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La partecipazione di Tarantini alla Spedizione dei Mille

La presenza di Angelo Tarantini, nelle settimane dei preparativi che precedettero la partenza della Spedizione dei Mille, avvenuta presso Quarto nella notte fra il 5 ed il 6 maggio 1860, potrebbe essere inserita nel quadro più ampio di una partecipazione alle guerre risorgimentali, verso le quali, già dall’anno precedente, Tarantini avrebbe dato prova di adesione.
Oltre a quanto esposto, vi è anche un altro aspetto, di tipo parentale, che merita considerazione: la presenza in Genova di alcuni cugini, in particolare del suo omonimo Angelo, figlio di Salvatore, di mestiere marinajo/barcarolo, che risulta presente nel capoluogo ligure a partire dal 1836. Per gli altri cugini, come già detto sopra, i dati mostrano una presenza accertata a Genova nel 1856, e le professioni di barcarolo per Tommaso fratello del precedente, quindi di fabbro ferrajo fuochista per Raimondo, figlio di Salvatore; infine un quarto cugino, Salvatore, figlio di Antonio, arruolatosi, nella Regia Marina Italiana, che partecipò alla campagna del 1866 con la qualifica di nocchiere di 2a classe. Un quadro familiare quindi che offre un consistente appiglio a sostegno della presenza della nostra futura camicia rossa nell’area genovese in quel periodo.
Comunque ciò che appare sostanziale è il fatto che, all’età di ventiquattro anni, Angelo Tarantini si unì, unico maddalenino insieme ad altri due sardi, Efisio Gramignano di Cagliari e Francesco Grandi di Tempio, ai 1089 che accompagnarono il Generale Garibaldi nella nota impresa contro il Regno Borbonico.
In realtà i sardi imbarcatisi a Quarto il 5 maggio furono quattro: fra di essi vi era anche il giornalista e fervente repubblicano Vincenzo Brusco Onnis di Cagliari, che scese a terra con altri sei commilitoni durante il rifornimento a Talamone, quasi offeso dal grido di guerra monarchico Italia e Vittorio Emanuele scelto da Garibaldi per la spedizione. Brusco Onnis era nato a Cagliari il 13 dicembre 1822 da una prestigiosa famiglia (il padre era Giudice della Reale Udienza), fu collaboratore di giornali repubblicani e mazziniani, in particolare de l’Unità Italiana di Milano, di cui fu direttore, e de Il Dovere di Genova. Su di lui pesa il coevo giudizio negativo, di codardia e di demagogia, espresso dal noto politico parlamentare e convinto repubblicano sardo Giorgio Asproni.
Al riguardo, sui volontari isolani accorsi, è da menzionare la presenza di un altro maddalenino: Pompeo Susini, figlio di Pietro, il curatore degli affari di Garibaldi alla Maddalena, appartenente ad una famiglia, come si è visto, storicamente legata a Garibaldi ed alle vicende garibaldine e quindi più vicina alle notizie ed ai fatti che andavano sviluppandosi in quel momento; egli raggiunse Garibaldi verso la metà di luglio con la quarta ed ultima delle spedizioni inviate in Sicilia in soccorso dei Mille già operanti, imbarcandosi sulla nave Torino con la Brigata comandata dal pavese Gaetano Sacchi.
Circa la presenza di altri maddalenini partecipanti agli eventi di quei giorni, merita un cenno la figura dell’allora capitano di vascello della Marina Giovanni Battista Albini; egli, in qualità di Comandante della pirofregata Vittorio Emanuele, inquadrata nella divisione navale agli ordini del Contrammiraglio Persano, dovette assolvere con le altre unità navali al compito impartito dal Cavour, cioè quello di controllare i movimenti delle due navi garibaldine, il Piemonte ed il Lombardo, affinché queste, qualora costrette ad approdare nei due porti sardi di La Maddalena o di Cagliari, per motivi vari fra cui il necessario approvvigionamento del carbone, potessero essere prontamente fermate e ricondotte a Genova. Il motivo appare chiaro: il presidente del consiglio era preoccupato che il governo sardo venisse accusato dalle potenze europee di complicità con l’avventura garibaldina, senza considerare il rischio di una possibile dichiarazione di guerra da parte del Regno delle due Sicilie.
In realtà, i propositi di Garibaldi erano ben diversi e come noto la spedizione effettuò fra il 7 ed il 9 maggio la dovuta sosta a Talamone e a Porto Santo Stefano, in Toscana, per l’indispensabile rifornimento di viveri, armi, munizioni e carbone; Cavour, avutane notizia, intimava solo la sera del 10 maggio al capitano Albini, in attesa d’ordini nel porto di Cagliari, il relativo intervento di sorveglianza sulle coste toscane; ormai era troppo tardi e mentre il Contrammiraglio Persano presidiava il porto di La Maddalena con le pirofregate Maria Adelaide e Carlo Alberto e contemporaneamente il capitano maddalenino Albini dirigeva con la propria nave verso Porto Santo Stefano, nella notte fra il 10 e l’11 maggio i due legni garibaldini filavano tranquilli verso la Sicilia.
Ma riprendiamo il filo della storia e concentriamoci nuovamente sul nostro protagonista.
Dopo lo sbarco avvenuto a Marsala l’11 maggio 1860, è certo che Angelo Tarantini sia entrato a far parte del servizio sanitario dei Mille, ruolo probabilmente assegnatogli nel momento in cui il corpo iniziò ad operare in terraferma, in un servizio organizzatosi fin dall’inizio della spedizione grazie alle energie dell’inesauribile Jessie White Mario e di Agostino Bertani, il quale ricoprì l’incarico di Commissario di guerra; nello specifico, Tarantini venne inquadrato nell’Ambulanza Generale per l’esercito di Sicilia, sotto la direzione del tenente colonnello Pietro Ripari,14 capo del Corpo Sanitario al seguito dei Mille.
A riguardo viene spontaneo collegare tale ruolo con l’attenzione che Garibaldi potrebbe aver avuto verso un ragazzo, che proveniva, unico rappresentante in quel frangente, da un isola così legata alla vita del generale, un giovane appartenente poi ad una famiglia che lo vedeva unico sostegno di una madre vedova., come non mettere in relazione il tutto quindi al citato episodio del salvataggio di un piccolo Tarantini compiuto nel 1849 da Garibaldi, durante la sua breve sosta alla Maddalena prima del suo secondo esilio. Le circostanze sono eloquenti per avvalorare la tesi di un personale affetto di Garibaldi per un ventiquattrenne patriota che aveva deciso di porre la propria vita al servizio di una causa così importante.
Ritornando al volgere degli avvenimenti, il battesimo del fuoco sopraggiunse quanto prima e la testimonianza si palesa con la Medaglia d’argento al valor militare che Tarantini ottenne nel corso della spedizione; infatti, il 15 maggio 1860, nel corso dello storico scontro di Calatafimi, Tarantini compì un atto di eroismo, sul quale purtroppo non è possibile essere precisi; una nota proviene dal racconto del riferito Carlo Andrea Pacini, ove nel resoconto dello scontro, citando i compagni morti e quelli feriti, riporta testualmente che «il Gramignano e il Tarantini sono illesi».
La documentazione cartacea fornita dal Ministero della Difesa certifica infatti che «l’Uffiziale di Amministrazione (Ambulanza Generale), “Angelo Tarentini” del Corpo dei Volontari Italia Meridionale, ha avuto la concessione della Medaglia d’argento per essersi distinto nel combattimento di Calatafimi il 15 maggio 1860»; il tutto fu trasmesso o certificato all’interessato il 18 aprile 1862.
Questa attestazione di valore ci fornisce un’immagine più completa della sua figura, che seppur circoscritta in un corpo ausiliario e di supporto quale era il Servizio Ambulanza, dimostrò nei momenti decisivi e risolutivi quale fu l’episodio di Calatafimi, un grande senso del dovere e del sacrificio personale, distintivo dei Mille di Marsala, un gruppo di uomini veramente eccezionale per i quali giustamente Garibaldi andò sempre fiero; anche lo scrittore Giuseppe Cesare Abba, garibaldino dei Mille, nelle sue memorie, parlando del corpo sanitario raccontava «… e del resto se ne trovavano sparsi in tutte le compagnie, combattenti dei migliori e da combattenti infermieri. A Calatafimi ne furono visti tra un assalto e l’altro deporre il fucile, trar fuori ferri e bende, curare qualche ferito; ripigliar su l’arma, e andar a farsi ferire ». Tale fatto, infine, attenua l’idea che Tarantini abbia svolto un ruolo di ripiego lontano dagli scontri, considerazione che la sua presenza nel servizio ambulanze poteva motivare.
Calatafimi fu la giornata degli eroismi; a tal riguardo, merita la citazione l’epico episodio finale con il cozzo intorno al vessillo tricolore; « Menotti si lanciò su, verso la nuova banchina, con l’Elia e con lo Schiaffino. Lo Schiaffino a sua volta tolse di mano la bandiera a Menotti che continuava a incoraggiare i suoi: accadde allora il terribile cozzo, a corpo a corpo, intorno al vessillo difeso dai tre moschettieri novelli. Due cacciatori (borbonici) lo toccarono, lo strapparono in parte, ma lo Schiaffino lo salvò ancora, finché – ferito al braccio Menotti, ruzzolato giù l’Elia (che, appena in piedi, giungeva in tempo a coprir Garibaldi del suo corpo e a ricadere colpito), ucciso lo Schiaffino – la bandiera pericolò, sparì, lasciando uno dei nastri nelle mani di Giovanni Maria Damiani delle Guide: gruppo michelangiolesco lui e il suo cavallo impennati, su quel viluppo di nemici e di nostri »; in questa memorabile giornata, ognuna delle nove compagnie costituenti il piccolo esercito garibaldino, in cui il solo Corpo dei Carabinieri genovesi era equipaggiato con buoni fucili, mostrò come la volontà di una compagine formata comunque di borghesi, tanti vestiti ancora in abiti civili nel modo più vario e pittoresco, potesse avere ragione di un esercito organizzato, inquadrato e sempre, nei vari combattimenti che si svolsero, superiore in uomini ed artiglieria.
L’esito dello scontro di Calatafimi fu fondamentale sotto l’aspetto morale, riferito sia ai Mille che alle popolazioni siciliane, che da quel momento in poi aderirono senza tentennamenti, come possiamo rilevare dalle parole di Garibaldi: « In ogni parte, poi, si formarono squadre, si riunirono a noi e l’entusiasmo in tutti i paesi circonvicini giunse veramente al colmo. Il nemico, sbandato, non si fermò sino a Palermo, ove portò lo sgomento nei Borbonici, e la fiducia nei patrioti […] Ho già veduto alcune pugne, forse più accanite, e più disperate; ma in nessuna ho veduto militi più brillanti dei miei borghesi filibustieri di Calatafimi ».
Sullo scontro di Calatafimi è interessante la testimonianza dell’altro sardo, il tempiese Francesco Grandi, luogotenente dei Mille, che descrivendo le fasi della battaglia che all’inizio pareva mettersi male per i volontari garibaldini, scrisse nel suo diario, «[i garibaldini] si meravigliarono, non credendo ai loro occhi e orecchie, quando si accorsero che il segnale di abbandonare la contesa non era lanciato dalla loro tromba ma da quella borbonica »; in effetti dopo i primi momenti di esitazione, giacché i borbonici, schierati su un altura, godevano di una posizione di vantaggio rispetto ai volontari che sottostanti il pendio dovevano risalire ben sette terrazze o banchine, i patrioti, a prezzo di gravi perdite, montarono una per una le terrazze del pendio sino alla vittoria finale. Celebre fu lo scambio di parole fra Garibaldi e Nino Bixio al quale il Generale, vista l’iniziale titubanza di questi circa l’esito dello scontro, esclamò « Bixio, qui si fa l’Italia o si muore! ».
Sulla figura di Francesco Grandi vi è da precisare che egli era figlio di un esule politico milanese, il cui vero nome, Tobia Azienti, era stato modificato dallo stesso in Luigi Grandi per poter evitare l’arresto da parte della polizia austriaca riparando verso il 1830 in Genova; dopo la parentesi sarda protrattasi sin verso il 1845, emigrò in seguito in Sud America ove prese parte, insieme ai tanti esuli italiani che ivi approdarono, alla guerra per l’indipendenza della Repubblica del Rio Grande del Sud, provincia dell’allora Impero Brasiliano.
In tali frangenti, ma probabilmente ancor più nelle file della Legione italiana costituita nel 1844 in Montevideo, sotto il comando di Giuseppe Garibaldi, egli ebbe l’occasione di conoscere il grande italiano e di combattervi insieme; da quel momento il destino della famiglia Grandi si legò alla storia di Garibaldi e del movimento garibaldino; come Angelo Tarantini, anche Francesco Grandi ottenne una Medaglia d’argento al valor militare; essa venne ottenuta per il comportamento tenuto nel combattimento di Reggio Calabria, fra il 20 ed il 22 agosto 1860.
Tornando a Tarantini, invece, la sua presenza nella spedizione viene attestata da pochi altri documenti che si trovano presso l’Archivio del Museo Centrale del Risorgimento di Roma; esattamente in ordine cronologico si hanno:
a) un buono, su carta di Palermo, « per il tenente di ambulanza Angelo Tarantini », relativo al ritiro di un paio di pantaloni e un paio di scarpe.
b) una copia conforme dell’ordinanza n. 995, datata Messina 27 agosto 1860, a firma del Comandante della Piazza di Messina, il quale invita il Commissario di Guerra Agostino Bertani ad attenersi al dispaccio n. 537 in pari data del Comandante militare della Provincia, al fine di prevenire l’abuso di gradi militari da parte degli ufficiali; detta ordinanza riporta nel retro della stessa l’elenco completo degli ufficiali ed anche dei sottufficiali, nel nostro caso quelli facenti parte del Corpo Ambulanza, invitati a dichiarare il proprio grado e la qualifica, apponendovi la firma: nell’elenco figura Angelo Tarantini, che riporta solo il suo nome senza specificare il grado.
c) Un rapporto, datato Napoli 21 settembre 1860, firmato dal Luogotenente Tarantini per il Commissario, al fine di segnalare quattro infermieri allontanatisi dal Corpo.
Tralasciando il primo documento, un buono vestiario che qualifica il presunto grado di Tarantini e conferma che molti volontari, come noto, partirono da Quarto senza divise e con indosso solo abiti borghesi, il secondo documento, su carta intestata Ambulanza Generale per l’Esercito in Sicilia, non attesta il grado di Angelo Tarantini; a tale riguardo va sottolineato che la comunicazione, firmata dal Commissario di Guerra Bertani e posta nel retro dell’ordinanza, scoraggiava eventuali mentitori a dichiararsi in modo arbitrario; infatti gli ufficiali e i sottufficiali erano obbligati il giorno successivo ad esibire le lettere dei gradi, ovvero gli ordini del Comando Superiore, che li autorizzavano a fregiarsene.
Il terzo documento, sempre su carta intestata Ambulanza Generale per l’Esercito in Sicilia, inviato al Commissario di Guerra, finalmente testimonia il grado di Tarantini che si firma Luogotenente; esso, oltre a confermare la presenza di Tarantini nel Servizio Ambulanze sino al termine della spedizione, dimostra anche che il suo incarico si era allargato ad una sfera contabile: egli, infatti, richiama l’attenzione circa un’assenza di corresponsione della paga per i quattro garibaldini citati nel rapporto, passibili di diserzione. Questa relazione infine ha una certa importanza per uno dei nomi citati, quello del garibaldino Antonio Lombardo. Come precedentemente raccontato, Angelo Tarantini si sposò a Thiesi tramite una procura intestata proprio ad un tale Antonio Lombardi; ora, al di là del possibile errore di scrittura (Lombardo/Lombardi), al di là dei motivi che spinsero Tarantini a farsi rappresentare nella procura proprio dal Lombardi e non da altri, è probabile che durante tutta la spedizione, durata alla fine ben sei mesi, Tarantini possa aver instaurato, specie con altri appartenenti al Corpo dell’Ambulanza Generale, legami personali e di amicizia che poi siano continuati una volta terminata la campagna meridionale.
Antonio Lombardi, figlio del medico Francesco Lombardi, fu sicuramente strettamente legato al nostro garibaldino; originario di Bono, paese relativamente vicino a Thiesi, potrebbe aver fatto parte di quel movimento patriottico nell’area del sassarese, verso cui, come già detto, si era rivolta l’attività di Tarantini. Il nome di Antonio Lombardi è presente fra i combattenti nelle Guerre d’Indipendenza, ed esattamente nella campagna del 1849 dove, nel Corpo dei Cacciatori delle Guide, prese parte alle fasi belliche che videro il 23 marzo, negli scontri di Mortara prima e di Novara poi, l’esercito piemontese ripiegare di fronte alle truppe austriache comandate dal generale Radetzky. Un ideale quindi, quello del Lombardi, che si radicava nelle prime campagne risorgimentali. Egli, oltre ad essere stato l’intestatario della procura notarile che lo vide rappresentante nel matrimonio di Tarantini, procura redatta alla Maddalena e per la quale Lombardi non risulta presente al momento della redazione dell’atto, fu in seguito scelto dal nostro quale padrino del primo figlio maschio Francesco, nato a Thiesi nel 1865; è del tutto pleonastico sottolineare quanta importanza abbia, specie nella cultura sarda, la scelta del padrino, ancor più quando il battesimo è riferito al primo figlio maschio.
Circa i battesimi è degno di attenzione sottolineare come, nel ricordo degli eredi Tarantini, affiori quale dato di fatto che Garibaldi, o qualcuno della sua famiglia, abbia battezzato alcuni fra i primi nati dalla coppia Tarantini – Fadda; tale reminiscenza, non trovando un riscontro presso i registri parrocchiali di Thiesi, dove non compaiono mai né il nome del Generale né quello dei suoi familiari, potrebbe, forse, spiegarsi con il suddetto battesimo.
Un Antonio Lombardi figura, poi, in un documento del 1866, consistente in un elenco, datato Firenze 22 giugno, scritto su carta intestata “Commissione per la formazione del Corpo Volontari Italiani”, nel quale un tale capitano Maghelli inviava al colonnello medico Pietro Ripari, indicato come Medico Capo del Corpo Volontari Italiani, i nominativi di alcuni medici e chirurghi presentatisi all’apposita commissione per prestare come volontari la loro opera nel Servizio sanitario al seguito dell’Ambulanza principale; il primo nome che compare nella lista è proprio quello di Antonio Lombardi, medico.
Tornando al protagonista di questa ricostruzione storica, circa la partecipazione di Angelo Tarantini all’impresa dei Mille, si possono rimarcare ancora due dati: intanto egli prese parte alla spedizione sino al suo epilogo, ovvero la battaglia del Volturno del 1° ottobre 1860, decisiva per le sorti della campagna meridionale; la notizia risulta anche da un articolo del 1895 pubblicato dal quotidiano La Nuova Sardegna; inoltre il titolo di luogotenente sopra citato, farebbe pensare ad un innalzamento di grado da mettere probabilmente in relazione con l’atto di valore compiuto a Calatafimi.
Concludendo questa breve storia della Spedizione dei Mille, incentrata su Angelo Tarantini, è giusto accennare, seppur sommariamente, ad un altro garibaldino dei Mille che visse per alcuni anni a La Maddalena, dove poi morì. Si chiamava Andrea Traverso ed era nato a Genova il 15 febbraio 1819, figlio di Angelo e Maddalena Andriotti; il padre, nato nel 1784 in località Coronata, ex Comune di Cornigliano Ligure in seguito unito a Genova, di professione era guardia dei forzati, mentre la madre, nata nel 1897 a Genova, era cucitrice. Andrea Traverso esercitò il mestiere di sarto, probabilmente aiutato dalla madre, coniugandosi prima del 1848 con una Caterina Rivara dalla quale ebbe tre figlie. Si sa che al momento della decisione di partire da Quarto con la Spedizione dei Mille, era già sposato con prole. Terminata la Spedizione, come tante altre camicie rosse non ebbe una vita facile, visto che, nell’arco di due anni, dal 1863 al 1865, cambiò quattro volte l’abitazione.
Anche Andrea Traverso fu decorato della Medaglia commemorativa della Spedizione dei Mille in Sicilia, come scaturisce dallo specifico Regio Bollettino; in seguito non gli venne però concessa la pensione vitalizia. Di questo fatto se ne ha riscontro nell’atto di morte dove, differentemente da Angelo Tarantini, non appare la dicitura Pensionato dei Mille di Marsala.
Fu sicuramente fra il 1865 ed il 1871 che Andrea Traverso maturò la volontà di lasciare la propria terra per andare a vivere e morire vicino al suo generale; nei registri anagrafici di La Maddalena non risulta alcun nucleo familiare a suo nome, né il nome di Traverso è presente fra quei garibaldini che vissero per periodi più o meno lunghi a Caprera con Garibaldi o che lo visitarono nell’isola; della sua vita si sa che, oltre alla Spedizione dei Mille, non prese parte ad altri avvenimenti riferibili alle guerre d’indipendenza. Di ciò se ne ha riprova nel noto Fondo Ximenes (l’Archivio dei Mille, presente nel Museo del Risorgimento di Milano). Infatti, nella scheda a lui dedicata, viene indicata la sola partecipazione alla campagna meridionale del 1860; da sottolineare come in detto fondo risultino presenti altri tre garibaldini con il cognome Traverso, tutti di origine genovese, ovvero Pietro Giulio e Quirico, morti il 1° ottobre 1860 a Maddaloni durante lo scontro del Volturno, ed infine Francesco Primo, commerciante; di essi in base ad accertamenti effettuati presso l’Archivio Storico del Comune di Genova, non risulta alcuna parentela con Andrea Traverso. Andrea Traverso morì a La Maddalena, il 1° novembre 1875, presso un’abitazione, probabilmente non sua, sita in Via Cavour; aveva cinquantasei anni e di lui, a differenza di Angelo Tarantini, non si ha testimonianza nell’attuale Civico Cimitero, in quanto molte lapidi di personaggi garibaldini sepolti nel vecchio cimitero furono disperse nel trasferimento all’attuale.
In merito alla presenza di figure garibaldine nell’odierno cimitero maddalenino fu per una casualità che durante i lavori di rifacimento di una cappella privata, svoltisi nella metà dello scorso decennio, furono riportate alla luce due lapidi mortuarie celebrative riferite a due grandi garibaldini, Giovanni Battista Culiolo noto Maggior Leggero, e Luigi Gusmaroli; queste lapidi, opportunamente restaurate dall’allora amministrazione comunale, sono oggi visibili nel camposanto; un’ulteriore ricerca svolta nei registri del Civico Cimitero ha evidenziato la presenza di altri garibaldini, non maddalenini, che vennero a morire, nei primi decenni del Novecento, vicino al loro generale; i loro nomi sono Paolo Roncaglia, Giovanni Del Bianco ed Eugenio Callai. Queste presenze nell’isola testimoniano di quale venerazione fosse fatto segno Garibaldi sia in vita che dopo la sua morte.

Antonello Tedde e Gianluca Moro