La Maddalena AnticaStorie e ricordi di granito

La lavorazione del granito

Come avveniva la lavorazione della pietra granitica? Per dare una risposta la più possibile esauriente, ancora una volta faremo ricorso anche alle informazioni contenute nella pubblicazione di Italia Nostra e alla collaborazione, sempre preziosa di Francesco Nardini.
E’ ovvio dedurre, anche per il profano, che l’azione su un elemento tanto duro e compatto sia difficile e particolarmente impegnativa, senza contare il fatto che anch’esso, a somiglianza di tutte le altre sostanze pietrose, e costituito da elementi diversi e quindi di diversa resistenza e fragilità.
Chi lavora quindi si affida alla lunga esperienza pratica difficilmente catalogabile, che risente in particolare della sensibilità (il termine potrebbe essere anche professionalità) dell’operatore e nella capacità del suo occhio di vedere l’interezza della pietra e la possibilità di trasformarla. I vecchi maddalenini ricordano che alcuni cavatori erano in grado di distinguere non solo la qualità della pietra e l’eventuale filo del taglio, ma anche l’azione ai cunei per lo sfaldamento e la seguente trasformazione in lastre.
A questo proposito vorrei ricordare quanto mi ha riferito Paolo Balata vecchio e abilissimo scalpellino di Calangianus. Diceva; “Mi bastava passeggiare sulla pietra, battere i piedi sulla parte emergente per rendermi conto se quel tornate poteva essere cavato e se aveva o meno difetti, In sessant’anni che ho praticato questo mestiere non mi sono sbagliato una sola volta”. Una “sensibilità” particolare quella del Balata che veniva sicuramente anche da un lungo apprendistato che lo ha portato fin da bambino ad interessarsi della pietra.
Quelli, per dirla in maddalenino che “gh’aviani l’occhju”, ovviamente erano i più considerati durante le lavorazioni e quelli che venivano meglio remunerati e cui veniva affidato,di quando in quando, anche qualche escavo a cottimo o da gestire in proprio con particolari contratti.
L’arte del cavatore era, più di quella del rifinitore, si intravedeva già al momento della scelta del filone roccioso da cui doveva ottenersi il distacco del masso che sarebbe poi passato sotto le cure degli scalpellini.
Il verso della massa su cui poter operare veniva chiamato pioda, fenditura in cui venivano praticati i primi fori con punte e mazzuolo da mina.
Generalmente questi pezzi, che potevano essere lunghi pochi centimetri o anche più metri, venivano denominati intestini perché scendevano nella profondità della fessura aprendo il varco a ferri sempre più lunghi.
Ogni operazione e ogni arnese necessario hanno avuto un nome, una serie di precise distinzioni che spesso sfuggono a chi non è addetto ai lavori ed assumono a volte particolari lemmi non rintracciabili nei vocabolari comuni.
Cosi, ricorda Francesco Nardini, il riempire i buchi praticati nella pioda con polvere nera e terra argillosa (terra caccavina) veniva identificato con il sostantivo borraggiu e l’azione praticata con un asta lignea detta u burroni.
Per allargare la fenditura occorreva procedere per gradi evitando che la lastra potesse spaccarsi, perché, una delle caratteristiche del granito, oltre la durezza è la sua accentuata fragilità.
Succedeva spesso che dopo la prima serie di mine il lastrone si staccasse agevolmente dalla parete, veniva quindi imbarcato, puntellato e, attraverso una serie di carrucole e contrappesi, depositato sul letto della cava. A quel punto entravano in funzione gli scalpellini, coloro cioè che avevano il compito di operare in fino, con mazzuola o scalpello sulle pareti grezze del masso sino a ridurlo alla superficie della lisciatura richiesta.
Sono rimasti famosi a La Maddalena, per la loro sensibilità artistica e il tocco agevole e preciso, alcuni scalpellini i cui nomi sono ancora evocati qualora si voglia esprimere la compiutezza di un lavoro eseguito a vera regola d’arte.
Da ricordare sono, in particolare, un certo Merlo (di cui si ignora il nome) ed Antonio Margutti detto Tugnì. Non erano maddalenini ma vi vissero un’intera vita, lavorando e insegnando ai più giovani (e a quei tempi la fila degli allievi era lunga) il difficile mestiere che richiedeva abilità, colpo d’occhio, resistenza alla fatica, precisione e tutta una serie di conoscenze pratiche che si acquisivano dopo un lungo e intenso apprendistato.
Meritevole di menzione sono i nomi che dagli scalpellini di Cava Francese venivano dati agli attrezzi a seconda del loro impiego per operare la rifinitura delle lastre. Il primo compito era la capezzatura al fine di eliminare la parte superiore e grossolana, la “buccia“ della pietra. Per far ciò si faceva ricorso a due scalpelli; il “picciacantù e il mazzolu grossu”. Nella seconda fase si passava al testù munito di manico di legno. più grosso dei precedenti ma con lama più fine, o anche u buzzettu che veniva appoggiato nel punto da capezzare mentre un altro operaio vi batte sopra con la mazza. Una volta operata questa operazione si procedeva a tracciare con un pezzo di carbone la sagoma da realizzare e si evidenziavano i limiti con un piccolo taglio effettuato con un attrezzo detto u scarzettu, quindi tramite righe e squadre si livellava la superficie rendendola perfettamente piana. Tale operazione era nota come traguardamento “u intraguardà” nella parlata maddalenina.
L’operazione più delicata, affidata ai piu esperti, era la levigatura del piano o l’escavo delle parti concave, ma anche la realizzazione di canalette o l‘esecuzione degli spigoli richiedevano notevole abilità. Questa operazione era chiamata “agugiatura” un vocabolo che discende dal ligure agugia che sta per ago a simboleggiare quanto minuziosa doveva essere la cura e quanto delicate le punte destinate all’opera. E l’abilità delle scalpellino consisteva nell’evitare colpi maldestri che avrebbero potuto compromettere definitivamente l’esito del lavoro. Alcuni scalpellini ricordano che per rifinire a media grana una lastra di un metro quadrato occorrevano non meno di 25 punte per il grosso, ed almeno il triplo per completare il fine. In questa fase era di grande utilità anche l’abilità del forgiatore che doveva rifare la punta ai ferri che subivano un notevole e rapido consumo. Il forgiatore (nei piccoli paesi questo lavoro veniva svolto dal fabbro) tagliava le verghe d’acciaio in barre con precisi colpi di trancia e le dimensionava secondo le necessità. Se era bravo sapeva intendere la giusta temperatura della punta dalla vivacità dell’acciaio incandescente e sapeva a orecchio, cioè sentendone lo sfrigolio entro la vasca di tempra composta di acqua ed olio, quando il ferro risultava il massimo della temperatura.
L’ultima e definitiva lavorazione della lastra era la bocciardatura con la “buciarda” mazza con la sezione squadrata con all’estremità un numero variabile di punte a secondo la precisione che si vuole ottenere (da 25 per il grezzo fino a 81 punte per il lavoro più fino). Le prime bocciarde così fatte erano poco pratiche perché, consumandosi le punte con una certa frequenza, dovevano essere continuamente mandate in forgia per essere forgiate e ritemprate, furono quindi sostituite con le bocciarde a placche, nelle quali la parte finale mobile, a placchetta munita di punte poteva essere raccordata con facilità al corpo dell’attrezzo.
Dopo la bocciardatura, per eliminare tutte le più piccole sporgenze, si opera la martellinatura con una placchetta, a martellina, simile a quella della bocciarda e applicabile con lo stesso sistema, ma fatta con più punte, ma a lunghe affilate lamelle parallele; la martellina si batte nei due sensi.
A questo punto il piano si presenta molto regolare e solo passandovi la mano si sentono ancora le piccole granulosità che possono essere eliminate con la levigatura; delle piastre d’acciaio unite insieme con grossi pesi sovrastanti formano un attrezzo rettangolare di 35 x 30 cm. impugnabile per un lungo manico di legno che viene passato regolarmente sulla piastra sulla quale sono state in precedenza disposte palline d’acciaio e sabbia bagnata.
Il pesante attrezzo scorre sulla superficie levigandola e a questo punto non resta da fare che la lucidatura, pietre granulose, i smerigli diversa consistenza, vengono passate a mano fino all’ultima a grana più fine, a sapunetta.
Gli scalpellini venivano generalmente pagati a cottimo. Quelli di Cava Francese producevano soprattutto i richiestissimi tacchi per pavimentazione stradale, normalmente lunghi un metro, larghi 40 centimetri e profondi 20, che venivano messi in opera, nelle vie più trafficate dei centri urbani, per file parallele o a spina di pesce. Altri lavori molto richiesti erano i pezzi per i banchinamenti, bagnasciuga, bozze, bolognini, coronamenti, bitte, nicchie, mole per macine di diverse dimensioni (lino a tre metri di diametro), vasche per usi industriali. Ma anche colonne (quella di Garibaldi a La Maddalena), monumenti (anche funerari). stipiti ornamentali, architravi, scale, bordure di marciapiede, entrate di portone con spigoli arrotondati, panchine, mensole di poggiolo (il centro storico di Tempio ne era pieno).