CronologiaMilleottocento

Correva l’anno 1887

Sindaco di Bonifacio è Paul Serafino; gli abitanti sono 3357. Si stabilisce di creare una stazione di soccorso con un battello attrezzato per intervenire in mare in caso di necessità. La cittadina subiva rapidi cambiamenti in funzione della base militare che facevano balenare speranze di lavoro anche in località molto lontane dalla nostra. Probabilmente a seguito delle notizie date dai giornali sul nuovo ruolo dell’arcipelago, il sindaco di Signa scriveva al suo collega maddalenino che “diversi scalpellini di questo comune desiderano sapere se sia vero che costà si stanno attualmente eseguendo lavori per la costruzione di forti e per l’ingrandimento del porto marittimo, poiché essi bramerebbero se fosse possibile, prender parte ai lavori stessi essendo attualmente disoccupati”..

Per dare un’idea del rapido cambiamento che riguardava La Maddalena in quegli anni basti pensare che nel triennio 1885-87 la quantità di merci transitate nel porto di Cala Gavetta era pari a 3.000 tonnellate, nel triennio 1889-91 pari a 32.000 tonnellate. Nel 1881 gli abitanti erano 1895, nel 1892 circa 7.000. Furono le grandi manovre navali della flotta italiana del 1887 che sancirono l’importanza strategica difensiva dell’Arcipelago di La Maddalena e la sua improbabile conquista da parte della Francia. Quelle complesse manovre ipotizzavano quattro momenti: l’attacco francese nello stretto di Messina e la sua difesa, lo scontro della flotta francese contro la flotta italiana ad Augusta, un combattimento nelle acque antistanti Livorno e le operazioni anfibie italiane congiunte tra Esercito e Marina. Al termine delle operazioni, che impegnarono buona parte della forza navale della Regia Marina, risultò che l’ancoraggio di La Maddalena si dimostrava eccellente per la flotta che avrebbe dovuto difendere l’Italia, ma che non avrebbe costituito un obbiettivo prioritario dei francesi per trasformarla in una base attaccante. Si era infatti ipotizzato che la Francia potesse tentare di bloccare la flotta italiana a La Maddalena ma qualora questa non fosse stata nell’isola si pensava che i francesi potessero occupare La Maddalena per avere da qui un punto per andare ad attaccare la nostra flotta. Ma dalle esercitazioni si era capito che non l’avrebbero fatto perché La Maddalena era eccezionale per scopi difensivi ma non era in grado di fungere a punto di partenza per un’eventuale invasione nel territorio italiano. Il motivo era che difettava di quelle risorse strategiche (capacità di rattoppo delle navi, industrie della difesa collegate al territorio, capacità di sostenere a lungo una grande quantità di uomini e mezzi che invece erano fondamentali per chi aveva in animo di invadere il territorio italiano).

Partono i lavori per l’opera di Guardia Vecchia già Forte S. Vittorio. Il primo nucleo costitutivo dell’insediamento militare denominato oggi Opera Guardia Vecchia risale alla fine del XVIII secolo; si trattava di un forte realizzato sul punto più elevato dell’isola de La Maddalena, in ragione delle necessità tattiche e di difesa delle prime fortificazioni a mare dell’arcipelago. Fu disegnato dall’allora comandante della base di La Maddalena, il savoiardo Andrea des Geneys, su rilievo del sottotenente di fanteria e regio piloto Giuseppe Albini. Il Forte, inizialmente intitolato a San Vittorio, constava di un fabbricato a pianta ottagonale (sulla quale oggi è innestato il faro) contenente due camere, tre piccoli magazzini adibiti a deposito di attrezzi, viveri e polveri, e due sotterranei. Sulla terrazza i lati est ed ovest ospitavano le bocche da fuoco da 8 e da 16, mentre quelli a sud e a nord erano sistemati in modo del tutto originali rispetto alle altre fortificazioni: sul primo infatti il quartiere per la truppa era occupato al centro da una piattaforma per un cannone; l’altro lato era costituito da una torre sopraelevata, con copertura interna a volta, sormontata da una piattaforma, sulla quale trovava posto un altro grosso cannone su base mobile rotante. Dal principio del XIX secolo fu utilizzato anche come prigione; nel 1821 ospitò il cagliaritano Vincenzo Sulis, capopopolo della rivolta antisavoiarda del 1793. Il Forte è puntualmente descritto e rilevato in una relazione del 1821 a cura dell’Aiutante di prima classe nel Corpo Reale del Genio Civile G. Dervieux; nonché nei successivi disegni del 1853.

Il 1887 è anche l’anno in cui iniziò la rivoluzione sociale, economica ed urbanistica dell’isola. Sino ad allora il cuore era Cala Gavetta, da quel momento l’asse si sposterà verso piazza Comando. L’immagine è emblematica proprio perché ci mostra la tipologia edilizia divisa in due parti nette, che coincidono con la metà della foto. La parte di ponente con una tipologia edilizia più ricca, con manufatti di buon pregio. La parte di levante con abitazioni basse, architettonicamente più povere. In una ventina d’anni l’assetto urbanistico ed edilizio si trasformò profondamente, avendo come centro la piazza Comando.

Il ristabilimento della piazzaforte condusse verso un rapido miglioramento generale, che la città registrò come un indice sensibilissimo nel suo ampliamento edilizio. Le costruzioni civili e militari si estesero lungo tutto il settore costiero meridionale dell’isola sino a Punta Moneta, circondando di banchine, di scali e di magazzini la Cala Mangiavolpe, Cala Chiesa, Cala Camiciotto, Cala Camicia, adattando, scavando e dragando la costa e il mare antistante. Gli alloggi per i militari e per i civili addetti all’arsenale, si svilupparono nel declivio retrostante, con un piano regolatore razionalmente attuato, con palazzine a più piani ed a più appartamenti, trasformando l’incolto e aspro paesaggio originario in una città giardino dalla folta e vivace fioritura subtropicale. Il nuovo impianto edilizio, considerato nel suo intero complesso polifunzionale estendeva improvvisamente di circa sei volte l’area urbana de La Maddalena, con un fervore di opere pieno di eccitato dinamismo. Naturalmente altro lavoro veniva febbrilmente svolto in altre parti della stessa isola e in altre isole dell’arcipelago, ove si costruivano basi appoggio per rifornimenti, fortini di varia potenza, caserme di diversa grandezza, polveriere, ecc. Tutti questi apprestamenti, effettuati secondo un piano organico ed ovviamente rivolti ad un unico scopo, richiedevano un fitto ordito di comunicazioni per mare e per terra. La viabilità interna, pur trattandosi di strade militari, si avvantaggiò notevolmente; non si trattò di strade le quali, una volta costruite, vengono poi trascurate sì che scompaiono in pratica dalla realtà e rimangono nel convenzionale simbolismo di una carta geografica, ma di strade con manutenzione sempre adeguata a rispondere agli scopi militari. Pur con qualche limitazione, le strade hanno servito il traffico civile ed hanno reso possibile la valorizzazione agricola di alcune aree periferiche, con aumento nel prezzo dei suoli, ma con l’evidente convenienza a costruire ed a rimanere in campagna. In questo periodo – 1890 – Maddalena e Caprera furono collegate via terra con una diga bassa, lunga 600 m, interrotta da un ponte girevole. Nel 1887 una linea marittima collegava La Maddalena con Golfo Aranci – Terranova e Cagliari. (Nel 1908 il collegamento con La Maddalena divenne giornaliero).

A bordo della nave Savoia arrivano il re Umberto I e il ministro della difesa.

Si delinea il Regio Catasto con tutte le proprietà fondiarie costituenti il paese.

Sulla nave trasporto militare Dora, ormeggiata alla banchina di levante di Cala Gavetta, si segnala un caso di vaiolo che ha colpito il domestico dell’ammiraglio Saint-Bon, sbarcato dall’incrociatore Savoia.

29 gennaio

Il Ministro dei Lavori Pubblici nominò una Commissione con l’incarico di studiare il riordino dei servizi postali e commerciali marittimi, con il duplice scopo di ottenere maggiore rapidità nelle comunicazioni postali con le Isole e con l’Estero e suggerire i provvedimenti da adottare. La Commissione, presieduta dal senatore Brioschi, lavorò bene e rapidamente, completando lo studio dopo sette mesi dall’incarico. La relazione finale prese lo spunto dal congresso delle Camere di commercio, tenutosi a Torino nel 1884, nel quale fu approvato il seguente ordine del giorno proposto dal delegato sardo cavaliere Princivalle: “Che in via di eccezione si possa pure accordare una sovvenzione per le linee tra l’isola di Sardegna e il Continente Italiano, a condizione che il limite massimo delle tariffe per le merci e i passeggeri non dovessero eccedere i noli più vantaggiosi che si praticano nelle altre linee del litorale italiano, tenuto conto delle rispettive distanze”. Furono stampate delle copie e inviate anche alle Camere di Commercio in Sardegna per ricevere le loro osservazioni. Queste ultime, nel rispondere al questionario della Commissione, confermarono l’opportunità di concedere le sovvenzioni a scopo postale e commerciale, rilevando la necessità che le linee marittime in attività dovessero considerarsi come altrettante linee ferroviarie, che trasportavano, con l’obbligo di orari fissi, passeggeri e merci e rendendo facili le comunicazioni tra le Province più lontane. Si rendeva così un servizio pubblico che di conseguenza doveva essere sussidiato e gestito dallo Stato. Si affermava, inoltre, che i premi concessi in base alla legge 1885 erano insufficienti per lo sviluppo delle linee commerciali internazionali, poiché la Marina Italiana nelle condizioni in cui operava aveva bisogno che lo Stato la sorreggesse con adeguate sovvenzioni. Con riferimento alle linee interne che collegavano il Continente con le Isole di Sicilia e di Sardegna, le Camere di Commercio, sostennero che si dovessero privilegiare quelle linee che, per la via breve e di sicuro approdo, toccavano gli scali che si avvicinano alla Capitale del Regno. Di conseguenza fu richiesto che venissero ripristinate le due corse settimanali Cagliari-Civitavecchia e Portotorres-Civitavecchia, anche a discapito, per ragioni di economia, delle due corse giornaliere Civitavecchia-Golfo Aranci, riducendole a cinque settimanali. Inoltre la linea Civitavecchia-Portotorres avrebbe acquistato maggior importanza ove fosse stata collegata con la costa occidentale, in modo che i porti di Alghero, Bosa, Oristano e Carloforte fossero in diretta comunicazione con Civitavecchia, poiché ne erano esclusi. La linea Civitavecchia-Golfo Aranci, l’unica postale che metteva in diretta comunicazione con la Capitale, richiedeva speciali riguardi. I vapori dovevano avere gli scafi d’acciaio, con una stazza di 500 tonnellate e una velocità di 15 nodi l’ora, per non lasciare troppo frequentemente le corrispondenze postali in balia dei venti e del mare. Vi era inoltre la necessità di rivedere le tariffe stabilite nella convenzione del 1877, poiché si dovevano dividere le distanze a zone di percorrenza col fine di diminuire la disuguaglianza di trattamento tra i porti vicini e quelli lontani. Alla fine dell’800 erano in funzione le seguenti linee marittime che collegavano l’Isola con la Terraferma:
– la linea XXIX Cagliari-Portotorres e viceversa, bisettimanale, con scali intermedi a Sant’Antioco, Carloforte, Oristano, Bosa, Alghero e Cala d’Oliva (Asinara);
– linea XXX Genova-Livorno-Portotorres, settimanale, con scalo a La Spezia, Livorno, Capraia, La Maddalena, Santa Teresa di Gallura e Castelsardo (quest’ultimo scalo fu attivato il 1° luglio 1899);
– la linea giornaliera Civitavecchia-Golfo Aranci e viceversa;
– la linea Genova – Cagliari e viceversa, settimanale, con scalo a Livorno, La Maddalena, Terranova, Golfo Aranci, Siniscola, Orosei, Dorgali, Tortolì e Muravera;
– la linea settimanale Cagliari-Napoli e viceversa.
I servizi postali tra la Sardegna e le Isole minori erano assicurati giornalmente con le linee La Maddalena-Palau, Stintino-Portotorres e l’Asinara-Portotorres.

19 febbraio

Le acque delle Bocche di Bonifacio e dell’arcipelago maddalenino, costellate da innumerevoli secche e flagellate da improvvisi quanto impetuosi fortunali, sono state da sempre teatro di tremendi naufragi; molti di quegli eventi si risolsero spesso con il salvataggio degli equipaggi, altri, come quello occorso alla nave francese Semillante, diretta alla guerra di Crimea, si tramutarono in tragedia. Ma, con passare del tempo e con il disperdersi degli atti, se si eccettuano alcuni casi rimasti negli annali per l’importanza della nave o delle persone trasportate, si è persa ogni traccia delle cronache di quei naufragi ed i tanti relitti che giacciono sui fondali dell’arcipelago sono quasi tutti rimasti senza nome, così come senza nome sono rimasti i marinai che vissero quegli avvenimenti. Il fortunato ritrovamento degli atti di uno di quei naufragi ci offre però l’occasione di rievocare, dalla viva voce dei protagonisti, la cronaca di uno di quei naufragi e le vicende di un salvataggio che per la sua singolarità fece gridare al miracolo. L’anno 1887 iniziò all’insegna del maltempo. Nella notte tra il 20 e il 21 gennaio il bastimento La Sacra Famiglia, comandato dal capitano Giovanni Clarij di Riomarino, proveniente dall’Isola Rossa con un carico di carbone, violentemente spinto da un fortunale di libeccio, si era fracassato sulla Secca del Paganetto. Le sette persone a bordo, ammainata la lancia, erano riuscite a guadagnare la riva ed erano state tratte in salvo. Appena un mese dopo, però, un altro naufragio doveva funestare le acque dell’arcipelago. Alla mezzanotte tra il 16 ed il 17 febbraio, un bastimento ancorato nella rada di Cala Francese in attesa di completare un carico di granito, colto da un urgano di maestrale, aveva rotto tutti gli ormeggi e, sballottato dalle onde, malgrado l’impegno profuso dall’equipaggio, si era capovolto. Ed ecco come il maresciallo Francesco Gessa, accorso sul posto unitamente ai carabinieri Antonio Asuni e Luigi Crippa, descrive quell’evento: “Verso le ore 12 pomeridiane dal sedici al diciassette andante, il Brigantino Goletta di bandiera italiana denominato ‘Francesco Salustio’ di ottantacinque tonnellate, di proprietà dell’armatore Salustio Vincenzo, di Francesco, di anni 53, nato e domiciliato a Torre del Greco, proveniente da Livorno, diretto a Maddalena, mentre trovavasi ancorato e ormeggiato nel sito detto ‘Cala Francese’, acque di Maddalena, per caricarsi di granito, venne colto da un uragano di maestrale che in quell’ora si scatenò, e spezzati tutti gli ormeggi il detto brigantino fu trasportato dalle onde, e per quanti sforzi vennero fatti da tutto l’equipaggio che era in numero di otto, detto bastimento andò a sbattere in una delle tante secche che vi si trovano in quel punto, e per quanto impegno mettessero essi marinari, non riuscirono a salvare il bastimento, poiché verso le ore 5 d’oggi il bastimento si capovolse alla distanza di venti metri da terra ove trovasi tuttora tutto sfasciato. Nella burrasca sparì il marinaro Calisi Antonio di anni 24, nato a domiciliato a Forio d’Ischia, che più non si rinvenne essendo rimasto annegato, e per quante ricerche vennero prontamente fatte dai marinari formanti lo stesso equipaggio non fu fin qui possibile rinvenire il cadavere”. L’evento destò profonda impressione nella popolazione maddalenina; come in tutte le comunità costiere a vocazione marinara, la morte di un marittimo, chiunque esso fosse e a qualsiasi marineria o nazione appartenesse, era per tutti motivo di grande costernazione. Certamente le campane della chiesa suonarono a morto ed i fedeli si saranno raccolti con i superstiti, per ringraziare il Signore per lo scampato pericolo e per invocare suffragi per l’anima dello scomparso. Erano sopravvissuti al naufragio il capitano di piccolo cabotaggio Giovanni Vitiello di Torre del Greco, appena ventiquattrenne; i marinai Gaetano Esposito, di 45 anni di Napoli; Michele Ajello, di 27 anni, di Procida; Tomaso Desimone, di 30 anni, di Vicolareto; Vincenzo Sorrentino, di 27 anni; Costanzo Borelli , di 16 anni, ed il mozzo dodicenne Bartolomeo Scarfaliello, questi ultimi tutti di Torre del Greco. Con il passare delle ore ogni speranza era ormai perduta, si attendeva solo che, passato il fortunale, le acque restituissero il cadavere dello sfortunato naufrago al quale dare cristiana sepoltura. Nel tardo pomeriggio il maresciallo Gessa, esclusa ogni possibilità di trovare in vita il Calisi, concludeva il suo rapporto dando il marinaio come definitivamente scomparso e quantificando il danno occorso nel naufragio in lire 13.150, di cui 12.000 lire il valore del bastimento, 1.000 lire il valore degli attrezzi e degli effetti personali dell’equipaggio, e 150 lire per i 15 pezzi di granito già caricati e che ora giacevano in fondo al mare. Il tutto era assicurato con la Società di Assicurazioni Marittime ‘Baloise’ di Napoli, rappresentata a La Maddalena dall’allora vice sindaco Pietro Susini, anche lui recatosi sul posto per valutare il danno e dare inizio all’iter delle pratiche risarcitorie. Avvertiva però il maresciallo, nel suo lungo rapporto, che “…non essendo del tutto il bastimento calato in fondo tutti gli attrezzi potranno essere recuperati”. Il giorno dopo, il mattino del 18 febbraio, cessata la bufera e ritornata quella calma piatta che di solito fa seguito al passaggio di una perturbazione veloce, i lavori nelle cave di Cala Francese erano ripresi con alacrità. Erano gli anni in cui lo sfruttamento delle cave, che raggiunse il suo maggior sviluppo a fine secolo, era ancora all’inizio, ma in conseguenza di questa nuova attività, alla quale gli abitanti di La Maddalena non erano adusi, aveva già avuto luogo una notevole immigrazione di operai e scalpellini quasi tutti provenienti dal Piemonte, dalla Lombardia e dalla Toscana. Verso le ore otto del mattino, alcuni operai, mentre lavoravano in riva al mare, malgrado le sferragliare degli attrezzi e il ritmico scalpello che regnava in cava, sentirono dei rumori provenienti dallo scafo appena affiorante del bastimento capovolto; fu intimato l’immediato silenzio ed effettivamente tutti coloro che erano accorsi sentirono il ripetersi di colpi dall’interno del relitto. Ed è ancora il maresciallo Gessa a descrivere, in un rapporto steso il giorno successivo, la cronaca di quell’avvenimento: “Alle ore otto d’ieri …mentre gli scalpellini Bottoni Edoardo, fu Carlo d’anni 32, nato a Milano e Caneo Francesco, fu Giovanni, d’anni 33, da Tessodada (Milano), ambi residenti a Maddalena, girando vicino alla spiaggia ove trovasi il brigantino naufragato, sentirono dentro quel legno stesso del rumore e venutogli tosto in mente che quello era un avviso del marinaro ritenuto morto annegato, corsero immediatamente ad avvisare tutte le persone che trovarono in regione Cala Francese, e accorsi tutti subito sul posto, e accertatisi ancora del rumore che proveniva da entro d’esso brigantino, praticarono immediatamente un buco e dentro il medesimo rinvennero il Calisi Antonio, tutto attonito, spossato di forze, patendo sofferenze, ma sano e salvo, e con esso liberarono pure il suo cane al quale nel naufragio toccò la stessa sorte del padrone”. “Prestati da quella gente i necessari soccorsi per assicurare in salvo la vita al Calisi – prosegue il rapporto – egli poté raccontare a tutti che all’ora del naufragio, mentre il bastimento si capovolgeva, fu travolto dalle onde ed impossibilitato a uscirne, se non che profittando d’un piccolo vano rimasto vuoto entro quel bastimento ove l’acqua non potea arrivarvi, ed appoggiatosi a due pezzi di legno che vi trovò, vi stette fino all’ora che venne tratto in salvo”. L’incubo del malcapitato marinaio, dopo trenta ore di lenta agonia passata al buio immerso nelle gelide acque di febbraio in una sacca d’aria che gli aveva appena consentito di respirare e col solo conforto della presenza del suo fido cane, era finito. Grande festa in cava per il redivivo Calisi scampato al pericolo, ma anche per il suo cane che in quel tragico momento non aveva pensato a salvarsi ed era rimasto attaccato al padrone. Festeggiamenti anche per gli operai Giovanni Pieroni, Angelo Gioira, Emilio Poletti e Francesco Mazza, tutti toscani, che erano accorsi a praticare a colpi d’accetta il provvidenziale squarcio che aveva consentito di estrarre il naufrago imprigionato nel relitto. A conclusione delle sue indagini, il maresciallo Gessa, interrogato il Calisi ancora in preda allo choc, ebbe ad adombrare qualche riserva sul comportamento dei suoi compagni tanto da rilevare, in merito alla triste sorte che sarebbe toccata al naufrago, che “…appena calmato il mare, sarebbero, tanto il capitano, quanto gli altri marinai dovuti arrivare in quel luogo per assicurarsi dello stato del bastimento e certo si sarebbero accorti che esso era dentro ancora vivo, e perciò gli incolpa che non si curarono di ciò fare; mentre se non fosse stata la provvidenza delli accorsi che lo salvarono sarebbe colà miseramente perito”. Ma il Calisi non dubitò mai della lealtà dei suoi compagni e il giorno successivo al suo salvataggio, deponendo avanti l’autorità marittima, dichiarò: “Nel naufragio che successe nella notte dal 16 al 17 corrente, verso le quattro del mattino, del Barco Francesco Sallustio, quantunque più volte chiamato dagli altri uomini, ho dovuto rimanermene coartatamente a bordo. Avendo il bastimento piegato sul fianco destro, io ero andato nella stiva quando che l’acqua la riempì, per cui io dovetti rincantucciarmi a metà della stiva dal lato sinistro, da dove venni estratto ieri mattina verso le ore dieci dagli operai scalpellini in Cala-Francese. Tanto il comandante del Barco quanto la ciurma dovevano ritenere che io fossi perito all’atto del salvataggio, poiché nulla avessero lasciato intentato a mio riguardo e fossero rimasti sempre senza risposta”. Non sappiano a quale santo si sia votato il Calisi, in quelle lunghe ore in cui rimase imprigionato nella stiva del bastimento, ma possiamo supporre che anche lui, dopo quell’avventura a lieto fine, abbia deposto in qualche chiesa della natia isola d’Ischia uno di quei tanti ex voto con i quali i marinai scampati al pericolo manifestano la loro riconoscenza per il miracoloso intervento divino.

23 febbraio

Violenta scossa di terremoto a Sassari, Alghero e dintorni.

6 marzo

Il nuovo stato italiano, all’indomani dell’Unità, aveva bisogno di dotarsi delle industrie e delle infrastrutture necessarie per garantire energie e risorse per lo sviluppo della nazione, inoltre era indispensabile unificare le flotte navali degli stati preunitari, costruire arsenali e porti in grado di garantire la difesa dello Stato. L’istituzione degli arsenali militari rientrava quindi le progetto di militarizzazione difesa del territorio e nella necessità di potenziamento della Marina Militare attraverso la realizzazione di una solida rete organica e funzionale di infrastrutture logistiche, di sistemi di armamenti di difesa e di una estesa rete di porti. Tra i maggiori porti creati nel secondo Ottocento in Italia vanno considerati quelli nati essenzialmente in funzione della presenza delle Basi della Marina Militare, dell’attività di cantieristica navale e di manutenzione che queste comportavano. In molti casi alla creazione di moderni stabilimenti industriali ed alla nascita e allo sviluppo degli arsenali militari marittimi, in particolare a La Spezia, a Taranto e a La Maddalena, si accompagnò la realizzazione di nuove città, villaggi e quartieri operai interamente pianificati e in alcuni casi in relazione con le strutture urbane preesistenti. Nel 1883 una apposita commissione incaricata di effettuare i sopralluoghi e i rilievi tecnici individuò il sito più idoneo dove far sorgere la stazione navale nella zona costiera a sud dell’isola di La Maddalena, posta tra Punta Moneta e Cala Camiciotto; un vasto territorio abbastanza riparato dal ponente, fino ad allora quasi completamente disabitato, costituito per lo più da piccoli lotti coltivati alternati ad alcuni terreni più grandi incolti. Il criterio nella scelta dell’area era in linea con le strategie di sviluppo de moderni cantieri navali e nella localizzazione degli stabilimenti industriali marittimi dove venivano privilegiati territori il più possibile pianeggianti e aree più facilmente attrezzabili, urbanizzabili e suscettibili a di ulteriori ampliamenti; spesso in zone acquitrinose, facilmente acquisibili a prezzi assai contenuti, facili da scavare e da sistemare con opere di banchinamento e di imbonimento delle spiagge. Quindi il 6 marzo 1887, con il decreto Crispi, venne istituita la piazzaforte militare a La Maddalena. La Cala Camiciotto, una profonda insenatura sabbiosa, con una spiaggia formata dall’apporto pluviale di un modesto coso d’acqua temporaneo che discendeva dalle degradanti alture di nord ovest, venne attrezzata come scarico attraverso la realizzazione di una grande piattaforma di cemento, con un argano a mano e grossi anelli murati sullo scivolo, per favorire l’alaggio delle imbarcazioni; alle estremità si trovavano due banchine con i casotti per la guardia. Lungo la banchina di levante sostavano i pontoni in legno attrezzati per il trasporto dei cavalli e soprattutto dei muli, indispensabili per spostare i pesi lungo gli impervi sentieri delle batterie. Presso Cala Camicia vennero realizzati i primi baraccamenti provvisori che ospitavano i condannati ai lavori forzati impiegati nella costruzione della base militare. Nel 1895, per eseguire i lavori necessari alla creazione e al mantenimento delle strutture militari della base navale, viene istituito l’Arsenale della Marina Militare. Anche se questo stabilimento non rivestiva la stessa importanza di alti arsenali come quello di Taranto e di La Spezia, il cantiere doveva provvedere a molteplici e diversificati interventi, dalla manutenzione, riparazione e assistenza delle navi, dei macchinari, delle armi, degli edifici e di tutte le strutture militari dell’Arcipelago, al controllo e all’intervento su tutti i semafori marittimi della Sardegna. Con il ristabilimento della piazzaforte militare si registrò un notevole ampliamento urbanistico e uno sviluppo generale esteso per circa sei volte l’area urbana di La Maddalena. Il tessuto urbano che ne derivò risulto fortemente connotato dalla giustapposizione di due diverse forme di città, con aspetti e funzioni diverse ma anche interdipendenti. Ad ovest si estendeva la città storica, borghese, mentre ad oriente si sviluppava la nuova città dei militari con una superficie poco più che doppia; una città indipendente, non sovrapposta ma affiancata a quella borghese preesistente. Dalla Piazza Umberto I, elegantemente definita da una serie di palazzine militari e dal palazzetto del Comando Marina, fino a Cala Chiesa, si estendeva un ampio territorio occupato da edifici militari, che culminava nei propilei di ingresso, gli edifici del corpo di guardia. Oltrepassata una sbarra, presso la quale era obbligatorio farsi riconoscere, e superate le “due casette” del Corpo Reale Equipaggi, si accedeva alla città militare vera e propria, cinta di mura, che si sviluppava fino all’estremità della Punta Moneta. In altre piazzeforti militari marittime come La Spezia e Taranto, dove l’area borghese era collegata a un hinterland, questo fenomeno di stretta indipendenza della città era meno sentito. A la Maddalena il carattere di insularità del territorio ha determinato un innesto particolarmente stretto e subordinato tra i due centri, per cui l’equilibrio economico della città borghese ha risentito fortemente delle alterne fasi di sviluppo o di decadenza della città militare.

10 marzo

“Nel 1893 il Comune di La Maddalena, sindaco Gerolamo Zicavo, decise di cedere a titolo definitivo, come se questo fosse moralmente legittimo, legale e, soprattutto, come se fosse roba sua personale, l’ampia spiaggia della Renella (o Rinedda) lungo la golfata di sud-est, che in tempi ancora più antichi compariva in certe carte “sperimentali” dell’arcipelago col nome di Ajacciolo, per cederla alla Marina Militare. Il lotto interessato al passaggio di proprietà era il 1032, e sarà foriero di compromessi, ma pure, in vari periodi successivi, di dispute serrate fino all’inizio degli anni ’60 del secolo scorso, tra le autorità civili e quelle militari.
Quella era stata, fino ad allora, la spiaggia per antonomasia dei ragazzotti indigeni sanculotti (inteso non come rivoluzionari, ma proprio come senza mutande. Per fare il bagno, infatti, si toglievano i pantaloni stracciati e si tuffavano nudi in acqua, sicuri infatti che nessun estraneo poteva vederli) .
Gli isolani definivano questa spiaggia la Renella, per la finezza della sua sabbia, distinguendola dalla Rena della Cala di Sant’Erasmo, in piazza degli Olmi, e dalla Rena, sempre a grana grossa, di Casteddhì (o Monte d’Arena). Oltretutto era la spiaggia dove confluiva in inverno la vadina tumultuosa di Guardia Vecchia; a questa si innestava, poco più a nord del cimitero vecchio, il torrentello di Cardaliò, che poi precipitava nel vallone della ghiacciaia, attraversando orti e vigneti. Finiva in mare, in uno specchio acqueo sabbioso e verdastro, con acqua bassa e protetta a levante dalla scogliera di Punta Chiara e a meridione dall’isola di Santo Stefano.
Qui sarebbe potuto sorgere uno stabilimento balneare che poi, invece, insediata la Marina Militare, si ubicherà davanti all’ex fortino Balbiano, dove però non c’era spiaggia .
Queste “spedizioni” nudiste dei “maschi di scoglio” erano possibili, perché la Renella era considerata, in realtà, almeno fino a quel momento, spiaggia fuorimano e isolata da Piazza del Mercato, dove pullulava la vita, e ancora di più da Cala Gavetta, da Piazza Barò, da Piazza Caprera e dallo Spiniccio. Era circondata soltanto, e in lontananza, da orti, vigneti, e alberi da frutta, che a volte, goliardicamente depredati, contribuivano alla sussistenza dei più temerari.
La Renella poteva essere raggiunta solo con un percorso accidentato, se non proprio improbo, di quella che diventerà via Garibaldi, oppure rasentando le facciate delle case dei pescatori puteolani che si erano acquartierati quasi sul mare, lungo le case di Cala Mangiavolpe, oppure ancora scendendo dalle campagne del Cardaliò e del cimitero vecchio o dalla stradina di campagna che portava a Cala Chiesa e quindi dalle baracche di quella che diventerà “Due Strade”.
Ma il 20 febbraio 1887, senza che nessuno si fosse preoccupato di avvisare la masnada di sanculotti locali, era stato rinnovato il trattato della Triplice Alleanza fra Italia, Germania ed Austria-Ungheria e dopo soli 14 giorni, (il 6 marzo) addirittura la Marina Militare aveva istituito il suo nuovo Comando a La Maddalena, e dopo ulteriori quattro giorni (10 marzo) aveva acquistato dal Conte Albini Augusto e Francesco fu Giuseppe, i lotti 1040, 1041, 1042 per complessivi 7.000 metri quadri a lire 7.000. I proprietari avevano venduto, col terreno recintato da un alto muro, 4.500 piante di vite, e 280 alberi da frutta. E siccome i frutti erano, come suol dirsi, pendenti, il raccolto del 1887 doveva essere lasciato ai legittimi proprietari, salvo essere liquidato a parte(…)” (Giancarlo Tusceri)

17 maggio

Si uccide a Novi Ligure, il giornalista Agostino Bruto Millelire di Francesco. Era domenica; alle 6 del pomeriggio molta gente era in piazza a Novi Ligure ad ascoltare un concerto bandistico: c’era anche Bruto, che appariva ai conoscenti pallido in volto, forse un po’ svagato. Mentre risuonavano le note del penultimo pezzo musicale in programma, si sentì una detonazione. Millelire era riverso su una panchina; vicino a lui, sotto il cappello, una lettera con le sue volontà, i suoi ʺdesideri postumi”: “prima di morire saluta i suoi cari, in particolare la vecchia madre, richiama alla mente la memoria del padre valoroso, vuole che la medaglia guadagnata dal genitore sul campo della gloria, sia seppellita con lui, esempio ai figli del soldato, di amore alle virtù paterneʺ. I giornali si interrogarono sulle motivazioni del tragico gesto azzardando una ipotesi: “Pare che una passione amorosa senza speranza lo abbia tratto al fatale divisamentoʺ ma “parlasi anche di dissesti finanziari”. Questo sfortunato giovane merita qualche nota. Sappiamo che nacque nel 1855 e che fu battezzato dallo zio Antonio in assenza del padreFrancesco Millelire di Agostino, che, forse, era già morto. Il suo nome riprendeva quello del nonno paterno, Agostino, quello del padrino, Antonio, e un terzo, Alberto. Ma lui si faceva chiamare Agostino Bruto per qualche ragione che ci sfugge, ma che è probabilmente legata alle sue idee politiche e sociali. Le notizie che lo riguardano le apprendiamo dai giornali di Novi Ligure, di Genova e di Piacenza del 19‐20 maggio del 1887 e, in particolare, da La Raccolta di Novi, di cui egli era direttore e proprietario. Aveva già diretto altre testate come II Popolo, La Maffia rossa di Genova, La verità di Porto Maurizio e anche, seppur per breve tempo, Epoca. Così lo descrivono i giornali: “Sceso da nobile lignaggio che aveva dato alla patria una schiera di valorosi i cui nomi sono segnalati nei fasti della marineria sarda e italiana, per impulso di cuore e per giovanili entusiasmi, s’era dato alla causa popolare e nella lotta quotidiana ardito campione della democrazia militante, incurante di sé, rassegnato a tutto, sacrificò posizione e brillante carriera, affrontò impavido più volte il terreno (si ricordava, fra l’altro, un duello nel 1879 finito con la morte del contendente, Andrea Gibelli) a salvaguardia dell’intemerato nome che portava, sofferse carcere ed esilio…. Scrittore, polemista, poeta… la lotta fu per lui elemento di vita… Gli operai trovano sempre in lui valido appoggio, a tutti è nota la questione delle filatrici, vuole l’istruzione e l’educazione del povero, istituisce il sodalizio educativo. Si ricordavano le sue “brillantissime campagne sbandando la camorra novese e mettendo al silenzio gli uomini che avevano tentato o tentavano di spadroneggiare la cosa pubblica servendosi di questo mezzo per imporre le personali loro mireʺ. C’è qualcosa di strano nel duello di cui fu protagonista nel 1879, del quale non conosciamo le ragioni se non che fu affrontato per salvaguardare l’“intemerato nome che portava”; anche l’affermazione di un altro giornale che ʺun caso funesto lo slanciò nel vortice del giornalismo e della politicaʺ ci lascia perplessi così come l’affermazione del Progresso di Piacenza: ʺaveva più di una volta affrontato impavido l’avversa sorte e aveva avuto l’ineffabile orgoglio di vincerlaʺ; e altri giornali ricordavano il ʺdifficile ed arido cammino che a gran tratti percorreva la sua giovinezza”, e “ ben poche gioie serene egli aveva trovato… oppresso dalle disillusioni e dalle noie della vitaʺ. Sono tutte indicazioni di disagio esistenziale delle quali ci sfuggono la portata e la natura, a meno che non siano legate alle vicende che avevano spinto suo padre ad accettare la sfida a duello, ma non possiamo azzardare ipotesi. Certo è che egli avrebbe potuto, sempre secondo i commenti dell’epoca, “vivere tranquillo fra gli agi di un parente dovizioso”, probabilmente lo zio Giovanni Battista che, come abbiamo visto, non aveva eredi diretti.

giugno

Due alti ufficiali furono inviati in Corsica per un’ispezione generale degli stabilimenti e delle fortificazioni militari, viaggio che li avrebbe portati da Bastia ad Ajaccio , Corte e Bonifacio . Tra loro c’è il generale Piarron , il cui diario di viaggio attraverso l’isola, nutrito di turismo e sociologia, fa luce in poche scene sulla vita quotidiana all’inizio della Terza Repubblica. Lo stesso anno, il principe Roland Bonaparte fece un giro in Corsica alla ricerca delle sue radici. Il racconto pubblicato dal suo compagno di viaggio, lo scrittore Émile Bergerat , con il titolo “La Chasse au Mouflon”, a volte si affianca a quello del generale Piarron, nel suo tono distaccato e ironico. Piarron lo ammette, lo stato degli edifici militari in Corsica lo interessa molto meno degli abitanti dell’isola e dei loro costumi molto diversi: “Ho avuto modo di rendermi conto della falsità delle idee di un continentale come me in Corsica». Il generale e il suo collega sbarcano a Bastia. Per arrivare ad Ajaccio scelgono di prendere il treno. Ancora limitatamente alla tratta Bastia-Corte, la rete ferroviaria non è ancora stata inaugurata. I due generali che viaggiano in borghese sono comunque autorizzati a prenderlo. Dopo Corte, la locomotiva cedette il posto a “una diligenza, una vera, una vecchia diligenza d’altri tempi”, e la sua lentezza diede modo ai due generali di andare in estasi per i luoghi notevoli della valle del Golo e la prospettiva di Monte Rotondo, poi per visitare Corte “antichissima e pittoresca cittadina sulla sua rocca». Il generale Piarron arriva “stanco e indolenzito ad Ajaccio” dopo un viaggio caotico che non rimarrà il suo miglior ricordo: “Partenza nella notte per Ajaccio dalla sporca diligenza, con compagni di viaggio un po’ eccitati che parlavano senza sosta, fumando odiosi sigari. L’auto era piena di pulci. Incapace di allungare le mie gambe incastrate tra quelle del mio vis-à-vis. Impossibile chiudere gli occhi. La notte mi ha impedito di vedere qualcosa dell’attraversamento della dorsale centrale del passo Vizzavona, ma il giorno dell’alba mi ha permesso di ammirare i magnifici castagneti che scendono dal passo». La città imperiale rivela il suo fascino. “Una graziosa cittadina in fondo a un golfo azzurro, circondata da montagne ancora verdeggianti a giugno, con belle passeggiate all’ombra di platani e giardini fioriti. Una scena catturò l’attenzione del generale. Un uomo con un enorme cappello di velluto nero, fucile in braccio, percorre il viale trafficato che porta al porto, “come un guardalinee dell’esercito di Versailles nella mia strada durante le battaglie della Comune… Una vita di selvaggina cacciata . A quel tempo, stentavo a credere ai miei occhi». Place du Diamant di fronte al mare è teatro ogni sera di riti mondani. “Gli uomini camminano solo su due linee parallele, i clienti del potere in carica da una parte, i loro nemici dall’altra, guardandosi l’un l’altro con uno sguardo di sbieco. Le donne sono in nero e si fanno vedere solo per le uscite obbligate». Dopo una sosta a Propriano, i due generali presero la direzione di Sartène dove furono accolti dal sindaco che, vestito di eleganti pantaloni bianchi, li condusse “con un certo sfarzo” al caffè dei suoi sostenitori che si affacciava sulla piazza. La sua recente elezione era stata segnata da una tragedia. Un uomo è morto, colpito da un colpo sparato da una finestra. Per arginare la piaga del banditismo, nel 1822 fu creato un battaglione di voltigeurs composto esclusivamente da corsi, poi sciolto. Ma il generale Piarron si affretta a precisare “che il termine bandito non implica alcun disonore in Corsica, perché pochissimi di questi ‘fuorilegge’ compiono atti di vero banditismo, sono semplicemente fuori legge e trovano sempre un appoggio tra le persone che hanno sposato la loro particolare faida». I due ufficiali giungono a Bonifacio, città le cui scogliere la rendono inespugnabile. Sul promontorio si stava costruendo una batteria, “e i frammenti di roccia caduti in mare, davanti alla grotta, producevano il suono di un forte colpo di cannone». “Alla cittadella visitai la modesta stanza occupata per alcuni giorni da Bonaparte, allora tenente colonnello d’artiglieria, nel febbraio 1793, durante la spedizione in Sardegna che risultò così breve. Sul terrapieno della Cittadella, quasi sull’orlo della rupe, sorgono due poveri edifici militari davanti ai quali si è tentato di far crescere due alberi. Crescevano dolorosamente fino all’altezza dei tetti, ma non volevano più sapere nulla per superarli. Sono miseramente rasati da lì, come con una falce, dal vento spietato». Il generale Piarron si recherà nuovamente in Corsica per una nuova missione d’ispezione nel 1888. Vi conduce poi sua moglie, e la sua collega sua figlia, secondo un percorso che va da Bastia alla Balagne attraverso l’Agriate. Segno che la Corsica presentava ai suoi occhi un interesse tanto turistico quanto militare. “Queste signore avevano tempo libero per distrarsi durante le noiose ore dell’ispezione». Alto ufficiale tenuto al dovere di riserbo, il generale Piarron non poteva concedersi divagazioni politiche sulla situazione della Corsica, isola repubblicana dopo essere stata a lungo imperiale. Lo scrittore Emile Bergerat dispensa da tali scrupoli mostrando i suoi commenti senza pretese. Riferendosi alla visita trionfale del Presidente della Repubblica, Sadi Carnot, giunto a Bastia in treno nel 1890: “Mi è stato detto che dove non c’è ferrovia, non c’è né commercio né industria». Rilevando una mancanza di comunicazioni e opportunità economiche: “Il dipartimento francese che costituisce minaccia di rimanere incolto e incolto nonostante le ricchezze (miniere d’argento, cave di granito e marmo, viti, ulivi, cedri) che la natura gli ha concesso. La Corsica è davvero povera, come una semplice Sologne». Ma grazie alla letteratura di viaggio, la sua povertà è sempre meno ignorata. Noti scrittori e giornalisti bisognosi di notorietà lodano la bellezza di quest’isola colpita da un malessere che la rende unica: “Da Mérimée, la Corsica vive quasi esclusivamente della fama artistica che le ha dato questo archeologo in vacanza. Tuttavia , l’isola ora aspira a svilupparsi promuovendo risorse diverse dai siti selvaggi e dai pittoreschi banditi.

18 agosto

Con Regio Decreto si istituisce una Direzione Straordinaria del Genio Militare per l’eseguimento dei lavori per le fortificazioni della Maddalena. Si costruiscono le grandi fortificazioni a protezione dell’estuario, nome che identifica il mare dell’arcipelago e della costa palaese. La piazza cosi istituita doveva soddisfare le seguenti condizioni:
1. permettere alla flotta di uscire, a seconda delle opportunità, attraverso una delle due imboccature e dominare il passaggio delle Bocche di Bonifacio;
2. mettere al sicuro le navi;
3. impedire che il nemico, in assenza della flotta, giungesse a prendere possesso del bacino interno e a stabilirvisi;
4. rendere minima l’efficacia di un bombardamento sistematico che si sarebbe potuto tentare dall’esterno dell’arcipelago contro le navi e il materiale raccolto all’interno della rada.

29 settembre

Il ff. di Sindaco di Maddalena F. Susini, notifica che è aperto il concorso per la nomina di una levatrice per i poveri coll’assegno annuo di Lire 500. Rivolgere le domande documentate al Sindaco entro un mese da questa data.

31 dicembre

Si aprono a Roma le difficili trattative per il rinnovo del trattato commerciale con la Francia; quando si interromperanno, senza esito, nel febbraio del 1888, avrà inizio la cosiddetta ‘‘guerra delle tariffe’’ con la Francia, che colpirà soprattutto le esportazioni meridionali (e fra queste, in modo massiccio, quella dei prodotti sardi).