di Lanfranchi il simbolo dell’oppressione genovese. Gli abitanti dei villaggi vicini si rifiutarono di pagare l’imposta, costringendo gli sbirri del collettore a ritirarsi a Corte. Il moto si estese a macchia d’olio nelle altre pievi: imbaldanziti dal successo iniziale e dall’umiliazione inflitta alle truppe regolari, i ribelli cercarono di coinvolgere chiunque si opponesse alla politica genovese. Alcuni banditi approfittarono del caos generale per fare dei colpi di mano. Questi attacchi non contribuirono ad esaltare l’immagine di facciata della rivolta agli occhi delle autorità genovesi e dei notabili corsi, diffidenti davanti al dilagare della rivolta ed intimoriti dalle spoliazioni dei beni demaniali. Ma in un primo tempo la sollevazione sembrava dilagante: grazie al saccheggio dei depositi di armi, gli insorti erano in grado di predisporre un’operazione militare in grande stile. Nel febbraio 1730 una piccola armata mise a sacco Bastia per tre giorni. Nello stesso anno furono attaccate San Fiorenzo, Algajola, Ajaccio e la colonia greca di Paomia, soccorsa in seguito dai genovesi. In Corsica vigeva la totale anarchia: il vuoto politico venne rapidamente colmato da tutti coloro che potevano dare un contenuto a questa prima rivoluzione: i notabili e i Nobili Dodici. Non si può dire con certezza se, da parte loro, si è trattato di un abile recupero di un movimento che li aveva inizialmente sorpresi ed inquietati o, al contrario, della presa di coscienza delle reali cause della rivolta e di un sincero desiderio di assumerne la responsabilità. Di sicuro coloro che avevano inizialmente assecondato il governatore Pinelli nella riappacificazione civile e nella repressione della rivolta si erano messi a capo degli insorti. L’evoluzione dei fatti accelerò il rovesciamento delle posizioni: nel dicembre 1730, a San Pancrazio di Furiani, i rivoluzionari elessero tre capi: Luigi Giafferi, per i notabili d’origine popolare; Andrea Ceccaldi Colonna, di Vescovato, per i nobili; Marc’Aurelio Raffaelli, d’Orezza, per il clero11. I tre “Stati” della società erano ormai alleati, anche se gli obiettivi dei capi erano modesti e portavano l’impronta ideologica della classe dominante. Questi interessi si traducevano perfettamente nelle lamentele presentate dalle pievi al nuovo commissario generale, Veneroso, nel maggio 1731 e comprendevano esigenze d’origine popolare, borghese e feudale, rispecchiando l’amalgama ideologico della prima fase rivoluzionaria.
Le lamentele sull’eccessiva fiscalità genovese erano prevalentemente di matrice popolare. I contadini ed i pastori proponevano di ridurre la taglia a 20 soldi, con la soppressione dell’imposta dei due seini; aggiungevano, poi, le doglianze sulla gabella del sale, le recriminazioni contro l’insicurezza dovuta al banditismo e le richieste per il ristabilimento del porto d’armi. Le richieste dei notabili possono essere ricondotte alla nostalgia di una feudalità quasi scomparsa: richiesta di ripristino del titolo di Baroni del Regno, della primogenitura e di altre prerogative feudali. Più concrete e dettagliate le richieste della classe borghese-notabilare, intenzionata ad ottenere l’accesso alle cariche di responsabilità nell’amministrazione, nell’esercito, nella magistratura e nel clero. Propriamente economiche, infine, le lamentele del notabilato fondiario, promotore dell’espansione agricola isolana: proteste contro le tasse eccessive, contro il monopolio dei mercanti genovesi, contro il protezionismo di Genova e contro tutti gli intralci alla prosperità economica, con conseguente richiesta di sovvenzioni per l’agricoltura.
Nell’insieme, quindi, nulla di sovversivo, di rivoluzionario. L’ordine sociale non era messo in discussione; il principio di obbedienza alla Repubblica, di fedeltà al Principe era costantemente riaffermato. Non è facile comprendere quando sia avvenuto il punto di rottura tra i ribelli e la Dominante: probabilmente la moderazione dei capi si è trasformata in rottura per la scarsa attenzione dei Serenissimi Collegi. La presa di Bastia, nel febbraio 1730, aveva costretto i genovesi ad una politica più energica: il nuovo governatore, Veneroso, fece esporre sulle mura della città il corpo del bandito Fabio Vinciguerra e mise a ferro e fuoco Vico e Furiani, villaggi focolai della ribellione. A questa repressione seguì un nuovo attacco dei ribelli contro Bastia: in città scoppiò il panico e molti ricchi commercianti si rifugiarono in Italia. Il successore di Veneroso, aiutato dal vescovo di Mariana, ottenne una tregua di quattro anni, concedendo la diminuzione delle imposte. Apparentemente, la pace sembrava raggiunta: in realtà gli insorti avevano preso coscienza della loro forza ed i nuovi capi eletti nella Consulta di San Pancrazio, nel dicembre 1730, preparavano un nuovo attacco.