Almanacco isolanoLa Maddalena Antica

John Warre Tyndale e The Island of Sardinia

Pubblicata a Londra nel 1849, l’opera “The Island of Sardinia” ebbe subito un grande successo sia in Inghilterra che in Irlanda. Il Tyndale è un londinese laureato ad Oxford in discipline umanistiche e giuridiche, che quasi per caso – per un viaggio di convalescenza – giunge in Sardegna nella primavera del 1843, dove scopre un mondo per lui nuovo e completamente sconosciuto al quale si sentirà da subito legato, alla terra così come alla sua storia: già nella prefazione egli dichiara di essersi dedicato in primo luogo alla conoscenza delle opere fondamentali della cultura sarda, sia antiche (Arquer, Cetti, Gemelli) sia contemporanee (Della Marmora, Tola, Manno, Angius) per colmare un vuoto e liberare l’isola dalle “scorie della leggenda”. Su questa base si accinge a stendere una descrizione quanto più dettagliata – e letteraria – possibile, per compensare gli scarni resoconti che fino ad allora avevano raccontato la Sardegna in Inghilterra, cioè l’indagine idrografica di Smith e l’inchiesta commerciale di Mac Gregor. Il viaggio dell’inglese comincia dunque da Alghero per proseguire poi per la Nurra, la Gallura e il Goceano, toccando molti dei loro piccoli paesi. Da lì il viaggiatore si porta nella Barbagia, sul Gennargentu, poi in Ogliastra, nella zona oristanese e da lì nel Campidano e con altrettanto scrupolo nel sud dell’isola, fino a Cagliari che lo affascina per la quantità e la bellezza dei suoi monumenti, delle sue chiese, per la magnificenza delle torri pisane. Un percorso compiuto quasi comune per comune, dove tutto è annotato con minuzia, a partire dai nomi degli stessi nuraghi, fino ad abbracciare l’intero patrimonio storico, antropologico e archeologico. La parte più interessante dell’opera è quella dedicata ai costumi e alle usanze, descritte con partecipata passione e con la consapevolezza di raccontare una civiltà senza tempo e dalle origini misteriose, così come testimonia la parte dedicata alla descrizione delle tombe di giganti e delle “perdas fittas”, o degli “idoletti sardi”, cioè dei misteriosi bronzetti, che egli cerca comunque di spiegare alla luce della sua cultura classica.
Dei sardi lo colpiscono l’innata ospitalità, la ritualità all’interno di una fortissima fede e devozione, la forza e il coraggio; più che cedere – come molti – all’evidenza di un’arretratezza facile da sottolineare, cerca di motivarne le cause. Il risultato è un’imponente opera di circa mille pagine, un’indagine che attraverso l’Inghilterra è divenuta patrimonio dell’intera Europa.

La Maddalena (che, così come Cadice viene definita la Jícara áurea de España questa bella e linda cittadina – dice Tyndale – si potrebbe chiamare a buon diritto “la Coppa d’oro” della Sardegna), sulle orme dei luoghi ricordati ed apprezzati da Nelson.

………………… Nel giungere al molo, parve che quegli uomini affamati avessero fiutato da lontano il profumo delle mie provviste, mi si avvicinarono e la gratitudine silenziosa con la quale divorarono il cibo che avevo dato loro fu più eloquente di qualsiasi discorso. Il sistema di segnalazione per le barche che navigano da Palau a La Maddalena avviene mediante un falò di frasche che viene acceso in determinati punti delle rispettive coste. Accendemmo, quindi, un fuoco senza che giungesse segno d’intesa e servì agli uomini soltanto per scaldarsi ma mentre si conversava e si considerava l’ipotesi di dover aspettare altre ventiquattr’ore perché il vento calasse, si intravide finalmente una vela. Una volta certi che si trattava del traghetto che giungeva per noi, si diede un vigoroso assalto al resto delle provviste in quanto non era più il caso di preoccuparsi del domani. I resti freddi della trota fritta, le spoglie dell’agnello e le ultime gocce del mio barilotto di vino furono esauriti non appena la barca approdò alla costa di Palau e, felicitandoci coi bicchieri colmi di vino per la nostra buona fortuna, ci imbarcammo e in mezz’ora ci trovammo nel piccolo stretto. Prima di parlare di La Maddalena, è bene dare un rapido sguardo alla costa ed alle isole adiacenti. Le bocche di Bonifacio erano note ai Greci col nome di Taphros ed ai Romani come Fossa fretum, per il fatto di essere una fossa profonda fra la Corsica e la Sardegna, ma l’identica formazione granitica della costa meridionale della Corsica, di quella settentrionale della Gallura e del gruppo intermedio di isole, è l’indizio che un tempo erano tutte unite fra loro. Queste isole erano tenute in così scarsa considerazione che fu soltanto nel 1760 che i governi francese e sardo concordarono di affidare ad arbitri comuni il compito di definirne il possesso. Si procedette seguendo la linea visiva da est ad ovest equidistante fra Capo Lo Sprono, in Corsica, e Capo Falcone in Sardegna; tutto il territorio a nord della linea, veniva assegnato alla Francia, quanto stava a sud andava alla Sardegna. La distanza fra i due Capi è di circa dieci miglia. Fra i molti rilievi idrografici della costa, quelli dell’onorevole capitano Finch, nel 1788, i due eseguiti dal capitano Ryves, nel 1802 e 1803, e corretti da Lord Nelson, furono i primi di una certa affidabilità ed è da questi ultimi che è stata ricavata la carta dell’Ufficio Idrografico del febbraio 1804. Un altro rilievo fu successivamente eseguito dal capitano Hurd. Nella sua carta del 1827, il capitano Smyth non indica per nome tutti i punti, per quanto possano considerarsi esatte le profondità dei fondali e i contorni della costa. La mappa francese dell’isola di Corsica, del capitano Hill, pubblicata a Parigi presso il Depôt général de la Marine nel 1831, comprende anche questa parte della costa settentrionale della Sardegna e, rispetto ad essa, quella del La Marmora è di gran lunga la più chiara e dettagliata.
Lo stretto di Agincourt o, come forse è meglio conosciuto e chiamato, Mezzo Schifo, è protetto dalle isole di Spargi, La Maddalena, Santo Stefano e Caprera e si trova a sud-ovest di La Maddalena. Il braccio di mare di Arzachena, a sud-est di Agincourt, non è considerato una buona rada in quanto quella di La Maddalena ha un fondale di ventuno braccia e l’altro oscilla fra le sedici e le diciotto braccia. In ambedue i luoghi si trovano abbondanza di legname ed eccellente acqua potabile. Nelle Bocche di Bonifacio i venti di nord-ovest prevalgono per tre quarti dell’anno ed a volte sono pericolosi per la violenza e la repentinità; talvolta le correnti raggiungono una velocità che va dai due ai tre nodi e mezzo l’ora. Ebbi occasione di navigare attraverso le Bocche durante una di queste burrasche e, per citare le parole di Lord Nelson in circostanze analoghe, fu «uno spettacolo tremendo per le moltissime rocce sulle quali si infrangevano i marosi, ma è perfettamente sicuro una volta che lo si conosca bene». Claudiano ne diede una descrizione simile 1400 anni fa:

Quae respicit arcton
Immitis, scopulosa, procax subitisque sonora
Flatibus; insanos infamat navita montes.

Il piccolo e malandato porto di Longone ha perduto il suo antico interesse ed importanza. La popolazione, che si conta in circa 900 abitanti, è per lo più composta da “viandanti” e pescatori e questi hanno scoperto che col contrabbando si lucra più denaro che non con le reti. Agli inizi del quattordicesimo secolo, gli Aragonesi vi insediarono una colonia e costruirono il castello di Longone, ad un lato del porto, sul limite occidentale estremo del Monte Caresi. Le rovine mostrano un’irregolarità nella costruzione in quanto la maggior parte dei lati, lunghi circa 200 piedi, sono stati costruiti seguendo l’inclinazione naturale del terreno mentre la parte che dà verso il porto ha la forma di un arco di circa 75°. La più antica testimonianza dell’esistenza di questo castello risale al 1388, quando ne rivendicò il possesso la giudicessa Eleonora dopo la vittoria, con gli alleati galluresi, sugli Aragonesi. Si afferma che sia rimasto proprietà del re di Aragona sebbene i Longonesi sostengano che nel castello esistesse anticamente una pietra nella quale era inciso il nome di Eleonora e che gli abitanti di Ula portarono a La Maddalena. Nel 1391 giunse a Longone una nuova colonia aragonese e l’occupò fino al 1410, per quanto sottoposto continuamente ad assedi e per quanto luogo di molte battaglie.
Quell’anno, Cassiano Doria, allora signore di Castel Genovese, si alleò con Artaldo di Alagon per stringerlo d’assedio ed alla fine costrinse gli abitanti a capitolare. Gli Aragonesi, preoccupati per le perdite subite – ma consapevoli del fatto che in quell’epoca Longone era una roccaforte molto importante e centro di commercio – decisero di riconquistarlo e, sebbene nel 1420 Alfonso riuscì a riaverne il possesso, due anni dopo Longone fu riconquistato da Francesco Spinola il quale lo saccheggiò e portò a Genova un ingente bottino. Successivamente riconquistato da Alfonso, al fine di impedire il ripetersi di tali incursioni, questi fece demolire il castello e le fortificazioni. Ciò si verificò nel 1433 e della cittadella rimase soltanto quel che oggi si può vedere. Longone fu coraggiosamente difeso, contro le scorrerie dei corsari, nel 1657 da un certo Giovanni Gallurese ed il viceré di Sardegna, per ricompensarlo del coraggio e dell’abilità coi quali aveva ucciso di propria mano più di cinquanta nemici, lo nominò alcalde o governatore della torre ma, a seguito di lotte e successivi omicidi e vendette, fu costretto a darsi alla macchia dove organizzò una grossa banda che, non soltanto mise in fuga ed annientò le truppe governative, ma invase la città di Sassari e spaventò talmente i cittadini che questi non osavano avventurarsi oltre le mura. La sua vita fu ossessionata dalla gelosia e dalla vendetta che avevano origine da una relazione amorosa con la figlia di un mugnaio di Osilo. Tutti i suoi movimenti erano attentamente spiati e, venutosi a sapere che una certa sera doveva recarsi dalla donna, durante la notte la casa fu circondata dai suoi nemici al comando del rivale ed all’alba, quando andò via, gli spararono una tremenda gragnuola di colpi. Il suo corpo, completamente crivellato, fu preso e dopo essere stato vilipeso dal rivale, fu decapitato e la testa portata a Sassari ed infissa ad un palo. Nel 1810 fu inviata a Longone una colonia piemontese e, per commemorare l’evento, il nome del porto e della città mutò in Villa Teresa, in onore di Maria Teresa, moglie di Vittorio Emanuele, allora re di Sardegna. Il cambiamento non fu gradito e i paesani ancora lo chiamano col nome di Longone, preferendolo a quello di Longo Sardo o Villa Teresa. La colonia fu molto attiva sotto il nuovo governatore finché una modifica nell’uso delle terre pubbliche del distretto destinate a pascolo, che colpiva gli antichi privilegi dei pastori, fu la scintilla di una sommossa contro lo stesso governatore il quale, alla fine, rimase vittima della loro vendetta. Si ritiene che l’antica Tibula si trovasse nei pressi del promontorio del porto di Longone, un sito che corrisponde alle indicazioni fornite da Tolomeo. Molti reperti sepolcrali e numismatici dissotterrati da queste parti hanno dimostrato l’esistenza di un insediamento romano, in quanto le monete recano date che risalgono alla Repubblica e all’imperatore Probo, all’incirca verso il 276 d.C. Al largo della costa di Vignola e dell’Isola Rossa si pratica la pesca del corallo alla quale si dedicano ogni anno circa venti barche napoletane e cinque genovesi.

L’isola di Caprera, che trae il nome dalla somiglianza della sua sagoma con una capra, oppure dal fatto che in essa vive la capra selvatica, è una massa rocciosa ad est di La Maddalena, con una montagnola che si eleva per circa 800 piedi. Vi sono parecchie piccole baie ben protette, nelle quali i pescatori napoletani pescano una quantità enorme di aragoste che avviano alla vendita nei mercati italiani. Si ritiene che l’isola sia stata la Torar dei Saraceni, uno dei loro quartieri generali da dove presero avvio, nell’828, le incursioni contro le coste italiane. L’isoletta delle Bisce, all’ingresso del corridoio orientale dello stretto, prende nome dall’acontias che vi abbonda. Questo piccolo serpente – secondo Cuvier una razza intermedia fra la serpe ed il serpente vero e proprio – è assolutamente innocuo, molto timido e per niente velenoso.

Fra i capi e i promontori, quello di Capo dell’Orso è il più importante in quanto è un punto di riferimento topografico preciso e ben noto. Tolomeo lo ricorda affermando che assomiglia ad un orso e il trascorrere di 1800 anni non ha modificato la sua sagoma perché raffigura assai bene l’animale che si poggia sulle zampe posteriori. I Capi della Testa, del Falcone e della Marmorata sono luoghi dai quali i Romani hanno estratto molte colonne di granito che tutt’oggi si trovano in alcuni magnifici monumenti della Città Eterna. Si dice che le colonne del Pantheon siano state ricavate nei pressi di Longone, tanto che blocchi grezzi dello stesso materiale si possono rintracciare nelle cave di Capo Testa, sul promontorio di Santa Reparata, nelle cui vicinanze sono state anche trovate le rovine di alcune ville romane. In tempi successivi, sappiamo con certezza quanto il valore del granito della Gallura fosse apprezzato dai Pisani. Il loro Duomo, costruito da Buschetto nel 1063, subito dopo la conquista della Sardegna, mette in mostra la bellezza delle rocce della Marmorata; gli enormi blocchi usati per la costruzione furono sollevati da una macchina potente e così semplice che «azionandola, dieci ragazze potevano tirar su facilmente ciò che i vascelli potevano trasportare a fatica e ciò che 1000 buoi potevano trainare con difficoltà». Questo fatto viene tramandato in un’iscrizione epigrammatica nel Duomo di Pisa che così recita:

Quod vix mille boum possent juga juncta movere,
Et quod vix potuit per mare ferre ratis,
Busketi nisu, quod erat mirabile visu,
Dena Puellarum turba levabat opus.

Il battistero pisano, realizzato nel 1152 da Diotisalvi, è stato costruito in gran parte con pietra di Gallura. Quando a Roma s’intrapresero i lavori per la riparazione della chiesa di San Paolo, si decise di portare materiale proveniente dal Sempione per quanto si riconobbe che la quantità necessaria e la buona qualità del granito si sarebbero potute ricavare anche dalle cave della Gallura a meno della metà del prezzo, senza il fastidio del trasporto via terra e i rischi di quello via mare, dall’Adriatico o dal Mediterraneo.

A prima vista, l’isola de La Maddalena, ed in particolare la posizione della città, mi fece venire in mente Sira, nell’arcipelago delle Cicladi, sebbene non sia estesa o verdeggiante come quell’emporio commerciale. Quel che nel giungervi colpisce subito lo straniero è la grande pulizia. Gli Spagnoli chiamano Cadice la jícara áurea de España e La Maddalena si potrebbe battezzare, con lo stesso diritto “la coppa d’oro della Sardegna”. Le strade sono ben tenute e la generalità delle case, costruite in granito o imbiancate, hanno un aspetto uniforme e lindo. La popolazione conta circa 2300 abitanti, due terzi dei quali trovano occupazione nel traffico marittimo. Nell’organico della Marina reale degli Stati di Sardegna, l’isola di Sardegna contribuisce solamente con non più di due ufficiali e quindici marinai e la maggior parte di questi sono Ilvesi (ovvero gli abitanti di La Maddalena).145 L’idrofobia dei Sardi si può in primo luogo ascrivere alla loro scarsa laboriosità ed in secondo luogo al fatto che per generazioni essi sono stati costantemente preda dei corsari ed i loro paesi costieri sempre assaliti e depredati da Pisani, Genovesi e Spagnoli. Costretti per ragioni di sicurezza ad abbandonare le coste per rifugiarsi nell’interno, hanno perduto lo spirito e l’amore per l’attività marinara. Le donne di Ilva, per quanto laboriose nel disbrigo degli affari domestici, si dedicano in parte anche alla costruzione delle reti ed alla lavorazione della nacchera. Quasi ogni casa ha una mola e le donne non soltanto fanno il pane, ma macinano anche il grano. Una volta fu proposto di alleviare il gentil sesso da questo duro lavoro costruendo dei mulini a vento, e non esistevano certo difficoltà per piazzarli nei luoghi idonei, ma la proposta cadde nel vuoto perché si pensò che se alle donne fosse stato tolto quel compito, sarebbero rimaste completamente inattive. Gli Ilvesi sono di razza diversa dai Sardi. Fino al 1767, quando Carlo Emanuele III entrò formalmente in possesso di La Maddalena e delle isole adiacenti, la medesima era stata abitata dai pastori nomadi indigeni della Corsica i quali, mantenendosi in contatto con l’isola madre e la Sardegna, attraverso matrimoni misti fra i due popoli, vennero considerati un “mezzo termine”, come mentalità e caratteristiche fisiche, così come lo erano territorialmente. Il Comune di La Maddalena comprende le isole adiacenti di Caprera, Santo Stefano, Spargi e Santa Maria. Il porto, che si chiama Cala Gavetta, potrebbe essere ottimo se non fosse che, a causa dell’accumulo di sabbia e detriti, non ha un fondale in grado di offrire ancoraggio a navi superiori alle 400 tonnellate. È protetto dalle colline dell’isola a nord e a nordest, dall’isola di Caprera ad est, da Santo Stefano a sud, mentre i promontori della costa sarda attutiscono la violenza delle burrasche provenienti da occidente. Inoltre, le fortezze di San Vittorio, Sant’Agostino, Santa Teresa, Balbiano, Sant’Andrea e San Giorgio, sono disposte in modo tale da essere in grado di riversare un fuoco incrociato su ogni nave che tenti di attaccare il porto. La fortezza di San Vittorio, che sovrasta la città su una ripida altura di 600 piedi, consente una vista panoramica dell’arcipelago a nord-ovest della Sardegna, e fino alla costa sud e sud-est della Corsica. A La Maddalena ci sono soltanto due chiese che, sebbene rispondano alle esigenze della popolazione, sono infinitamente inferiori come numero a quanto in Sardegna ci si sarebbe aspettato in una città con una popolazione simile. L’isola fa capo alla diocesi di Tempio, ma, essendo esentata dal pagamento di pesanti decime, non ha, di conseguenza, un numero eccessivo di preti, di ordini religiosi o monasteri.
La chiesa principale, che è anche la parrocchiale dedicata alla Maddalena, fu costruita con marmo e granito estratti da Capo Testa e dall’isola di Tavolara; la maggior parte del materiale è stata portata dagli abitanti nei loro dies fasti come voto o promessa, secondo la tradizione esistente in molti Paesi cattolici. È molto linda e di buon gusto mentre l’altra chiesa, sorta nel 1764 a circa due miglia dalla città, non merita particolare rilievo. La criminalità è molto rara o almeno questa è l’impressione che si ricava dalle poche condanne inflitte; infatti, nel corso di molti anni, non soltanto il ricorso alla legge è avvenuto per questioni di poco conto ma sono stati rari anche i casi di reclusione. Il clima è salubre; l’intemperie e la pleurite qui sono mali sconosciuti e la maggior parte degli abitanti vive fino ad un’età avanzata. Il commercio, che consiste nell’esportazione e nel trasporto di grano, bestiame e formaggio verso i porti di Bastia, Livorno e Marsiglia, si effettua con circa ventidue navi da venti tonnellate, mentre settanta di stazza inferiore vengono impiegate nel traffico costiero. Nel 1842, entrarono in porto 262 navi, eccettuate quelle da guerra; di queste, 121 erano genovesi, 55 napoletane, 14 francesi e 2 toscane, per un complesso di 4825 tonnellate. La tassa d’esportazione sul grano fluttua su una scala mobile; sui buoi è di 3 scellini e 10 pence e mezzo a capo; sulle pecore è di 4 pence e tre quarti e sul formaggio, di circa 9 pence e mezzo a quintale. Questo per quanto riguarda il commercio legale ma la vera ricchezza, gli agi e la vita facile degli Ilvesi derivano da un’ampia rete di contrabbando che si svolge sulla costa settentrionale della Sardegna. Neanche la metà dei tessuti, biancheria o articoli di lana che vengono importati ha mai avuto l’onore dell’ispezione di un doganiere. Ci sono tante possibilità di sbarco, e quindi di occultare la mercein piccole baie e insenature, che metterebbero in scacco un esercito di gabellieri, ammesso che esistesse e, con questi svincoli non onerosi, le merci vengono portate in montagna in piccole quantità in modo da non destare sospetti. I generi alimentari sono più cari che in Sardegna; il vino costa 2 pence e un quarto la pinta, o litro; il pane, 1 penny e mezzo; la carne, 1 penny e mezzo la libbra; il pesce, 1 penny e un quarto ed il formaggio, 3 pence e mezzo la libbra. La storia di quest’isoletta, l’Insula Ilva o Phintonis dei Romani, è rimasta ignorata sino alla fine del secolo scorso quando conquistò una certa notorietà per il fatto che Bonaparte in persona l’aveva fatta bombardare, ed anche perché, a La Maddalena, aveva subito il primo smacco della sua gloriosa carriera; si aggiunga, inoltre, che Nelson ne aveva fatto il suo quartiere generale per un certo periodo di tempo. Il 22 febbraio del 1793, una squadriglia navale francese, composta da una grossa fregata e molte navi più piccole, al comando del generale Cesari, partì da Bonifacio e, approdando di notte all’isola di Santo Stefano, sbarcò materiale bellico col quale fu eretta una batteria, mentre la navi si posizionavano fra le due isole. Il 24, Bonaparte, che era il comandante in seconda di una compagnia di artiglieria corsa, al comando del colonnello Giambattista, aprì il fuoco da Santo Stefano su La Maddalena e la bombardò pesantemente; all’attacco fu risposto con identica furibonda violenza da una batteria che gli isolani avevano approntato. La guarnigione sarda era composta da cinquecento uomini e le coste della Gallura erano presidiate dai montanari della zona che si erano radunati sotto il sacro gonfalone della Madonna di Luogosanto. La fregata francese, dopo essere stata disalberata, fece rotta verso Arzachena ed il corridoio di mare fra le isole era completamente libero tanto che un esercito di 400 Sardi poté imbarcarsi a Palau ed attaccare Santo Stefano. Fu così violento l’assalto che Bonaparte fu costretto a fuggire precipitosamente dall’isola con una parte della squadriglia, lasciando 200 prigionieri, tutte le vettovaglie, gli equipaggiamenti e l’artiglieria. Nel passare fra le due isole, la sua nave fu anche bombardata da gruppi di Galluresi che si erano nascosti al largo di Capo della Caprera e che, con la precisione della loro mira, causarono gravi perdite al nemico in fuga. Molti Corsi e Ilvesi che furono testimoni di questi fatti, vivono ancora oggi e raccontano numerosi particolari della vicenda. Il resoconto che segue, mi è stato fatto da un anziano veterano che fu testimone dell’episodio. Bonaparte dirigeva le operazioni di bombardamento dalla postazione e ne osservava gli effetti col telescopio e, notando che molta gente si recava in chiesa, subito esclamò: «Voglio tirare alla chiesa per far fuggire le donne». C’è da dire che quando si trovava nella guarnigione di Bonifacio come luogotenente di artiglieria, ogni domenica si esercitava al tiro del mortaio e del fucile, sempre dimostrando la più perfetta precisione di mira. In quella particolare circostanza non fu meno abile, perché l’ordigno penetrò attraverso la finestra della chiesa e cadde ai piedi del simulacro di Nostra Signora di La Maddalena. Esso, però, si rifiutò di esplodere e questo miracoloso esempio di cortesia e di rispetto religioso produsse grande meraviglia fra i devoti isolani i quali lo raccolsero e lo conservarono a lungo fra le curiosità sacre della città finché un signore lo acquistò per 150 franchi e, così si dice, lo inviò in Scozia. Invero non si tardò a scoprire la ragione dell’inoffensività del proiettile. Napoleone continuò a sparare ma, constatando che le granate non esplodevano sebbene andassero a cadere nel punto giusto, ne controllò alcune e scoprì che erano ripiene di sabbia. «Amici» disse furente «eccolo il tradimento!». Allora i soldati e i marinai, che avevano subito gravi danni a causa del bombardamento da La Maddalena, ritenendo che il traditore fosse il generale Cesari, decisero seduta stante di metterlo “alla lanterna”. Il generale, però, ebbe il tempo sufficiente per allontanarsi e per salire a bordo della fregata ma anche lì la sua vita sarebbe stata in pericolo se non fosse stato salvato dal suo fedele servitore che lo protesse e lo nascose vicino alla santabarbara. Quando alcuni soldati tentarono di catturare il generale, l’uomo puntò una pistola contro la loro testa ed un’altra contro la santabarbara, minacciando che, al minimo tentativo di aggredire il suo signore, avrebbe fatto fuoco ed avrebbe fatto saltare la nave in aria. L’infelice episodio ebbe termine con la ritirata del generale ed il resto dell’esercito da Santo Stefano, dopo che erano state sparate oltre 500 bombe e 5000 colpi senza risultati concreti, e si concluse con la sconfitta di Bonaparte a La Maddalena.
Volgeremo, ora, l’attenzione alle visite che Lord Nelson compì in quest’isoletta quando, nel 1803, assunse il comando della flotta nel Mediterraneo ed iniziò a stringere d’assedio Tolone. In quel tormentato periodo, sembra che l’ammiraglio ne avesse fatto il suo quartiere generale e che si fosse talmente convinto dei vantaggi della Sardegna, non soltanto dal punto di vista marittimo ma anche politico, che le sue osservazioni risultano interessanti sia per quel che riguarda la sua persona ma anche perché forniscono un quadro dello stato dell’Isola in quel periodo. Dalle sue lettere e dal giornale di bordo, risulta chiaro che egli considerava la Sardegna una delle basi più importanti del Mediterraneo ed essendo avido di possederla, manifestava questo sentimento in tutti i dispacci con i quali sollecitava il Governo inglese ad impossessarsene in quanto l’Isola aveva importanza strategica per la guerra nella quale l’Inghilterra era impegnata. Nell’ottobre del 1803 fece rotta con la sua flotta verso La Maddalena, la sua meta favorita e, nonostante una forte bufera di vento, ed i consueti pericoli delle Bocche di Bonifacio dovuti alle molte isolette ed agli scogli sommersi, raggiunse sano e salvo la meta. Non occorre citare le parole esatte del suo giornale di bordo in quanto hanno interesse soltanto dal punto di vista nautico ma, in una lettera inviata al capitano Ryves, in data 1 novembre 1803, scrive: «Gettammo l’ancora nello stretto di Agincourt ieri sera … dirigemmo la Victory, nodo dopo nodo, dall’Asinara al punto di ancoraggio, con forte vento proveniente da Longo Sardo, navigando con doppio terzarolo e controranda … È in assoluto uno dei porti più belli che abbia mai visto!».
Un uomo della terraferma non può immaginare le difficoltà che presenta il passaggio nelle Bocche ma si dice che siano state enormi, e «le navi che l’hanno compiuto in condizioni così straordinarie lo debbano, secondo i loro capitani, all’intercessione della Provvidenza in favore del grande ufficiale che le guidava». Scrivendo a Mr Jackson, ministro a Torino, nel novembre del 1803, Lord Nelson così esprime la sua opinione sulle condizioni ambientali e le sue risorse: «Che nobile porto viene formato da queste isole! Non ce ne potrebbe essere uno più bello al mondo! La maggior parte dell’equipaggio è rimasta in mare più di cinque mesi. Questo non è un posto che offra molto, tuttavia ritengo di poter acquistare tutto quel che si può avere per denaro. Le provviste stabilite di trenta giovenchi per nave andrebbero benissimo, se ciascuno di essi pesasse 700 libbre, ma quelli che riusciamo a trovare pesano soltanto fra le 150 e le 200 libbre; e sebbene il re di Sardegna non possa entrare in guerra al fianco della Francia, tuttavia se, per mancanza di equipaggiamento, la sua flotta dovesse essere messa in disarmo, ritengo che i Francesi non esiterebbero ad occupare la Sardegna e la Sicilia. Pertanto, tutti debbono, o dovrebbero, preoccuparsi del nostro benessere e di tenerci in buona salute. I Sardi, parlando in generale, preferiscono la nostra presenza ma fra loro ci sono mestatori francesi che sperano di far scoppiare una rivolta». La seguente lettera a Lord Hobart, in data 22 dicembre 1803, dimostra quanto Lord Nelson tenesse ad evidenziare l’importanza dell’Isola al Governo inglese: «Mio caro Signore, nella presunzione di poter esprimere la mia opinione su ogni argomento, non mi azzardo, tuttavia, a ritenere di essere infallibile ma soltanto notizie più minuziose potrebbero convincermi che la mia opinione sia errata. Ma poiché le mie osservazioni su quel che vedo sono plausibili, le specificherò meglio il mio pensiero. Iddio sa che se noi potessimo disporre di un’isola come la Sardegna, non avremmo necessità né di Malta né di nessun’altra. questa, che è l’isola più bella del Mediterraneo, dispone di porti adatti per arsenali e offre la possibilità di tenere le nostre navi a ventiquattr’ore di navigazione da Tolone; possiede rade dove ancorare la nostra flotta e tenere sott’occhio sia l’Italia che Tolone; nessuna flotta potrebbe passare non vista a levante fra la Sicilia e la costa nord africana, né per il faro di Messina. Dal punto di vista della posizione, Malta non si può paragonare alla Sardegna. Tutti i buoni porti della Sicilia sono situati nella parte orientale dell’isola; di conseguenza non sono di alcuna utilità come basi di osservazione, salvo che per il controllo del Faro di Messina. Quindi, mio Signore, mi azzardo a presagire che se non agiamo, per ragioni di delicatezza o per commiserazione della sorte dello sfortunato re di Sardegna, saranno i Francesi ad impossessarsi dell’Isola. La Sardegna è assai poco conosciuta; il considerarla in second’ordine risponde alla politica del Piemonte e di tutti coloro che l’hanno posseduta. Sembra sia stata la regola dei Piemontesi il governare gli abitanti con rigore gravando i loro prodotti di tali tasse da scoraggiarne la produzione. A titolo dimostrativo ricorderò soltanto un esempio. Ad un poveraccio fu sequestrata mezza forma di formaggio mentre tentava di venderla ai nostri marinai perché non aveva pagato il dazio. Polli, uova, carne di manzo ed ogni tipo di genere alimentare sono tassati assai pesantemente. La Corte sarda ha necessità anche di un quattrino per potersi sostenere e poi mi si dice che dopo che viene pagato l’ignobile apparato, al re non rimangono che 5000 sterline. La terra è fertile oltre ogni dire ed è ricca di bovini, pecore e ha le potenzialità per produrre grano, vino ed olio in abbondanza. Non ha fabbriche. Retta da un governo liberale, affrancata dal terrore di invasioni degli Stati barbari, non si può immaginare quanto potrebbe produrre. Vale qualsiasi somma e ci scommetto la vita che la si potrebbe mantenere con un’amministrazione non più pletorica di quella di Malta, mentre consentirebbe una rendita più cospicua». Il resto del dispaccio si dilunga su altri argomenti. In una lettera indirizzata a Lord Minto, in data 11 gennaio 1804, Nelson ancora afferma: «Se non riusciamo ad assicurarcela subito, la Sardegna finirà nelle mani della Francia anziché nostre e perderemmo, allora, l’isola più importante, come postazione navale e militare, del Mediterraneo. Nell’estremità settentrionale dispone del porto più bello del mondo. Sta alla pari di Trincomalee.147 Se perdo la Sardegna, perdo la flotta francese». Così, Nelson scrive a Mr Jackson il 10 febbraio 1804: «La bufera si avvicina e non c’è dubbio che la Sardegna sarà uno dei primi obiettivi della sua violenza. Abbiamo notizia che la visita di Luciano Bonaparte abbia lo scopo di realizzare uno scambio amichevole della Sardegna in cambio di Parma e Piacenza. Ciò non deve accadere, altrimenti la Sicilia, Malta, l’Egitto ecc. presto o tardi si perdono. Tutto quel che posso fare per evitare la catastrofe, lo farò, come in proposito ho già dato assicurazione a Sua Altezza Reale il Viceré. Fra Marsiglia e Nizza ci sono non meno di 30.000 uomini pronti ad imbarcarsi. Se la Russia dovesse allearsi con la Francia, a quel punto ritengo che si sia gettata la maschera, con tanti saluti alla neutralità di Sua Maestà sarda. Perciò, se ciò accadesse, consentirebbe il re di Sardegna che due o trecento soldati inglesi si accampassero a La Maddalena? Sarebbe una misura temporanea contro un’invasione dalla Corsica e consentirebbe a noi di prestare soccorso alla zona settentrionale sarda.
Tratterete la faccenda nel modo in cui riterrete più saggio o altrimenti non fatene niente, ma esiste soltanto questa scelta: perdere la Sardegna o consentire ad un modesto contingente di soldati amici di tenere sotto controllo una parte dell’estremità settentrionale dell’Isola. Noi possiamo intervenire per prevenire ma non possiamo riconquistare una cosa perduta. La Sardegna è l’avamposto più importante del Mediterraneo. Il vento che spingesse una flottiglia francese verso ovest tornerebbe a vantaggio delle navi che partono dalla Sardegna, e La Maddalena è il punto più strategico di quest’importantissima Isola. Mi si dice che il re, pagate le spese generali dell’Isola, non ne ricavi più di 5000 sterline l’anno. Se fosse vero, per acquistarla gli offrirei 500.000 sterline che gli garantirebbero una rendita di 25.000 sterline l’anno in perpetuo. Questo, ovviamente, è il mio convincimento ma comunque il re non riuscirà a possedere a lungo la Sardegna». In una lettera inviata a Lord Saint Vincent, Nelson scrive: «Ho illustrato a Lord Hobart l’importanza della Sardegna. Per la sua posizione, vale cento volte Malta ed ha il miglior porto per navi da guerra che esista in Europa. Per dirla in breve, non offre altro che vantaggi». A Lord Hobart, l’ammiraglio Nelson ancora scrive (17 marzo 1804): «È il summum bonum di tutto quel che per noi abbia valore nel Mediterraneo. Più la conosco, più mi convinco del suo valore inestimabile quanto a posizione, porto navale e risorse d’ogni genere». Quel che segue è uno stralcio dalla lettera a Lord Hawkesbury in data 22 giugno 1804: «Se fossi vicino a Vostra Eccellenza, ritengo che sarei nella condizione di dire molte cose sull’argomento Sardegna e sulle iniziative che occorrerebbe assumere per conquistarla. Mi risulta con certezza che il re di Sardegna non sia in condizioni di mantenerla ulteriormente e se anche potesse, non se ne farebbe niente. Se finisse nelle mani della Francia, questa dominerebbe il Mediterraneo mentre noi potremmo averla ad un prezzo assai inferiore di Malta. Per la sua posizione vale 50 Malte». Ci sono parecchie altre lettere di Lord Nelson che trattano di quest’argomento ma è stato offerto al lettore materiale sufficiente per farsi un’idea della grande opinione che egli aveva della Sardegna. Quando stava alla fonda a La Maddalena e nello stretto di Agincourt aveva incaricato due o tre navi di pattugliare in continuazione il tratto di mare fra Tolone e le Bocche di Bonifacio per segnalargli se qualche unità del nemico tentasse di uscire da quel porto e, talvolta, faceva uscire con lui in perlustrazione tutta la flotta, facendo sempre ritorno al suo quartiere generale. Fu a causa di questo apparire e scomparire delle sue navi al largo di Tolone, nel tentativo di allettare la flotta francese ad uscire dal porto, che l’ammiraglio Latouche Trèville pronunciò la famosa e ridicola spacconata e cioè che «aveva dato la caccia alla flotta inglese e che questa era fuggita davanti a lui». Questa falsa affermazione fece tanto irritare Lord Nelson che vi fece continuamente riferimento nei suoi dispacci al Governo ed anche nelle lettere e nelle conversazioni private. In una missiva inviata al fratello scrive: «Avrai sentito dalla lettera di Latouche secondo la quale egli mi avrebbe dato la caccia e io sarei fuggito. Quella lettera la conservo e quando lo acciufferò, per Dio, gliela farò mangiare». Nonostante qualche lieve inconveniente che si verificò agli inizi della sua presenza, come il nutrirsi di carne di vacca macilenta anziché del «roast beef della vecchia Inghilterra», Nelson non ebbe successivamente difficoltà a procurarsi tutto il necessario. Complessivamente lo stato di salute degli uomini della flotta era abbastanza buono. Il giornale di bordo, alla data del 26 ottobre 1804, fa menzione di un’uscita dalla Maddalena con le navi di linea Victory, Canopus, Superb, Spencer, Tigre, Royal Sovereign, Leviathan, Excellent, Belleisle e Conqueror oltre alle fregate e alle navi più leggere, e così si legge: «Nessun ammalato fra gli uomini della flotta». Il 19 gennaio 1805, la nave di vedetta in mare aperto segnalò che la flotta francese aveva preso il largo; si realizzavano, finalmente, le sue aspettative, i desideri, le preghiere ed i voti. Un mio informatore a La Maddalena mi ricordò che in quei giorni a bordo delle navi c’era molta allegria fra balli, spettacoli teatrali ed altri intrattenimenti e così accadde che, mentre si stava svolgendo la prova generale dei preparativi per la festa della serata, si udì improvvisamente il segnale di all’erta. A questo, da bordo della Victory, si rispose con l’altro segnale: «Salpare immediatamente le ancore» e le scene di eccitazione e di confusione, per la partenza precipitosa e l’interruzione dei festeggiamenti, furono raccontate in modo molto pittoresco. Era una serata scura d’inverno e la repentinità dell’ordine fu eguagliata dall’abilità e dal coraggio con i quali esso venne eseguito. Il corridoio di mare è talmente stretto che poteva passare soltanto una nave per volta, ed ognuna si orientava con le luci di poppa di quella che la precedeva. Alle sette della sera, tutta la flotta aveva lasciato lo stretto e, dopo un cordiale addio a La Maddalena, le navi presero il largo inseguendo la flotta francese in direzione sud. Sebbene, nel suo giornale, Lord Nelson ne faccia appena cenno, tuttavia il grande coraggio e la fermezza da lui dimostrati in questa occasione particolare furono oggetto di encomio nella Camera dei Lord da parte del re, allora duca di Clarence, che aveva citato l’episodio come la più alta manifestazione del suo indomito coraggio e del suo incessante attivismo. È stato anche rilevato, da parte di coloro che conoscono i luoghi, che la difficoltà dell’impresa abbia dimostrato veramente la grande abilità e la capacità strategica dell’ammiraglio.
Prima della partenza, Nelson donò alla chiesa di La Maddalena due massicci candelabri ed un crocifisso d’argento sormontato dall’effigie del Salvatore in oro, d’artigianato barcellonese; il piedistallo triangolare reca inciso il suo stemma araldico, quello dei Bronte, e la seguente iscrizione:

VICE COMES
NELSON NILI
DUX BRONTIS ECCEE.
STE MAGDALE. INSE.
STE MAGDALE.
D. D. D.

Si dice che più di una ragione abbia indotto Lord Nelson a fare questo dono, per quanto si può presumere che sia scaturito dalla consapevolezza della cortesia e dell’ospitalità dimostrate dagli isolani. Quando la città gli rese pubblici ringraziamenti per l’atto generoso, egli – secondo quanto riferitomi dal mio informatore – così rispose: «Questi umili arredi sacri sono una sciocchezza. Attendete che acciuffi i Francesi una volta che escano dal loro porto. Non devono fare altro che venirne fuori e sono certo di farli prigionieri; vi prometto che vi darò l’equivalente del valore di una delle loro fregate per costruirci una chiesa. Devo chiedervi solamente di pregare la Santissima Madonna perché la flotta francese lasci il porto di Tolone. Pregatela per questo, e quanto a farli prigionieri, ci penserò io». Si può ricordare un pettegolezzo che circola a La Maddalena al fine di confutarlo. Nonostante fosse nota la liaison con una Hamilton (la cosa è di pubblico dominio), Lord Nelson non fu insensibile al fascino e alle blandizie di una giovane e affascinante ragazza che, allora, veniva considerata la bella dell’isola. Emma Liona, questo il suo nome, rimase non di meno lusingata dalle sue attenzioni e l’amore fra i due divenne notorio. Se la cosa fosse vera, non occorre un grosso sforzo di fantasia per prestar fede alla diceria secondo la quale fu per desiderio e consiglio della giovane che alla chiesa venissero donati gli arredi come offerta e voto per la salvezza di entrambi. Ora, la veridicità di tutta la storia presenta molti lati deboli dal momento che, nel diario di Nelson relativo al periodo in cui si trovava a Gibilterra, si legge la seguente nota datata 20 luglio 1805: «Scesi a terra per la prima volta il 16 giugno 1803 e, per due anni, non ho messo piede fuori dalla Victory». In una lettera indirizzata a sir Charles Pole, nel maggio 1804, Nelson così scrive: «Siamo felici quanto può esserlo un branco di animali perché, di fatto, siamo rimasti più di un anno in mare o piuttosto senza sbarcare a terra perché, ad eccezione di un ancoraggio nell’estremità settentrionale della Sardegna, neanche una nave, durante questo periodo, ha avuto necessità di entrare in un arsenale per riparazioni». In un’altra lettera, datata all’incirca nello stesso periodo, ed indirizzata al Signor Foresti, di Corfù, si trova questo brano: «Nessuna nave di questa flotta, dall’inizio della guerra, è entrata in alcun porto; fino a questo momento non ho mai messo piede fuori dalla nave». Fu anche affermato dal duca di Clarence, che aveva accertato la circostanza, che Lord Nelson non sbarcò mai dalla Victory se non tre volte e cioè dalla partenza dall’Inghilterra nel 1803, fino al suo ritorno nel 1805, e nessuna assenza dalla nave si protrasse per oltre un’ora. Poiché la sua prima visita a La Maddalena ebbe luogo il 31 ottobre 1803 e la lasciò per l’ultima volta il 19 gennaio 1805, è del tutto evidente che, secondo quanto da lui affermato, egli non scese a terra nel corso dei quindici mesi che vi trascorse. Sappiamo, per di più, che nel 1804, quando la famiglia reale sarda fuggì dal Piemonte, sotto scorta degli Inglesi fino a Cagliari, fu sollecitato a renderle omaggio ma declinò l’onore col pretesto che il suo dovere richiedeva la sua presenza a bordo. Le affermazioni e le circostanze riferite, sebbene non costituiscano un’esplicita negazione di quanto si narra, contengono però elementi tali da mettere in dubbio la veridicità del fatto.
Che la storiella sia vera o falsa, il nome di Nelson è da tutti onorato e i candelabri, sia che siano stati un dono suggerito dall’amore o da motivi religiosi, costituiscono, tuttavia, per gli Ilvesi, oggetto di grandissimo orgoglio. La presenza della flotta inglese, come mi fu confermato da diverse autorità, fu fonte di grandi vantaggi economici ed anche di allegria per La Maddalena e la cortesia, l’amabilità e il comportamento civile dei marinai hanno lasciato un’impressione favorevole della nazione inglese. Si susseguivano con gran frequenza trattenimenti e feste di vario genere e l’approvvigionamento di una grande flotta costituì un affare vantaggioso per i Galluresi e per gli Ilvesi, anche perché il contrabbando con la Corsica prosperava in misura maggiore di quanto avvenga adesso. La partenza di Nelson e della flotta fu, come dicono gli abitanti di Ilva, «un colpo di apoplessia» e perciò hanno ben ragione di rimpiangere il grande cambiamento che ha avuto luogo e manifestano scontento per l’attuale monotonia. Ci si è forse dilungati sulle notizie relative a Napoleone ed a Nelson, ma la circostanza che un luogo di così scarso rilievo e quasi sconosciuto sia stato la scena della sconfitta di un uomo agli inizi della sua ascesa, ed il quartiere generale dell’altro, nel corso di quel che considerava il periodo più irrequieto della sua vita (derivante dai suoi tentativi di catturare la flotta del nemico) giustificano – forse – l’ampiezza dello spazio ad essi dedicato. Valery, nel ricordare La Maddalena e questi avvenimenti, afferma: «Les deux grands donataires de La Madeleine n’ont point toutefois touché son sol. Nelson qui laissait aller à terre ses officiers, ne voulait jamais quitter un instant son bord, et le corps d’armée de Napoleon fut repoussé. Cette carrière si glorieuse, ces innombrables victoires sur tant de lointains champs de bataille, devaient se trouver entre deux désastres; le petit et obscure échec de la Madeleine, et l’immense revers de Waterloo».