Caprera AnticaGiuseppe GaribaldiRubriche

Descrizione dei campi

Diverse essendo, come s”è detto, le varietà di granito che s’incontrano a Caprera, avviene che in alcuni luoghi la roccia sia solidissima e durissima, mentre in altri è assolutamente decomposta ne’ suoi elementi: e di frequente riscontrasi grossi massi in mezzo a parti disaggregate e sciolte in arena minuta. Sono quest’ultime porzioni cui il Generale ha rivolto la sua attenzione, e che va mano mano riducendo a coltivazione stabile. L’appezzamento più importante, e nel quale più variata è la coltivazione, è quello attiguo, ed a nord dell’orto che comprende i fabbricati. Questo appezzamento viene denominato Fontanaccia. Vi è un appezzamento a vigna posta in un piano leggermente inclinato verso levante. I filari diretti da sud a est distano due metri l’uno dall’altro, ed i pedali delle viti sono a una distanza di circa 60 centimetri. Ad ogni due di questi è piantato un palo. ed i pali sono uniti fra loro per mezzo di canne collocate traversalmente a due ordini di altezza. Fra la vigna sono piantati irregolarmente alcuni frutti di diverse specie, ma particolarmente olivi e fichi. A settentrione della vigna trovasi un prato artificiale a erba medica diviso da un viottolo in eccellente stato di vegetazione, ed a ponente del medesimo una vigna novella situata in piano inclinato verso levante, e coi filari diretti e mantenuti come nella precedente. Vi è pure un lavatoio a solatìo, alquanto rilevato dal suolo, e selciato di mattoni inverniciati. Serve per lavare il grano, ed è piantato su d’un piccolo scoglio con macchia all’intorno. A settentrione del prato, discendendo, si esce da un cancello di legno, si passa per una striscia di terreno lasciato a greto, e si entra per altro simile cancello nell’orto e frutteto fiancheggiato da uno stretto viottolo, a ponente del quale vi ha scoglio e macchia cinti dal solito muro a secco. Mandorli, peschi, meli, peri, fichi nostrali, fichi d’India, viti diverse fanno dimenticare lo scoglio che li circonda, e quello tutto simile che fu costretto ad alimentarli, e mostrano quale sia la potenza dell’uomo sulla natura, specialmente quando quest’uomo si chiami Garibaldi. Vi è un aranceto nel quale sono collocate da ben 300 piante di agrumi d’agrumi d’ogni specie. Questa pianta, delicatissima, non potrebbe nè crescere, ne fruttificare se venisse lasciata esposta ai venti di tramontana e di ponente, i quali sono, come s’è notato, micidiali alle piante che tentano innalzare le loro cime oltre i due metri dal suolo. Di questo fatto accorto il Generale, nè volendo privarsi dei frutti cotanto delicati, ha riparato ogni singola e pianta d’agrumi mediante una fitta graticciata di scope e sterpi, di forma circolare, avente apertura dalla parte sud-est. Con tale espediente si mangiano ora a Caprera eccellenti cedri, limoni e aranci di moltissime specie, senza bisogno di farli venire d’altrove. Separa l’aranceto dalla macchia un fosso. Si esce dall’aranceto stesso per un cancello di legno, si passa una striscia di greto, per altro simile al cancello e si entra in un campo che discende fino al mare, ed è ridotto a stabile coltivazione di frumento avvicendato con piante leguminose ed altre, come si dirà in seguito parlando del sistema di coltivazione. Tutto questo corpo di terreno, eccetto che dal lato di mezzogiorno col quale si unisce all’orto, è cinto da muro a secco, detto maceria, costruito con pezzi di granito, e specialmente con quelli levati dalla parte coltivata. Le macerie dell’altezza do metri 1,25 costano in mano d’opera £ 0,50 per metro lineare. I cancelli per passare da un compartimento all’altro, tanto di questo appezzamento quanto d’ogni altro coltivato nell’Isola, sono tutti di legno, compreso il saliscendo, il quale invece che nel consueto nasello di ferro, s’incastra fra due pietre granitiche scelte e collocate ad arte per fissare il saliscendi stesso. Tali cancelli economici non sono costruiti a difesa dai ladri, che ladri a Caprera non esistono malgrado la completa assenza dei Carabinieri celesti e terrestri; ma unicamente per impedire al bestiame pascolante nelle macchie di introdursi a danneggiare i campi coltivati: perciò bastava aver di mira che una spinta qualunque non li aprisse, ma che ciò fosse bisogno del lavoro della mano. Con tanta varietà di piante spontanee vegetali nelle macchie, d’alcune delle quali le api sono avidissime. Come il Ramerino, il Lentisco, la Ginestrella , il Ginestrone, ecc., e con tante altre fruttifere ortive e prative coltivate dal Generale, potevasi pensare che abbondante fosse la produzione della cera e del miele. E Garibaldi appunto pensovvi, e fece perciò costruire una tettoia sotto la quale tiene diversi alveari. In questo corpo di terra detto fontanaccia, ci sono sei pozzi, dai quali per mezzo di secchie e di mazzacavalli si estrae l’acqua per gli innaffiamenti. Questi pozzi hanno una profondità di due o tre metri, ed il loro fondo è sulla roccia granitica: l’acqua è di eccellente qualità, e filtra lentamente nei medesimi: ed ognuno di essi può somministrare circa 2 o 3 metri cubi ogni 12 ore. Quantunque siano a poca distanza l’uno dall’altro, nulla di meno le loro acque non comunicano, o almeno hanno una comunicazione così lenta che non rendesi sensibile in un giorno: per la qual cosa danno acqua sufficiente per l’irrigazione delle piante ortive e degli agrumi innaffiati a mano. Ma volendo pure irrigare senza bisogno di estrar l’acqua con le secchie o con la tromba, si potrebbero mettere in comunicazione i quattro pozzi più alti, cioè i tre nella vigna, con quello nel greto, mediante tubi o fogne sotterranee, innalzare le sponde della cisterna per risparmiare la spesa di un operaio che maneggi la tromba, od il mazzacavallo e la secchia, niuno meglio del Generale Garibaldi può giudicare. Un altro campo, nel quale Garibaldi si è manifestato veramente agronomo, è quello denominato Tola, che s’è accennato ritrovarsi a poca distanza dalle tre casette coloniche sopra descritte, ha un’estensione di circa ettari sei, è tutto cinto da macerie. Vi è una piccola sorgente, presso la quale si è escavata una buca per servire da abbeveratoio al bestiame pascolante nella macchia: sorgente e abbeveratoio che sono perciò lasciati al di fuori della maceria circondante il campo. In questo, sia pel continuo gemere della fonte, sia per la giacitura a irregolari pendenze, non potevano le acque trovare un felice scolo. Sistemare il campo riducendolo a pendenze uniformi e regolari per mezzo di sbanchi e trasporti di terra, era una spesa troppo forte e molto sproporzionata all’utile sperabile: tanto più che con tale operazione si sarebbe scoperto roccia granitica non mai stata esposta all’influenze atmosferiche, e quindi difficilissima ad essere sminuzzata e ridotta a terreno coltivabile. E perciò che il Generale ricorse ad altri espedienti. Pensò da prima di fare escavare un fosso esternamente ai due lati di mezzogiorno e di ponente del campo per impedire l’ingresso e la filtrazione delle acque esterne superiori; ed un altro internamente nella parte più depressa del campo che ricettasse le interne. Questa operazione però ad altro non servì che a liberarlo dalle acque palesi o scopertamente dannevoli; ma ve n’erano altre latenti, ossia che non davano sentore alla superficie, e che pure erano molto nocive. Per eliminarle il Generale ricorse alle fogne. Fece tre fosse, le riempì di pietre granitiche e le fece in modo che avessero sbocco nelle fosse scoperte o scoli. Colla fogna appiedi dell’appezzamento risanò la vigna, che è in piano dolcemente inclinato verso la stessa, ossia verso levante: colle altre due sanò il prato ed il campo arativo, che ora somministrano rigogliosi prodotti, i quali destano ammirazione in chi li osserva, soddisfazione in chi seppe procurarseli. Non è con questo che Garibaldi abbia sconosciuto i pregi, ed abbia inteso disprezzare la pratica inglese della fognatura con doccioni o con tegole: egli si è servito del metodo italiano perché in Caprera, per la comodità delle pietre granitiche e infinitamente meno dispendioso, ed egualmente, per no dire più duraturo dell’altro.
Nella parte arativa si alternano in parte col frumento piante ortive e cucurbitacee, le quali possono essere innaffiate coll’acqua del pozzo. Ha questo una profondità di tre metri circa, e dà un acqua zampillante a 50 centimetri sopra il suolo, in quantità di circa tre mila litri in 12 ore. Per utilizzarla con maggiore sollecitudine, si estrae mediante secchie innalzate da mazzacavallo, e la superflua scola nella fogna. A settentrione di questo appezzamento ed a brevissima distanza avvi un altro corpo di terreno ridotto a stabile coltivazione che va sino al mare, e che porta pure lo stesso nome di Tola, come il precedente. Esso è coltivato a metà a frumento ed s piante marzuole, e metà a prato artificiale di erba medica. Questa per altro e rigogliosissima in alcune posizioni, in altre stremenzita, o perduta, ed ha bisogno di essere rinnovata. Ne sarebbe forse cagione in non aver lasciato bastantemente purgare il terreno, assoggettandolo a due o tre profonde lavorazioni, come, generalmente parlando, richiede la medica? Questo campo che ha un’estensione di circa sei ettari, e come gli altri circondato da maceria, in parte ultimata ed in parte in costruzione: ed una maceria pure divide in direzione da Est a Ovest la parte arativa della prativa, che è la inferiore che lambe il mare. I campi coltivati ora descritti, non che gli orti e le piccole vigne adiacenti ai fabbricati, formano tutto il terreno attualmente ridotto a coltivazione stabile in Caprera. Altri appezzamenti scelti or qua or là, dove il suolo più si presta per giacitura e per la decomposizione più inoltrata della roccia, si seminano a grano dopo il debbio, e saranno essi pure dissodati stabilmente di mano in mano che potrassi avere un proporzionato aumento di letami e di concimi.
Pastorizia

L’aumento dei letami non può ottenersi che col progressivo aumento delle mandrie di bestie grosse e minute, e specialmente delle prime; Garibaldi che è ben persuaso essere questo il cardine principale di tutta l’agricoltura di Capera, vi concentra tutta la sua attenzione e le sue cure. Oltre la famiglia colonica che lavora i terreni coltivati, vi sono due pastori a Caprera per l’allevamento e custodia di bestiame vaccino, pecorino e caprino, ai quali il generale somministra l’abitazione con intorno un piccolo orto per i bisogni della vita. Tanto il colono, quanto i pastori ricevono il bestiame da lui, facendo un contratto di soccida a capo salvo, vale a dire prendendo in consegna un numero determinato di animali, coll’obbligo di sostituire coi nati quelli che morissero, e col diritto di vendere a metà i superflui, e tutti i prodotti. Gli animali vaccini che trovansi a Caprera sono in numero 150 circa, ed il bestiame minuto, cioè il pecorino e caprino ascende a un 400, senza calcolare le capre selvatiche liberamente vaganti. Questi animali vivono al pascolo naturale nella macchia, e le vaccine si mandano ancora nelle stoppie dopo levato il grano. Il fieno dei prati artificiali formati dal Generale serve pei bovi e per le vaccine, quando la stagione, o il parto, non permette di mandarle al pascolo. Per lettiera si adopera la paglia di grano, ed alcune erbe ed arbusti di macchia, e principalmente l’asfodillo ed il lentisco. Gravissimo pericolo per altro corrono le bestie che pascolano nelle macchie di Caprera. Fra le piante spontanee che vi abbondano s’è detto in principio esserci la ferola. Di queste piante sono ghiottissime le vaccine, la sentono di lontano all’odore, e non curando ostacoli per linea retta corrono a cibarsene: ma nel gradito cibo incontrano il veleno, la morte. E’ questo uno dei pochi casi nei quali la natura inganna nel loro istinto gli animali che diconsi irragionevoli. Tale inganno poteva riuscire fatale, e difatti in un anno solo il Generale ebbe a perdere 16 vacche; bisognava quindi trovare a qualunque costo un rimedio. Si osservò che la ferola non è egualmente dannevole al bestiame in tutte le stagioni: arreca morte se viene mangiata dopo la metà di maggio, ossia quando è giunta a un certo grado di maturità; è innocua se è mangiata prima, ossia quando è ancor tenera. In seguito di questa osservazione si è introdotto il costume di strappare la ferola in aprile (operazione che colà dicesi sferulare) lasciandola sul posto, senza tema così che le bestie, mangiandola anche dopo del tempo, possano venire danneggiate. Le macchie e i greti ne’ quali si è praticata tale operazione diconsi luoghi sferulati. Per quanta cura per altro si metta a sferulare, l’isola è grande ed è impossibile che non isfugga qualche luogo in cui la ferola rimanga: e se questi luoghi restano all’uomo inosservati, si è ben sicuri che l’istinto traditore conduce le bestie a inghiottire la pianta micidiale. In questo caso pure l’esperienza ha suggerito un rimedio. Si notò che nei campi coltivati la ferola si perde; e s’ebbe parimenti a fare altra curiosa osservazione: cioè, che se le bestie mangiano stoppia frammista a ferola, non soffrono menomamente, ancorché questa sia adulta e dopo il maggio. Di qui il metodo di curare le bestie che si cibarono di ferola adulta con orzo, grano e paglia: metodo che in molti casi ha dato buon risultamento, quando specialmente siasi potuto usare sollecitudine a metterlo in opera. Le vacche sono piccole di statura, e per lo più di razza indigena delle isole circonvicine. I bovi sono pure di statura piuttosto bassa; e ciò si osserva in tutti i terreni granitici, come hanno notato gia gli scrittori agronomici, ripetendo quanto aveva detto Bosc, di avere cioè visitato per tutti i versi la maggior parte delle montagne granitiche della Francia, e di averci dappertutto trovato bestiame piccolo, ma di eccellente qualità, come cavalli vivaci e fini nel Limosino, bovi ardenti al lavoro nell’Alvernia, montoni di carne saporita nelle Ardenne. Alcuni vitelli di Caprera si vendono di latte pel macello: ma per lo più si allevano fino all’età di 2 a 3 anni, e si vendono a qualche capitano di bastimento che viene a caricarli, e li paga in ragione di 50 a 60 lire l’uno. Le pecore pure sono di razza indigena della Sardegna per la maggior parte. Il Generale aveva introdotto dei montoni merini in Caprera, ma questi ben presto morirono, non senza però aver lasciato qualche allievo d’incrociamento, coi quali si è un poco migliorata la razza. La morte dei merini è dovuta di certo alla ferola, la quale non può essere sopportata dai medesimi nemmeno in piccolissima quantità, perché non avvezzi a mangiarla; mentre alle bestie indigene la stessa quantità può essere innocua in grazia dell’abitudine. L’introito di una capra è superiore quanto a quello di una pecora, e lo diventa poi tanto di più se si ha riguardo alla mortalità prodotta dalla ferola, assai meno nociva alle prime che alle seconde, delle quali ogni anno ne muore sempre un certo numero, malgrado la diligenza dello sferulare. Gli agnelli che voglionsi slattare si trasportano negli Isolotti dei Conigli, all’ovest del Porto Stagnarello.