Co.Ri.S.MaLa Maddalena AnticaSanta Maria Maddalena faro di fede tra Corsica e Sardegna

La prima ristrutturazione con ulteriore ampliamento

I documenti ripresero a parlare della chiesa isolana, intesa come edificio, nel 1791/92 a proposito “dell’avanzamento della fabbrica della nuova Chiesa … per essere troppo ristretta ed insufficiente a capire quella presente popolazione“, e negli stessi si ritrova la notizia che la Santa Patrona dell’isola nel frattempo era stata proclamata patrona anche del regio armamento navale. È stato già detto che in corso d’opera della prima chiesa parrocchiale alla marina si ritenne necessario ingrandire l’edificio che risultava insufficiente per la rilevante crescita demografica che stava investendo l’isola, e che in quel periodo raggiungeva ormai i 500 abitanti. Si stipulò quindi un contratto integrativo e, mantenendo il disegno originale, si determinò per economia di allungare il corpo di fabbrica. L’operazione mostrò dopo pochi anni nuovi limiti di capienza, essendo ulteriormente cresciuta la popolazione, che nei 10 anni successivi incrementò di altri 300 abitanti, per cui il bailo Carzia nel suo documento annuale con cui “ricapitolava” lo stato della Maddalena, nel 1791 rilevava 174 famiglie per 787 abitanti, confermando i dati del cavalier De Chevillard, comandante della Beata Margherita, che registrò nello stesso anno 180 famiglie per 800 anime.

Fu il successore di quest’ultimo al comando del piccolo armamento navale, Felice De Constantin, che per la prima volta, nei documenti finora reperiti, ci fa conoscere dei lavori di ulteriore ampliamento e anche di trasformazione architettonica della parrocchiale di S. Maria Maddalena. In una sua relazione dell’11 novembre 1791 al viceré si legge, tra l’altro, che al suo arrivo alla Maddalena trovò un ottimo clima umano: “dò mi assicura la riuscita del progetto sulla chiesa che è stato unanimemente adottato tale e quale lo avete proposto, con l’ampliamento di due cappelle sui lati, per correggere il difetto che ne è risultato allungando da 24 a 28 pezzi una chiesa che era già molto stretta in sé”. Nella stessa nota il comandante della mezza galera dava notizia di aver disposto per il taglio delle pietre e per procurare l’occorrente per impiantare il forno per la calce da fare in loco e, inoltre, di aver inviato una gondola a prelevare pietre di calcare alla Marmorata. “Spero di lavorare alle mura di ampliamento – terminava – e di concludere in meno di due mesi la chiesa, che gli isolani già riguardano come un monumento che ricorderà la protezione che VE. ha accordato loro“.

Purtroppo non sono state ancora rintracciate le note precedenti di corrispondenza che trattavano dell’argomento, ma ciò che è stato rinvenuto ci dice abbastanza sull’operazione di ampliamento che andava, secondo De Constantin, a correggere l’errore del 1782 dell’accrescimento longitudinale della navata. Di fatto si sa che il semplice progetto di Marciot era stato predisposto per favorire successivi ampliamenti e completamenti del manufatto elementare. Adesso l’intervento aggiungeva “due cappelle sui lati”, e in mancanza della cartografia progettuale e di altri dati di dettaglio si possono ipotizzare due diverse soluzioni architettoniche. O la costruzione di due cappelle una per ciascun lato a formare un vero e proprio transetto, determinando la classica architettura a croce latina, o la costruzione di due cappelle su ciascun lato, in allargamento della navata preesistente per tutta la sua lunghezza, secondo l’attuale conformazione. Una carta nautica del patrimonio documentario del barone Giorgio Desgeneys, attualmente conservata presso la Biblioteca civica Alliaudi di Pinerolo, e disegnata prima della edificazione della chiesa nella versione ora conosciuta, rappresenta l’edificio del culto in forma di croce latina, facendo intendere che la soluzione architettonica sia stata quella di una cappella per lato. Solo il rinvenimento di nuovi documenti, magari le stesse carte progettuali, o saggi archeologici, potranno risolvere il dubbio.

Solo una settimana dopo, perfino anticipando il giro di posta, De Constantin esaltava ancor più il suo entusiasmo sull’opera che lo coinvolgeva particolarmente, sino a procuragli qualche problema. “È con piacere -scriveva De Constantin al viceré in data 17 novembre 1791 – che ho l’onore di dire a VE. che vedo avanzare con rapidità il lavoro della chiesa. È don Mossa che lunedì ha posato la prima pietra con la soddisfazione di tutta la popolazione, e che per segnalare a VE. la riconoscenza mi hanno proposto una iscrizione che si vuole mettere al di sopra della porta e che io invio per vedere se voi la gradite”. Si riporta qui di seguito il testo sottoposto all’approvazione del viceré Balbiano, rilevato dall’allegato alla stessa nota:

D.O.M.
AUGUSTISSIMA SARDINIAE REGIS MUNIFICIENTIA
VICTORII AMEDEI III
TEMPLUM HOC EXORDIUM DUXIT
ANNO MDCCLXXVII
EADEMQ LARGITATE REGIAQ. LIBERALITATE
A FUNDAMENTIS
ERECTUM EXTRUCTUM AMPLIATUM
ZELO EXIMIAQUE PIETATE
ECC.MI D.D. FR. DON VINCENTII BALBIANI
JEROSOLIMITANAE RELIGIONIS BAILIVI
EIUSDEM REGNI PROREGIS
CURA AC DILIGENTIA
AEQUITIS FELICIS DE COSTANTINO
EX DD A CASTELNUOVO
REGIAETRIREMIS DUCIS
ANNO REPARATAE SALUTIS
MDCCLXXXXI
A.M.D.C.

Desta perplessità l’indicazione della data del 1777, che pur essendo la data cruciale della decisione di far scendere alla marina la popolazione di Collo Piano, della istituzione del bailo e del consiglio comunicativo, a proposito della chiesa ha visto nel dicembre di quell’anno soltanto la redazione di un memoriale al re, con cui i maddalenini chiedevano ” la costruzione di una chiesa nel luogo assegnatole per fabbricare le case ed incominciare il villaggio”. Anche la data del 1791 sembra oggi un po’ troppo anticipata per come sono andate le cose a proposito di quella ristrutturazione, che solo le rosee speranze di De Constantin prevedevano di concludere in pochissimo tempo, e comunque sarebbe adeguata in riferimento alla sola posa della prima pietra. “La chiesa sarà molto graziosa [per la …?…], – proseguiva quel comandante – ed io sono molto orgoglioso di me stesso vedendo che ero architetto senza saperlo. Noi abbiamo davanti alla chiesa una piazza di 150 piedi quadrati e malgrado gli ostacoli che ho incontrato in rapporto agli scogli di cui è irta, credo che avrò il piacere di vederla finita contemporaneamente alla chiesa, il cui lavoro sarà un po’ rallentato per la calce di cui ho difficoltà a procurarmene. Io ho tuttavia due gondole alle pietre, i cui patroni sono muniti di istruzioni giacché essi contemporaneamente servono la chiesa ed il re, che è il loro primo dovere, e che il primo non pregiudica l’altro”.

Il fervore era tanto che il militare si sostituì al progettista e all’impresario, facendo tutto in economia e disponendo del personale militare e dei mezzi dell’armamento. Lo zelo di De Constantin creò, però, più problemi di quanto non ne risolveva. Si produsse, infatti, un malessere diffuso tra i maddalenini non militari, impegnati a lavorare gratuitamente e a discapito delle loro attività ordinarie, accanto ai marinai delle gondole e delle mezze galere, anch’essi in gran parte maddalenini, che invece lavoravano in orario di servizio. Una tale situazione stava portando al disimpegno di entrambe le parti, a cui De Constantin tentò di mettere riparo rimotivando i suoi subalterni e facendo convocare dal bailo il consiglio comunitativo. In un primo tempo il consiglio all’unanimità deliberò il rifiuto di lavorare, ma due giorni dopo i consiglieri si recarono da De Constantin per chiedergli di non inviare la deliberazione al viceré, e misero a disposizione ben 100 scudi di donazioni per la ripresa dei lavori.

Abbiamo un documento singolare che ci dice dello stato dei lavori proprio a fine anno 1791, in un testo di tutt’altro argomento. Si tratta di una lunga memoria in cui l’ex sindaco, Paolo Martinetti, raccontò al viceré le sue vicissitudini per evitare l’arresto ordinato ai suoi danni in una situazione banale, di rifiuto di prestazioni musicali, che nascondeva una vera e propria guerra tra fazioni. Nella sua fuga finì di rifugiarsi a bordo della tartana di bandiera francese del patron Francesco Franceschi che si trovava ancorata a Cala Gavetta, “non potendosi neppure rifugiare – scriveva Martinetti – in quella chiesa per essere apperta dalle sue mura, ciò che presterebbe motivo di essere assalito dal suo nemico e partito ed indi profanarsi anche quel tempio”. Molte altre notizie sul cantiere ancora aperto ci vengono dalla corrispondenza tra il bailo Carzia e il comandante di terra Riccio, nel frattempo subentrato a Raynardi, con Cagliari e viceversa, e da queste note sappiamo che era ritornata la serenità tra la gente, per cui Riccio a metà aprile del 1792 potè informare il viceré: “che sempre si continua a travagliare a questa chiesa, e tutti questi popolatori nei giorni di festa non mancano di portare pietre ed arrena“.

Notizie sui lavori si susseguirono per tutto il 1792, e in particolare una dell’agosto appare importante per le informazioni che fornisce di un’area, quella tra Mangiavolpe e Cala Gavetta, da un decennio trasformata in un cantiere edile. I mastri muratori Origone e Porro avevano utilizzato un terreno comune per ricavarne materiale da costruzione, per cui a seguito di consistenti estrazioni si formò un’enorme buca che si riempì di acqua. Il consiglio comunitativo ordinò una recinzione di sicurezza, e da questa buca il sindaco Antonio Ornano Pinto fece prelevare l’acqua per continuare i lavori di completamento della volta e del coperto del coro della chiesa. Altra nota dell’epistolario tra il comandante De Constantin e il viceré ci fornisce l’importante informazione sulla direzione dei lavori di ampliamento, affidata a certo mastro Antonio Benza, che si trovava alla Maddalena nella non invidiabile situazione di forzato. De Constantin riteneva che senza di lui non era possibile completare i lavori che aveva avviato, e chiedeva per lui la commutazione della pena della galera in esilio nell’isola, con l’obbligo di lavorare percependo la paga dovutagli da forzato. I lavori a cui si riferiva De Constantin, e che a suo giudizio rendevano necessaria la disponibilità di Benza, erano, oltre l’ampliamento della chiesa, un mulino a vento e, appunto, la batteria che prese il nome dal viceré del momento, Balbiano.

Le tre opere erano in lavorazione contemporaneamente, e ciò fece incerto il progresso dell’ampliamento della chiesa. Quest’ultima era passata, per i costi, a totale carico degli isolani, che vi fecero fronte a partire dai 100 scudi già detti. Sul conto economico di questa fabbrica sono state consultate alcune note di contributi e di spese dal gennaio all’agosto 1792, rinvenute nell’archivio parrocchiale, che ci danno un’idea del movimento economico complessivo, ma anche di alcuni dati particolari e significativi. La nota dei contributi volontari e delle spese a tutto gennaio 1792 ha registrato oltre 100 contributi, con quote personali differenziate per quantità, e anche giornate di lavoro gratuito, come per il muratore mastro Felice. Oltre tutti i cognomi degli isolani originari si riconoscono quelli dei sopraggiunti, ma anche di donatori esterni come il cav. Di Castelberg, il comandante di un distaccamento inviato nel giugno del 1790. Ma la parte più interessante della nota è quella delle spese, che ci fa sapere che mastro Domenico Porro riprese a fornire le proprie prestazioni professionali di provetto muratore, e che alla fabbrica della chiesa erano impegnati molti forzati, sia come manovali che come mastri muratori, a cui si riferivano molte spese per “rinfresco”. Erano nella nota spese i tagliapietre Bartolomeo Duranti e certo Veneziano, il mastro falegname Giò Batta Fava, che si ritrovava anche tra i contribuenti, come tanti altri isolani fornitori di materiali sia alimentari che di attrezzi da lavoro, ferramenta e tavole, e anche soldati muratori messi a disposizione dal distaccamento. La nota concludeva con il totale delle spese di 98 scudi e pochi altri reali, soldi e denari, a fronte di entrate per 68 scudi e altrettanti pochi reali, soldi e denari, per un saldo negativo di 29 scudi e spiccioli, tutti a credito di Agostino Millelire che evidentemente aveva fatto un forte prestito.

La seconda nota delle spese è stata compilata da Antonio Millelire, e faceva i conti al maggio dello stesso anno. I dati quantitativi non paiono significativi in mancanza del complesso organico del registro di entrate e uscite. Confermano però che Agostino Millelire aveva fatto un prestito alla fabbrica e che avevano fatto altrettanto: Giò Varriani, Antonio Pinto e Pasquale Gallone, anche con cifre significative di 27 e 30 scudi. Giovanni Ventura aveva, invece, messo a disposizione dei denari dalla cassa di Santa Maria Maddalena, di cui evidentemente era responsabile. La terza nota, datata 25 agosto 1792, appare tanto ben definita da sembrare il conto conclusivo, e tale sarebbe se documenti datati posteriormente non dicessero che la fabbrica era ancora aperta. Conosciuta la cassa intestata alla santa patrona, siamo anche informati che a quell’epoca esisteva anche la compagnia di S. Erasmo, che aveva conferito un contributo di oltre 34 scudi, e che la cassa di S. Salvatore, che aveva contribuito nel 1782 all’acquisto della campana e di arredi sacri in occasione della costruzione della prima cappella alla marina, ora versava altri 13 scudi. Ben 67 scudi erano registrati, invece, conferiti dal comandante De Constantin come contribuzione degli equipaggi. La parte delle spese, oltre il solito elenco dei creditori e dei relativi materiali acquistati, informa che le note spese venivano pubblicate con appositi manifesti affissi alla porta della chiesa, perché tutti potessero verificarle, in una encomiabile prassi di trasparenza.
Gli equipaggi militari non contribuirono solo con le quote registrate in quest’ultimo resoconto, ma anche a seguito di una circostanza straordinaria, ed anche “valorosa”. Il 9 giugno 1792 le mezze galere sarde ebbero uno scontro armato con due galeotte tunisine nelle acque corse, nei pressi di Aleria. Una di esse, con 22 uomini di equipaggio, cadde preda dei nostri, mentre l’altra, inseguita a cannonate dalla S. Barbara, fu distrutta e l’equipaggio riuscì a prendere terra presso la torre di Aleria, guadagnando la montagna inseguito stavolta dalle schioppettate dei corsi. De Constantin decise subito di cedere la propria quota della preda a favore del completamento dei lavori di ampliamento della chiesa maddalenina, e chiese altrettanto agli ufficiali, bassi ufficiali e marinai, in gran parte maddalenini e comunque residenti all’isola, che aderirono prontamente. Dalla richiesta di contribuzione furono esonerati i soldati imbarcati e i forzati ai remi. Il viceré Balbiano informò la corte torinese della generosa determinazione presa dagli equipaggi, ricevendo, con data 25 luglio 1792, una nota di encomio sia per l’azione militare che per la generosità dell’offerta. Nella stessa il ministro Di Cravanzana diede altresì notizia che: “S. M. ha commendato la pia intenzione dello stesso sig. vass.lo e dell’equipaggio da lui comandato di cedere la porzione che loro spetterebbe sulla preda fattasi della suddivisata galeotta a vantaggio della chiesa che si sta attualmente ampliando nella stessa isola Maddalena, e secondando ben volentieri un sì religioso pensiero si è degnata di permettere che si convertano nello stesso uso i due quinti d’essa preda appartenenti al regio patrimonio. Prelevate perciò le spese del Tribunale e corrisposto sul prodotto quanto può toccare alla truppa ed ai forzati concorsi nell’azione, non avrà l’È. V. che a disporre del rimanente a favore della suddetta chiesa”. L’importo risultò molto rilevante e molto più consistente delle cifre sino a quel momento trattate. I 500 scudi sarebbero stati molto più che sufficienti per la conclusione dei lavori, con un fortissimo avanzo positivo, ma non pervennero in tempo per essere utili in questa circostanza. Anzi, si dispersero nelle pur magrissime regie casse cagliaritane, da dove riemersero definitivamente, ma a rate, a partire dal dicembre 1814, per essere impegnati nel radicale e profondo rifacimento della parrocchiale maddalenina.

Nell’autunno-inverno a cavallo tra il 1792 e 1793 l’attenzione fu tutta assorbita dalla preparazione della difesa dai paventati colpi di mano barbareschi e dai minacciati attacchi francesi dalla Corsica, e l’ultimo richiamo alla chiesa lo troviamo in una lettera del settembre di De Constantin al viceré. In essa si diceva che quei lavori avrebbero potuto essere conclusi in pochi mesi dal suo successore al comando dell’armamento marittimo. Col precipitare degli eventi il cambio fu posticipato, per cui De Constantin rimase alla Maddalena e al comando dell’armamento navale sino al novembre del 1793. Nonostante l’allungamento della presenza di De Constantin, della ristrutturazione della parrocchiale non si trova più traccia nei documenti consultati, per cui non conosciamo l’epoca della conclusione dei lavori, e la mancanza di qualsiasi disegno progettuale come di qualsiasi iconografia del manufatto non ci permette di conoscere la sua struttura definitiva e la soluzione architettonica adottata. In particolare non si conosce neppure il disegno della facciata, ma poiché sia per il primo edificio che per questo secondo si parla di campane si può presumere che il campanile fosse del tipo “a vela”.

Per ora, quindi, possiamo solo ipotizzare che il tentativo franco-corso di impadronirsi manu militari dell’arcipelago maddalenino avvenne con i lavori ancora in corso, e che quindi la leggenda, secondo cui una delle tante palle lanciate dal cannone di Napoleone contro l’isola sarebbe caduta inesplosa ai piedi della statua della Santa, sia probabilmente inesatta almeno nella parte in cui afferma che avrebbe sfondato il tetto che forse non era stato ancora costruito.

Salvatore Sanna – Co.Ri.S.Ma