La Maddalena AnticaStorie e Memorie

La guerra e Mussolini a La Maddalena

Durante la grande guerra del 1915-18 proseguirono più accentuatamente i lavori fi fortificazione dell’Arcipelago. Furono costruite nuove batterie per la difesa dal cielo e dal mare, rimodernate e potenziate le vecchie. Intanto gli attriti internazionali si facevano più pressanti e minacciosi, e con la formazione dell’Asse Italia-Germania-Giappone si capiva che la situazione sarebbe irreparabilmente precipitata. Le numerose navi di superficie e i sommergibili, centinaia di cannoni e mitragliere navali e antiaeree, migliaia e migliaia di uomini concentrati attorno ai potenti forti della Maddalena, di Caprera, di Santo Stefano, di Spargi e della prospicente cosa sarda attendevano ormai l’imminente prova del fuoco.
L’isola, potente piazzaforte di confine con la Francia e centro nevralgico per i movimenti della flotta militare soprattutto in occasione degli scontri aereonavali nel Mediterraneo centrale, era destinata inevitabilmente ad essere bersaglio degli attacchi nemici, massimamente dal cielo. Tutta la popolazione fu fatta sfollare e trovò ospitalità nei paesi e nei borghi più vicini. Data l’evidente supremazia e il prevalere delle forze avversarie, dopo i primi anni di sostanziale equilibrio, il momento cruciale era incombente e l’attesa gravida di ansie e timori. Emblematico il motto – ancora visibile – che proprio allora fu scritto sulla parete esterna della batteria Zanotto a Spargi: “Est fortium spectare fata silentes” (E’ proprio degli uomini forti attendere il fato in silenzio). E il fato, avverso, si abbatté sull’isola, dapprima con insistenti allarmi aerei e sporadiche, non gravi incursioni dall’aria, poi con il pesante bombardamento aereo del 10 aprile 1943 in cui fu affondato da tre grosse formazioni di liberator americani, nella baia di Mezzo schifo, l’incrociatore Trieste, furono danneggiati il Gorizia alla fonda nella baia di Porto Palma e il sommergibile Mocenigo nell’arsenale, distrutti due MAS, colpiti depositi e impianti a terra.
Grande impressione destò alla Maddalena e a Palau la perdita del grande incrociatore con parte dell’equipaggio (oltre 95 feriti, ci furono 63 caduti, tra i quali il ventunenne maddalenino Francesco Onorato, ch’era di guardia sulla plancia della nave, dove cadde la bomba; più numerose le perdite sul Gorizia, raggiunto da tre bombe). Da tanto tempo ancorato nella rada, il Trieste era una presenza ormai familiare e rassicurante: la tragedia sembrava foriera di più gravi ed incalzanti disastri. Dopo l’armistizio fu riportato a galla e rimorchiato alla Spezia per la demolizione.
L’anno 1943, come si sa, segnò la crisi per l’Italia, sino alla catastrofe finale. Gli insuccessi bellici sui diversi fronti, la perdita delle colonie, i massicci e devastanti attacchi aerei sulle nostre città, la distruzione progressiva delle fabbriche e delle strutture portuali e ferroviarie, infine lo sbarco degli alleati in Sicilia determinarono il crollo del Regime. Il 25 luglio dello stesso anno Benito Mussolini, sfiduciato dal Gran Consiglio del Fascismo, fu destituito e arrestato. Dopo la mezzanotte del 27 luglio venne imbarcato per Gaeta sulla corvetta Persefone, che puntò su Ventotene ma, poiché c’erano in giro per l’isola troppi tedeschi, si diresse a Ponza. Poco dopo mezzogiorno del 28 luglio Mussolini sbarcò sull’isola e vi restò sino alla notte del 6-7 agosto. C’era sentore che i tedeschi tentassero un colpo di mano, per cui si decise di trasferire il prigioniero alla Maddalena. Il 2 agosto il generale Kesserling, comandante delle armate germaniche in Italia, aveva fissato proprio per il giorno 6 l’assalto (“Operazione Nero”) per liberare il Duce. Ma intanto il capitano viennese Otto Skorzeny, comandante di un reparto speciale di guastatori al quale era stata affidata la missione, fu informato che il prigioniero era stato portato via: “Nell’entourage di Hitler si stava facendo largo l’ipotesi di un trasferimento nell’isola di Santo Stefano. Mussolini, invece, fu condotto alla Maddalena dove giunse nel pomeriggio del giorno 7 a bordo del cacciatorpediniere Pantera, accompagnato dall’ammiraglio Maugeri. Ad attenderlo c’era l’ammiraglio Bruno Brivonesi, che egli detestava per varie ragioni; si sospettava che fosse in collusione con gli alleati (la moglie era inglese) e aveva subito un processo per non aver saputo evitare la completa distruzione di un convoglio diretto in Libia e affidato alla protezione delle sue navi. Si trattava del convoglio Duisburg, sette piroscafi scortati da cinque cacciatorpediniere e due incrociatori pesanti, il Trento e il Trieste, sul quale era imbarcato, al comando della formazione, lo stesso Brivonesi. Tutti i piroscafi e due caccia, il Fulmine e il Libeccio, furono affondati. L’attacco avvenne di notte e gl’inglesi furono favoriti dal radar, di cui invece non disponevano le nostre navi. Circolò la voce – ma era un semplice, non provato sospetto – che ci fosse una collusione dell’ammiraglio italiano con gli inglesi. Nell’isola il Duce era già stato il 10 giugno 1923, la seconda volta il 10 maggio 1935, la terza il 10 giugno 1942, sempre acclamato e osannato dalla folla. Egli stesso nel suo libro memoriale ‘Il bastone e la carota’ annotò: “Un anno fa visitai La Maddalena fra l’entusiasmo della popolazione. Oggi arrivo clandestinamente”. In un arco di tempo così breve, col precipitare rovinoso degli eventi bellici, tutto gli era crollato intorno: il potere, la gloria, i sogni dell’avvenire. Ora era un detenuto guardato a vista, fatto segno del rancore e dell’ira della gente delusa.
Mussolini fu portato nella villa Webber e gli furono assegnate due stanzette. Tutt’in giro fu di disposta, con centinaia di carabinieri, una cintura di sicurezza invalicabile. Privato della radio e del telefono (staccato per disposizioni venute da Roma), fu relegato nel più completo isolamento, con cibo scarso e senza ricambio di indumenti. Alla Maddalena, dopo lo sfollamento della cittadinanza e la chiusura di tutti i negozi ed esercizi pubblici, era difficile trovare generi alimentari, impossibile l’acquisto di biancheria. Una brava donna, Maria Pedoli, giovane figlia del guardiano della villa, si era offerta di lavare quotidianamente i pochi capi di cui egli disponeva; camicie e mutande gli furono offerte dal dottor Aldo Chirico, che fu in contatto segreto col prigioniero e pubblicò in seguito questi particolari in un libretto intitolato “Mussolini prigioniero a La Maddalena, cui abbiamo attinto anche noi.
La Pedoli gli mandò a chiedere una dedica, facendogli recapitare un libro sul quale – in una pagina interna – Mussolini scrisse: “Su questo libro posseduta dalla ignota che ha ripulito i miei stracci, scrivo il mio grazie e il mio nome: Mussolini, defunto”.
Mussolini è veramente ‘defunto’. Il mondo gli pare d’un tratto rovinosamente caduto addosso: “Il sangue, l’infallibile voce del sangue mi dice che la mia stella è tramontata per sempre”. Alla finestra contempla a lungo il mare, tra cupi pensieri: “Il mare somiglia a un lago alpino. Un’incredibile uniformità grava su ogni cosa. Il passato mi appartiene veramente. Il passato ci appartiene col suo bene e il suo male, le sue gioie e i suoi dolori”. Impedito di uscire e di fare qualche bagno nella spiaggetta vicina, passava il suo tempo annotando pagine di diario e leggendo vecchie riviste, qualche libro, quindi le opere in 24 volumi, finemente rilegati, di F. Nietszche, inviategli in dono – con dedica – da Hitler. Né poté leggere solo i primi quattro, trovando bellissime le poesie. Il suo pensiero andava ai familiari e si affliggeva nel ricordo del figlio Bruno, scomparso tragicamente due anni prima proprio nel mese di agosto.
Scendeva a volte nel giardino, si fermava a discutere di storia con gli ufficiali e a essi chiedeva spesso notizie degli avvenimenti del giorno, sui quali fu costantemente tenuto all’oscuro sino al 20 agosto, quando poté ricevere giornalmente il bollettino di guerra che veniva inviato, dattiloscritto, dal comando militare ella piazzaforte. Dall’ispettore di Pubblica Sicurezza dott. Polito, che era venuto in visita di controllo, apprese quanto era avvenuto in Italia dopo il 25 luglio: “Deve riflettere – gli disse – che il cambiamento è stato radicale. Non solo in Italia non si vedono più distintivi del ‘Partito’. Ma tutti i fascisti sono più che dispersi: sono “scomparsi”. Le manifestazioni di odio contro di lei sono innumerevoli. Io stesso ho visto un suo busto in un cesso pubblico di Ancona”.
La terribile verità accrebbe la prostrazione di Mussolini. “Si assiste a un voltafaccia completo – scrisse – Un popolo cambia tutto il corso dei suoi pensieri, dei suoi sentimenti, della sua storia … Quale giudizio dare di un popolo che offre di sé tale spettacolo al mondo, con un cambiamento così improvviso, e potrebbe dirsi isterico, di stato d’animo?”. E quindi la più amara riflessione: “Una voce mi dice: se tu ora fossi morto, non avresti abbandonato anche Palazzo Venezia e Villa Torlonia e la Rocca delle Camminate e i parenti e gli amici e tutto quello che ti era caro? La voce non riflette che io ho abbandonato tutto ciò da vivente. Eppure è come se fossi morto” (Il bastone e la carota. Storia di un anno). Anche dopo la liberazione penserà con insistenza alla morte. “La morte mi è diventata amica, non mi spaventa più. La morte è una grazia di Dio per chi ha sofferto troppo … Ho sbagliato e pagherò, se questa mia povera vita vale da paga. Io sono responsabile, tanto per le cose ben fatte che il mondo non mi potrà mai negare, quanto per le mie debolezze e la mia decadenza, Sono finito. La mia stella è tramontata”.
Due anni dopo (1945) il diplomatico Bolla noterà in lui: “un senso di impotenza … una paralizzante sfiducia in se stesso … E’ senza dubbio un uomo … che ha perduto il senso della Storia e quello della realtà”. Gli graverà soprattutto “la consapevolezza di avere distrutto un passato trionfale e dilapidato un credito popolare forse irripetibile”.
Il soggiorno a Villa Webber era reso fastidioso dall’afa estiva e dalle zanzare. Alla tristezza dell’esilio e alla prostrazione morale, si aggiungevano forti dolori addominali causati dall’acuirsi d’un ulcera. In pochi giorni era calato di dieci chili. Scrive Renzo Larco nelle sue notarelle: “Appena giunto alla Maddalena, Mussolini aveva chiesto che gli fossero portati, giornalmente, latte e frutta. Da un orto coltivato proprio a mezzogiorno (a sud ndr) della villa (l’orto di Leopoldo Spano) riceveva ogni mattina un cestello di pomodori. I suoi pasti erano quanto mai uniformi: alle otto del mattino beveva latte e mangiava qualche frutto; a mezzogiorno prendeva talvolta un uovo scaldato, ma sempre frutta, specialmente uva, e pomodori e un po’ di latte; alla sera solo latte e frutta”. Cominciò a sentire, seppure ancora vagamente, il richiamo della fede, dalla quale era stato distratto durante la militanza politica e i trionfali giorni del poter. Chiese, perciò, che gli venisse inviato il cappellano militare. Il capitano dei carabinieri Emilio Marras – ch’era addetto al servizio di polizia militare presso il comando della base – fece presente che a suo giudizio appariva più idoneo. Per le doti di cultura e altresì per la riservatezza, il sacerdote titolare della chiesa parrocchiale, don Salvatore Capula. “In un’isola – scrive Mussolini in una lettera – avevo cominciato, dopo 40 anni, il mio avvicinamento alla religione. Se ne occupava un Parroco di fama ottima”; e ancora: “La sua visita mi è stata di grande conforto, mi ha aperto il mio cuore depresso”.
Lo stesso Mussolini nei ‘Pensieri di Ponza e della Maddalena’, rinvenuto nel dicembre del 1949 nell’abbazia di Kreismunster, in Austria, descrive l’incontro con il parroco (ce ne furono quattro), che ad un certo punto gli si rivolse con queste parole: “Mi permetta di parlare francamente, lei non è stato sempre grande nella fortuna; sia grande nella disgrazia. E’ da questa che il mondo la giudicherà, da quel che lei sarà a partire da ora e da molto meno da quello che lei è stato fino a ieri. Dio, che vede tutto, lo osserva e sono sicuro che lei non farà nulla che possa ferire i principi religiosi, cattolici, dei quali lei si ricorda, anche se dovessero prodursi nuovi colpi del destino”. E aggiunse: “Molti che hanno ricevuto i suoi favori l’hanno dimenticata. Altri provano per lei la stima che si deve a un caduto e forse un segreto rimpianto”.
Ma i tempi incalzavano. Il comando tedesco, che intanto aveva scoperto il luogo delle detenzione, preparava un nuovo piano per liberarlo. Lo stesso capitano Skorzeny ricevette direttamente da Hitler questo messaggio: “Desidero affidarle una missione della più alta importanza. Il mio amico Mussolini, il nostro fedele compagno di lotta, è stato tradito dal re ed arrestato dai suoi compatrioti. Ora io non posso e non voglio abbandonare nel momento del pericolo il più grande di tutti gli italiani … la personificazione dell’ultimo Cesare romano”. Alla Maddalena, il 28 agosto, il capitano decide di dare l’assalto alla villa, confidando eventualmente nell’intervento di notevoli forze e veloci motovedette dislocate in Corsica. Ma alle quattro del mattino Mussolini era stato prelevato e tradotto a Campo Imperatore, sul Gran Sasso. Il servizio d’ordine italiano, avendo forse sentore del piano, aveva provveduto a trasferire il prigioniero, con un idrovolante della Croce Rossa, sul lago di Bracciano e di là nel rifugio montano. Skotzeny apprese la notizia per puro caso e fece in tempo ad annullare un’azione inutile. Il 12 settembre, invece, avrà pieno successo – pare con la complicità da parte italiana – l’audace tentativo che si concluderà con la liberazione incruenta del Duce dall’albergo-prigione dell’Appennino: liberazione che lo porterà verso una breve, effimera illusione e il suo tragico destino. L’8 settembre, con la notizia dell’armistizio, viene diramato il proclama di Badoglio: “Ogni atto di ostilità contro le forze angloamericane deve cessare da parte delle forze armate italiane in ogni luogo. Esse però reagiranno ad eventuali attacchi da qualsiasi parte provengano”. Il significato è persino troppo chiaro: è il rovesciamento delle vecchie alleanze e sembra imminente lo scontro con i soldati della 90.ma divisione corazzata tedesca del generale Lungherhausen di stanza in Sardegna. Questi in un primo tempo cerca di trarre dalle sua parte, per continuare la guerra a fianco del Reich, il generale Antonio Basso che, al comando di due corpi d’armata, è responsabile della difesa militare della Sardegna. Al rifiuto del generale italiano, Lunghrhausen chiede ed ottiene di poter lasciare l’isola con tutte le sue forze per raggiungere, attraverso la Corsica, il Nord Italia. Intanto di fronte all’estuario dell’Arcipelago si consumava la tragedia di una delle più belle e potenti della nostra Marina.
In seguito all’armistizio, Supermarina, il comando supremo delle nostre forze navali, secondo le direttive di Cassibile (3 settembre) aveva dato l’ordine all’ammiraglio di squadra Carlo Bergamini di trasferire la flotta dalla Spezia alla Maddalena. Le 22 navi – 3 modernissime corazzate, 6 incrociatori e 13 cacciatorpediniere – navigarono indisturbate sino alle Bocche di Bonifacio, ma quand’erano in vista della Maddalena furono attaccate inaspettatamente, ad ondate successive e dall’altezza di seimila metri, da uno stormo di veivoli della Luftwaffe che, in quell’occasione, sperimentò per la prima volta la micidiale e precisissima bomba telecomandata FK 1400 (con questo stesso tipo l’11 settembre verrà messa fuori combattimento la potente corazzata inglese Warspite). La Roma, nave ammiraglia da 46 mila tonnellate, colpita nella santabarbara esplose ed affondò rapidamente (al largo di Porto Torres ndr), trascinano con sé l’ammiraglio e 1253 uomini dell’equipaggio. La stessa sorte seguirono i cacciatorpediniere Vivaldi e Da Noli che, partiti da Civitavecchia, si dovevano riunire alla squadra. Fatte bersaglio dalle formazioni aeree e dalle batterie costiere della Corsica, si difesero strenuamente sino all’ultimo, abbattendo – prima di soccombere – alcuni bombardieri r affondando diverse motozattere che evacuavano le divisioni corazzate dalla Sardegna.
Alla memoria dei marinai caduti, il 9 settembre 1949, ricorrendo il sesto anniversario della battaglia, è stata eretta sullo scoglio della Paura – ora scoglio Roma – di fronte alla spiaggia del Pesce a Santo Stefano, una colonna granitica donata dalla Capitale. L’avevano portata i Romani dell’Africa duemila anni prima per costruire un tempio nell’Urbe. E’ sormontata da due rostri in bronzo e ornata alla base da una statua dello stesso metallo, opera dello scultore Carlo Fontana, autore – come ha scritto il giornalista Pietro Favale – di una delle quadriglie che sormontano il Vittoriano, il grandioso e discusso monumento di Piazza Venezia a Roma. E’ intitolata la Procellaria, ma nell’atteggiamento tristissimo, col capo reclinato e le ali piegate, sembra rappresentare la Vittoria tradita. Lo spostamento della flotta alla Maddalena (almeno così fu assicurato all’ammiraglio Bergamini, ch’era decisamente contrario a consegnarla agli ex nemici) sembra fosse stato deciso in relazione al trasferimento del Duce nell’isola, dove dovevano traslocare l’intero Governo italiano e il re. E lì sarebbe avvenuta la consegna del prigioniero, secondo gli accordi di Cassibile, agli inglesi. Si verificavano, sotto certi aspetti, quelle stesse condizioni che, circa centocinquant’anni prima in seguito all’invasione francese, avevano indotto lo spostamento della corte sabauda in Sardegna e, in particolare, del comando Marina e della squadra navale alla Maddalena.
Quella italiana non sarebbe stata la prima e l’unica Corte a dover abbandonare con il proprio Governo la Capitale dello Stato per poter esercitare liberamente i compiti istituzionali e salvare l’istituzione monarchica. In quella situazione data la scelta della Sardegna e di La Maddalena era senz’altro la più adeguata. Il rapporto delle forze militari contrapposte era, secondo una generale valutazione tecnica, a favore dei reparti italiani, a condizione di non permettere l’ammassamento dei tedeschi che invece fu addirittura favorito. La stessa valutazione la si ritrova in documenti del comando alleato. La Sardegna avrebbe offerto le condizioni ideali per un’azione di governo a piena sovranità, a differenza di quanto fu possibile a Brindisi” (Salvatore Sanna)
Ma l’affondamento della nave ammiraglia della flotta italiana all’entrata delle Bocche di Bonifacio, il sospetto piano di Skorzeny per liberare Mussolini e, poi, la battaglia nella piazzaforte contro i tedesche fecero mutare i piani.
Gli eventi dell’8 settembre avevano mutato, e presto capovolto, i rapporti fra l’Italia e la Germania. Alla Maddalena la notizia fu propalata verso le ore 20. Le forze germaniche dislocate in Sardegna iniziarono le operazioni per trasferirsi in Corsica. Anche i tedeschi di stanza all’isola decidono di evacuare, L’Ammiraglio Brivonesi, su disposizione di Supermarina e del comandante Antonio Basso, che ha fissato il suo quartiere a Bortigali, concorda col colonnello tedesco Unes le modalità del ritiro, che sarà pacifico, senza alcuna interferenza degli italiani secondo superiori disposizioni. Frattanto un notevole schieramento di ex alleati e una compagnia di paracadutisti delle divisione ‘Nembo’ viene effettuato lungo tutto l’arco costiero che va da Arzachena a Santa Teresa per assicurare protezione assoluta ai corpi armati che, dopo aver minato ogni ponte sulla camionabile Tempio-Palau, affluiscono nei punti d’imbarco. Gli elementi, più intemperanti assaltano e saccheggiano i magazzini, ai quali si uniscono anche civili di Palau e di Santa Teresa. Le divisioni italiane tallonano i tedeschi ma non intervengono, non tenendo conto della Memoria 44 diramata dal Quartier Generale di Roma. Questa ‘memoria’, trasmessa sin dal 3 settembre tramite un ufficiale dello Stato Maggiore, il tenente Donato Eberlin, al generale Basso, conteneva istruzioni segrete da osservarsi nell’eventualità di un armistizio, e tra l’altro così prescriveva: “Considerare il caso che forze tedesche intraprendano di iniziativa atti di ostilità armata contro organi di governo o contro forze armate italiane” e, più oltre: “Per la Sardegna, inizialmente far fuori le truppe tedesche; successivamente tenersi pronti ad altro impegno”. Di questo documento non si è conservato il testo originale perché – ritenuto rigorosamente riservato – per tassative prescrizioni non era consentito farne copia, ma soltanto prendere appunti “per memoria” dalla redazione portata a mano. La divisione corazzata tedesca (30.000 uomini) è comandata dall’ottimo generale Lungerhausen. Il generale Basso gli è amico per la lunga frequentazione e per la sintonia di pareri e d’azione durante le continue manovre militari fatte in vista di un possibile attacco all’isola. Si può capire, quindi, il suo disagio nel dover, d’un tratto agire contro un collega d’armi, un alleato amico ch’egli stima moltissimo. “Tutti – ha scritto Basso – manifestarono un evidente turbamento, non tanto per l’ordine in sé, quanto per la considerazione della necessità di dover contrastare e capovolgere quello spirito di concordia cameratesca e guerriera che tuttora esisteva in Sardegna, nelle relazioni, senza dubbio interessate ai fini comuni, tra comandanti e gregari dei due eserciti”. Da considerare, quindi, il disagio delle truppe nel dover ribaltare il fronte a spese di alleati dichiarati di punto in bianco nemici da combattere ed eliminare, nonché l’inaffidabilità dei paracadutisti della divisione ‘Nembo’ (10.000 uomini), che sembrano parteggiare per i tedeschi, e delle 9.000 camicie nere il cui comportamento è imprevedibile.
Mussolini peraltro, nutriva – ricambiato – grande stima per Basso, al quale, poco prima della sua destituzione, aveva inviato la seguente lettera (con l’intestazione: il Duce del Fascismo – Capo del Governo): “Caro Basso, Mi rendo conto che le vicende della lotta in Sicilia non possono avere sfavorevoli ripercussioni per le popolazioni e le truppe della Sardegna. Conto su di voi perché eventuali stati d’animo negativi siano superati dall’azione vostra di Comandante e dalla coscienza del dovere a parte di tutti, ufficiali e soldati. Ognuno sappia che la Sardegna è un bastione della Patria! Mussolini – Roma 23 luglio 1943 XXI”.
Il generale Basso non attaccò le truppe tedesche perché queste non intendevano intraprendere azioni di guerra, ma ritirarsi ordinatamente in Corsica, sono le parole dello stesso generale, il quale comunque comunicò allo Stato Maggiore le sue decisioni, senza peraltro ottenere risposta. La ritirata dei tedeschi si conclude il 16 settembre a Santa Teresa, da dove, con un intensissimo e ben coordinato movimento di motozattere e trasporti militari, riescono a trasbordare in Corsica i loro contingenti con tutta la dotazione di armamenti e automezzi, nonché i paracadutisti italiani che avevano abbracciato la causa della Germania e del Duce, appena liberato da Campo Imperatore. Ma il loro passaggio da un capo all’altro dell’isola non è del tutto indisturbato. Un primo incidente si era verificato a ponte Mannu, sul Tirso, tra una compagnia germanica e gli uomini del 132° fanteria. Si sparò dall’una e dall’altra parte e ci furono morti e feriti.
Il secondo scontro si ebbe a Macomer tra il seguito del colonnello Alberto Bechi Luserna e i paracadutisti della divisione “Nembo”, che si erano appena uniti ai tedeschi.
Ma una vera e propria battaglia fu combattuta alla Maddalena dal 9 al 15 settembre. Il 9 settembre alle ore 12 e 50, circa 400 tedeschi – secondo la stima della Tenenza dei Carabinieri (relazione segreta del 15 novembre ndr) – rompono l’accordo, che l’ammiraglio Brivonesi aveva accettato con estrema ingenuità, tra l’altro non predisponendo adeguate misure di difesa in caso di attacco, cogliendo quindi di sorpresa i comandi italiani alla Maddalena. Una sessantina di soldati invadono il Circolo Ufficiali e il Comando Marina, sequestrando gli ammiragli Brivonesi e Bona con tutto lo stato maggiore, gli altri s’impossessano, altrettanto rapidamente, della centrale telefonica, della sede protetta e di altri centri nevralgici, disarmando i nostri militari.
Il generale Basso non può intervenire perché al momento dispone di soli 3.000 uomini contro l’intera divisione tedesca, potentemente armata e difesa a contingenti corazzati e artiglierie pesanti, trovandosi il grosso delle sue forze in altre zone a tre o quattro giornate di marcia. Una sua incauta reazione non farebbe che aggravare la situazione, che del resto, dopo i primi scontri, accenna a ristabilirsi per intesa delle due parti, l’ammiraglio Brivonesi e il comandante Unes.
I due ammiragli e gli ufficiali sono trattati con estrema cortesia: è evidente che i tedeschi intendono soltanto assicurare, contro ogni eventuale reazione (erano venuti a conoscere il contenuto della Memoria 44), il passaggio indenne e sicuro di tutti i loro uomini in Corsica. Chiedono il controllo delle batterie costiere, che però vien negato. L’ammiraglio Brivonesi si comporta ambiguamente: sa che l’isola ha una guarnigione di circa 10.000 unità, dislocate nelle caserme e nei numerosi forti, e sarebbe un gioco disfarsi dei tedeschi. Ma egli impone la calma e il divieto di reagire. Gli alti ufficiali si conformano.
Il fine dell’attacco tedesco, dunque, era quello di impossessarsi delle batterie costiere per proteggere l’imbarco e il transito dell’esercito verso la Corsica. Il comando tedesco aveva richiesto al generale Basso, tramite il Comando Marina della Maddalena, di poter mandare alcuni militari presso ciascuna batteria costiera dello stretto di Bonifacio, come interpreti per una migliore intesa delle operazioni di evacuazione. Al rifiuto del generale, tentarono il colpo di mano, che in verità era inatteso. La tensione è forte e tende ad esplodere. Alcune sparatorie avvengono tra piccoli reparti sparsi nella via Principe Amedeo, con qualche vittima anche tra i civili; poi gli scontri si spostano in altri punti della città. La mattina del 13 i tedeschi tentano di impadronirsi di una nostra motozattera, ma ne sono impediti dai tiri delle batterie; rispondono al fuoco i tedeschi dalla costa di Palau. Il combattimento s’infiamma dinanzi alla caserma del Gruppo Centro, protetta dalle artiglierie del Forte Camiciotto, e nelle vie del paese, ove gruppi di tedeschi si appostano nelle case private. Ma ormai il contrattacco italiano diventa irresistibile. Molti sono i caduti: 8 tedeschi e una ventina gl’italiani e numerosi i feriti. Cade eroicamente lo stesso comandante della caserma, capitano di vascello Carlo Avegno, al quale poi verrà conferita, alla memoria, la medaglia d’oro al valor militare. Il bilancio degli scontri registra le seguenti perdite: da parte tedesca, 10 morti, altrettanti feriti e 59 prigionieri; da parte italiana 24 morti e 60 feriti. Alle 15:30 i tedeschi chiedono la tregua, che viene concordata insieme con il rilascio dei prigionieri: pochi gl’italiani, ben 350 i tedeschi.
Alle 17:30 l’ammiraglio impartisce l’ordine per la cessazione delle ostilità. Il 16 settembre gli ultimi reparti germanici lasciano l’isola e la situazione torna alla normalità. Il 22 settembre il generale Basso, in visita alla Maddalena, e si complimenta per il felice esito degli avvenimenti. Ma il merito – le relazioni ufficiali non lo dicono – non è dei comandi, cui anzi vanno imputate indecisione e ambiguità, se non doppiezza, ma ai singoli, i quali si mossero spontaneamente e con slancio per il senso dell’onore e della dignità, non smarrito nella generale confusione del momento. La strada dell’onore e della dignità quella gente, ha detto il generale Dettori, “l’ha seguita col sangue e a me ha insegnato che in faccia alla morte la più grande soddisfazione era di essere con loro, uno di loro”.

Parzialmente tratto dal settimanale maddalenino Il Vento del 2011 a da una serie di articoli dello scrittore Renzo de Martino