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La prima sconfitta di Napoleone

Il piano francese e le forze contrapposte

E’ noto che verso la fine del 1792, la Francia rivoluzionaria aggredì il Regno di Sardegna, invadendo per via di terra la Savoia e occupando, con un’operazione anfibia, Nizza, Villafranca (oggi Villefranche-sur-Mer) e Oneglia, causando gravi perdite anche tra la popolazione civile e dopo la resa di questi territorî, che erano tra l’altro gli unici accessi al mare sul continente “sardo”.

La squadra che appoggiò queste ultime operazioni, comandata dal Contrammiraglio Laurent Jean François Truguet, entro il mese di dicembre, si affacciò nel Golfo di Cagliari con 5 vascelli, 6 fregate e 3 corvette, poi si spostò rapidamente verso la Costa Occidentale della Sardegna, occupando con facilità le due isole di San Pietro e Sant’Antioco e lasciandovi soldati di guarnigione e due fregate a difesa, e, nel gennaio 1793 riapparve di fronte a Cagliari congiungendosi, nel corso delle settimane successive ad una seconda squadra (altri 6 vascelli), del Contrammiraglio Louis René Latouche Tréville e ad un convoglio di 42 trasporti che recava circa 8.000 uomini armati. Questa forza mista ancorò per settimane in vista della Capitale viceregia, fu rinforzata sino a totalizzare 27 navi e circa 1.000 pezzi di bordo.

In quei mesi, la Marina del Regno di Sardegna, che aveva conosciuto nel 1762 una sensibile modernizzazione, passando dalle galere a remi come unità principali alle navi d’alto bordo e adottando, una ventina d’anni dopo, per le necessità di difesa costiera delle veloci ed agili mezzegalere varate nei cantieri delle Due Sicilie, si era ridotta ad una sola fregata, la San Vittorio che ora vagava nell’Alto Tirreno per non farsi predare, e al cosiddetto “Armamento leggiero” in altre parole le unità sottili che guarnivano l’Arcipelago de La Maddalena: 2 mezzegalere, 3 galeotte ed alcune gondole (imbarcazioni tipiche delle Bocche di Bonifacio, praticamente identiche al “leudo” ligure). Nel porto di Cagliari non era presente una sola nave da guerra propriamente definibile, ma solo alcune imbarcazioni armate per servizî di dogana e di sanità, e ben presto furono armate come corsare almeno 4 unità private, munite di pochi pezzi di piccolo calibro, che durante il blocco avrebbero ottenuto qualche successo. Ma niente di più.

Cagliari sarebbe stata bombardata il 27 gennaio, da 5 navi di linea e da 3 bombarde ed il 28 da 7 tra vascelli e fregate e da 3 bombarde, in verità con poca efficacia: un energico fuoco di batterie costiere tenne lontane le navi col tricolore e solo il 28 qualche colpo arrivò sino al Castello della città. L’investimento fu invece tentato il 14 febbraio. Fregate e bombarde prepararono la zona dello sbarco, la spiaggia del Golfo di Quartu, un villaggio non fortificato in vista di Cagliari, che ha intorno altri centri abitati, terreni, frutteti e preziose saline. Qualche migliaio di uomini scesero a terra, marciarono dritti, spalle al mare contro appunto Quartu sulla cui strada però era stato costruito un riparo di tronchi d’albero per 4 cannoni che falciarono senza remissione gli attaccanti, cui non restò che deviare l’itinerario contro la non vicinissima (circa 9 km) Cagliari, accampandosi nella notte nelle strutture delle saline, che i Sardi avevano sabotato, demolendo tetti e portando via porte e finestre. Nella notte vi fu un confuso combattimento, dove i Francesi si spararono persino tra loro, ed i superstiti, gridando al tradimento si gettarono in acqua per salvarsi sulle non poche imbarcazioni che avevano contribuito alle operazioni di sbarco, e che ora però erano sconquassate da una tempesta. Ne annegarono moltissimi, e la sconfitta determinò il ritiro dell’intero corpo di spedizione in Francia, il 22 febbraio.

Ciò non impedì che un’altra operazione, pianificata dal 1792, avesse ugualmente luogo a partire dal 20 di quest’ultimo mese. Si trattava del tentativo, forse a scopo diversivo, ora, di colpire la Sardegna a Nord, cominciando con la creazione di una testa di ponte nelle Isole Maddalenine.

L’aveva suggerita un certo Antonio Costantini, còrso, bonifacino, ma filofrancese, mercante di grano che spesso si era basato in passato a Sassari:

“Il convient de commencer par s’emparer des îles de la Madeleine …; un fort, du canon et quelques troupes empèchent le passage de nos vaisseaux entre la Corse et la Sardaigne” : “E’ opportuno iniziare con l’ impadronirsi dell’arcipelago della Maddalena…; un forte, pochi cannoni e truppe impediscono il passaggio delle nostre navi tra Corsica e Sardegna”,

e continuava, dopo aver affermato che i Maddalenini essendo di origine còrsa, sarebbero stati lusingati (flattés) di unirsi alla Corsica e quindi alla Francia:

“Il faudrait s’emparer en même temps de la demi galère sarde qui séjourne dans un port de ces petites îles et de quelques autres petits bâtiments qui gardent les côtes de la Sardaigne “: “Bisognerebbe catturare contemporaneamente la mezzagalera sarda basata in un porto di queste isolette e di alcune altre piccole imbarcazioni che difendono le coste della Sardegna.”

Ciò fatto, continuava Costantini, bisognava espugnare la Torre di Longosardo (quella tuttora presente sul promontorio di Santa Teresa Gallura) abbastanza carente di artiglierie e truppe, ma dominante un’insenatura che avrebbe potuto offrire un sicuro rifugio alle navi francesi ed un terreno di sbarco per i soldati in divisa turchina. Prendere accordi segreti con gli abitanti di Tempio, poco guarnita e lontana 10 leghe dal mare. C’era da temere per l’attaccamento dei Sardi, trattati bene dalla Corte di Torino per renderseli fedeli, proseguiva, ma se una volta giunti nell’Isola si fossero formati dei reggimenti di nativi scelti tra quelli che simpatizzavano per la Francia, si sarebbe ottenuto lo stesso risultato. Dopo Tempio, estendere l’occupazione a Terranova (l’attuale Olbia) e a Castelsardo, ben fortificata e difficile da espugnare senza prendere prima accordi con un’eventuale “quinta colonna” al suo interno: altrimenti si poteva sempre bombardare dal mare.

E poi si sarebbe marciato verso Sassari, difesa sì da un reggimento anche in tempo di pace, ma secondo Costantini, piena di abitanti malcontenti del governo e pronti ad accordarsi con gli attaccanti: se, per giunta, avessero dimostrato di guardar di buon occhio la Rivoluzione francese, gli si poteva elargire una traduzione in “langue sarde”. In ogni caso, le forze previste da Costantini per l’invasione erano 6.000 soldati regolari e 6.000 volontarî, di cui 2.000 Còrsi: più che sufficienti per bloccare gli afflussi di viveri a Sassari, attingendo invece dalle campagne vicine ben più che il sufficiente per gli assedianti. Caduta la maggiore città della Sardegna settentrionale, il Nord dell’Isola poteva dirsi conquistato. Lì vicino era Alghero, meno popolosa, ma certo più fortificata e guarnita anch’essa da un reggimento, ma anch’essa si poteva prender per fame o accordandosi con elementi filo francesi residenti entro le sue mura. A quel punto, l’occupazione del Sud e della stessa capitale Cagliari sarebbe stata una passeggiata, ingrossando le truppe su enumerate con tanti Sardi pronti a collaborare. Nessun problema, dopo aver piantato il tricolore sugli spalti di Cagliari, da parte dei centri minori tutt’intorno. Il piano, sottoposto alle autorità còrse, aveva avuto immediata approvazione da parte di Saliceti, procuratore generale e sindaco del dipartimento della Corsica.

Ma come abbiamo appena esposto, questo progetto non fu affatto eseguito, per lo meno nell’ordine cronologico originale: era stato Truguet che, forse considerando le lunghe distanze, su terra, tra il Nord Sardegna e Cagliari aveva deciso di cominciare l’offensiva dallo scacchiere meridionale.
Fermo restando, però che, come diversione, si doveva sempre effettuare lo sbarco nelle Maddalenine.

Perciò, parecchi giorni prima della disfatta nei Golfi di Cagliari e di Quartu, Truguet inviò la corvetta Fauvette e 3 feluche armate (Vigilante, Fidèle, Liberté), il brigantino Annunciazione e la tartana Saint François che avrebbero scortato 16 imbarcazioni minori per il trasporto delle truppe.

Esse erano state reclutate tra i peggiori reparti disponibili in Corsica: le guardie nazionali del 2° Battaglione, e 2 compagnie del 4° battaglione volontarî, circa 450 uomini che per settimane si erano distinti per impreparazione, indisciplina, riottosità e rissosità tali da giungere all’omicidio di rappresentanti dello stato. Essi erano stati integrati perciò con 150 elementi decisamente migliori, granatieri del 52° Reggimento di fanteria di linea, genieri e alcuni artiglieri, serventi di un mortaio e 3 cannoni campali.

L’intero corpo di spedizione era stato posto agli ordini di Pietro Paolo Colonna de Cesari Rocca (1748-1829), un nipote di Pasquale Paoli, quel “Babbu di a Patria“, il Padre della Patria che per decennî aveva guidato la rivolta dei suoi contro i Genovesi ed i Francesi che li avevano sostituiti nell’occupazione della Corsica, senza trascurare di governare, emanare leggi, fondare abitati e persino una università. Nel 1768, egli ed i suoi uomini avevano subìto una tragica sconfitta a Ponte Nuovo, ma con la Rivoluzione francese era tornato da un lungo esilio, in Corsica e di nuovo a capo dei compatrioti: la Repubblica gli aveva persino dato il comando della 23ª Divisione: come dire il comando generale di tutta la sua Isola.

Ma il suo cuore còrso batteva ancòra, e forte, per quei Re di Sardegna, che nei decenni precedenti avevano aiutato un po’ ufficiosamente e molto alla luce del sole la sua lotta per l’indipendenza, giungendo a piantare lo stendardo sabaudo su Bastia e San Fiorenzo (la cui cittadella, guarnita da fucilieri delle galere sarde, fu restituita a Genova a conflitto finito) durante la Guerra di Successione Austriaca e riconoscendo la bandiera còrsa al passaggio delle navi della piccola ma combattiva marina “paolina”.

Ed è per questo che l’anziano campione dell’indipendenza aveva prima presentato le gravi difficoltà logistiche che avrebbe potuto incontrare un raduno nella povera e piccola Bonifacio dei battaglioni còrsi, già di per sé mal nutriti, mal vestiti e falcidiati da un’alta percentuale di diserzioni e, in sèguito, si sarebbe spinto a chiedere l’intervento degli Inglesi (che l’avrebbero nominato Viceré) per liberare i Còrsi, che come lui non si sentivano per niente Francesi, dai nuovi dominatori.

La Fauvette e l’intera flottiglia erano comandate da un Tenente di Vascello basco, Goyetche, mentre le truppe da sbarco (compresi i granatieri del Capitano Ricard ed alcuni genieri del Capitano Moydié) erano agli ordini del Tenente Colonnello Giovan Battista Quenza comandante al momento del suddetto 2° battaglione, che, in seconda, era comandato da un altro Tenente Colonnello dei volontarî, cui, come capitano e specialista di artiglieria era stata assegnata la direzione del tiro dei 4 pezzi da impiegare a terra: si chiamava Napoleone Buonaparte.
Trascurando i dati sommarî e per niente esatti sulle difese delle Isole forniti da Costantini nel suo progetto, questo corpo di spedizione avrebbe trovato ad attenderlo nell’Arcipelago maddalenino e sulla costa sarda antistante la guarnigione de La Maddalena comandata dal cavalier Giuseppe Maria Riccio, di Tempio, che alle sue dipendenze aveva il Tenente svizzero Barmann, a capo delle truppe terrestri, ed il nizzardo Cavalier Felice de Constantin (1775 – post 1838) comandante dell’”Armamento leggiero”. Essi avevano ai proprî ordini, rispettivamente, 50 soldati svizzeri del Reggimento de Courten, 500 tra locali abili alle armi e volontari galluresi (donne, bambini ed inabili erano stati sfollati ed accolti sulla costa dirimpetto, anche con l’aiuto della Chiesa, mentre le forze navali erano costituite dalle mezzegalere Beata Margherita (l’”ammiraglia”, comandata dallo stesso Constantin) e Santa Barbara, del carlofortino don Carlo Vittorio Porcile (1756-1815), promosso “capitano tenente” pochi mesi prima (entrambe le mezzegalere avevano un equipaggio di circa 140 uomini, un cannone da 8 libbre, 2 da 6 e 2 da 4, concentrati a prua e 2 falconetti da 8 once) dalle galeotte Serpente (comandante Bistolfo), Sultana, Sibilla ed Aquila (pochi, piccoli pezzi a testa), da alcune gondole e lancioni.

I forti che difendevano l’isola principale erano il “Balbiano” ad ovest dell’abitato ed il “Sant’Andrea” ad est, mentre su Santo Stefano era presente, in località Villamarina una forte torre quadrata, con 4 cannoni di medio calibro e 25 soldati di guarnigione, agli ordini del Tenente Garzia d’Oneglia.

Degno di nota come strumento di propaganda e per tener alto il morale dei difensori, lo stendardo che era stato fatto cucire dal Cavalier Riccio per l’occasione: il Crocifisso con ai piedi Santa Maria Maddalena, con l’iscrizione “PER DIO E PER IL RE VINCERE O MORIRE”, e che si può vedere tuttora nel Municipio de La Maddalena.

L’attacco francese

Da metà febbraio, le mezzegalere e le galeotte sarde ogni mattina andavano sulla bocca del porto di Bonifacio, per sorvegliare eventuali uscite e dar l’allarme. Ciò comportò che l’artiglieria della Fauvette, 20 pezzi da 36, fosse rinforzata con 2 cannoni da 24 libbre e 2 colubrine da 8 della locale cittadella, cosa che autorizzò Felice de Constantin a definirla “fregata” nella sua dettagliata relazione. Il giorno scelto per la partenza sarebbe stato il 18 febbraio, perché, sino a quella data, i venti erano stati contrarî. Salpato nella sera, il convoglio fu in vista, scrisse Colonna – Cesari “de la Sardaigne” la mattina del 19. Vi capitò in mezzo un padron di feluca napoletano, Saverio Di Rosa, che aveva accettato di recapitare a Genova un “piego”, “diretto a S.M. Sarda“: 2 galeotte lo fermarono e la condussero sotto il bordo della Fauvette, ma prima di qualsiasi controllo il Di Rosa era riuscito a filare in mare il plico. Giunto ormai libero ad Alghero il 25 febbraio, il Napoletano avrebbe descritto la flottiglia come composta da 27 unità: una corvetta, 3 “galeottine”, 8 tra polacche e tartane ed il resto gondole bonifacine, evidentemente 15. La bonaccia trattenne la squadretta per alcune ore, ma all’imbrunire il vento riprese con violenza e le gondole che trasportavano gli armati dovettero rifugiarsi di nuovo a Bonifacio. E la Fauvette mettersi alla cappa, per altri due giorni.

Essa fu avvistata alle 7,30 dalla cima più alta de La Maddalena (La Guardia), e, alle 9 riferirono la stessa notizia le galeotte sarde Sultana e Sibilla, che sino a poco prima erano state “di guardia avanzata verso l’isoletta di Sparges”.

Il 22 unità da guerra e da trasporto ripartirono, e a mezzogiorno gettarono l’ancora nel canale che separa La Maddalena da Santo Stefano, dopo che alcune d’esse avevano sbarcato soldati nell’isolotto di Spargi, per predarvi del bestiame. Il forte “Balbiano” e le mezzegalere spararono numerose salve contro gli attaccanti, causando una perdita sulla corvetta che rispose dopo “il terzo colpo”, danneggiando il baluardo e la galeotta Serpente. Nella notte, sotto un’intensa pioggia, gli uomini di Quenza e di Napoleone sbarcarono da 5 gondole e 3 feluconi a Santo Stefano, dove misero in batteria i pezzi per costringere la torre alla resa, che avvenne la mattina dopo, anche per opera del fuoco della Fauvette e dei feluconi, dopo che la guarnigione aveva tentato una discreta resistenza, di 2 ore, secondo la relazione nemica, prima con un fuoco di fucileria al riparo delle rocce della costa (perché “non parati da detta torre non visibile loro“) e poi rifugiandosi nella fortificazione: 17 soldati furono fatti prigionieri, 8 riuscirono a dileguarsi nel retroterra, ed un marinaio che aveva per nome di guerra La Grandeur (1) passò a nuoto il braccio di mare che separa Santo Stefano dalla Maddalena, informando dettagliatamente Felice de Constantin dell’accaduto. I magazzini adiacenti per primi e poi la torre furono occupati, con bottino di munizioni, viveri e 3 cannoni.

Constantin, pur essendo subordinato, sulla carta, all’anziano Cavalier Riccio, cui rimaneva il comando del forte “Sant’Andrea” aveva naturalmente preso su di sé l’intera organizzazione della difesa: ed ora che aveva saputo della caduta di Santo Stefano: “per tentare di sloggiare la fregata e il convoglio, per procurarmi la comunicazione del littorale, e per liberarmi il passo tra questo e la Sardegna, feci portare di notte il più grosso cannone da 15, che avevo sulla batteria Balbian alla punta detta Li Tegi [le Tegge] di questa, e dirigere la forgia per roventare le palle.”

Proseguiva dicendo che i colpi di quest’ultimo pezzo avevano ottenuto l’effetto desiderato: fu la “fregata per quattro volte colpita a palla infuocata” ed “obbligata a tentare la ritirata più alla parte della Sardegna [nel Golfo di Arzachena, o comunque decisamente a Sud di Santo Stefano] per ben due volte, ed infine a lasciare le ancore ( 4 in tutto) e accorrere nel porto di Santo Stefano”, nell’insenatura di Villamarina (ora Vela Marina), da dove la Fauvette aveva ridotto, come si è già detto, il torrione dell’isolotto alla resa.

Questo per il 23 febbraio: alle 16 Napoleone mise in batteria i suoi pezzi su un tratto della costa nord di Santo Stefano in vista dell’abitato de La Maddalena, riuscendo a trincerarli e proteggerli con muretti a secco, nonostante il fuoco di contrasto dai forti “Balbiano” (i cui cannoni erano guidati nel tiro da un Rossetti “piloto di fregata”) e “Sant’Andrea”. Con queste armi (2 cannoni da 4 libbre ed un grosso mortaio a bombe), gli artiglieri del futuro Imperatore spararono, si è calcolato con grande esagerazione 1.050 bombe: forse 150 o anche meno e molte più palle di ferro, arroventate o no, che, secondo il rapporto che Napoleone stesso avrebbe stilato in sèguito, danneggiarono il porto, 80 abitazioni civili (4 in fiamme), la chiesa parrocchiale e i due forti, incendiarono un cantiere, massacrarono il bestiame (solo due uomini risultarono feriti, il marinaio “Joli” ad una guancia ed un miliziano, Michele Degoscio, del paese gallurese di Calangianus, che, mutilato di una gamba, morì giorni dopo) e costrinsero le mezzegalere a lasciare Cala Gavetta, dove erano troppo esposte al tiro: però, durante il trasferimento nel più riparato e lontano canale della Moneta, esse poterono rispondere a cannonate al “nembo di fucilate” sparato loro dalle truppe sbarcate a Santo Stefano, senza subire una sola perdita.

Per la seconda volta, Constantin decise di togliere cannoni ai forti (che ormai avevano esaurito o quasi le loro munizioni) per metterli in batteria altrove: il che fu, ora, a Punta Nera, sulla costa gallurese tra Palau e Capo d’Orso. I due pezzi scelti furono imbarcati su un lancione guidato dal nocchiere della Marina Regia sarda Domenico Millelire (1761-1827: nom de guerre “Debonnefoi”), con a bordo 6 marinaî e scortato dalla galeotta Sultana del timoniere Tomaso Zonza (1756-1842, nom de guerre Fedeltà), e, serviti da artiglieri diretti dal capo cannoniere Mauran, lesionarono ulteriormente la Fauvette, decapitandone gli alberelli di gabbia. Altri due cannoni furono trasportati la sera dello stesso 24 febbraio, sempre dal lancione di Millelire, sotto la roccia dell’Orso, più vicina alla nuova posizione della corvetta. Le munizioni, consumate nei due forti, furono attinte ora dalle mezzegalere (il che fa pensare che questi ultimi due pezzi non potessero essere che di calibro 8).

Questi due ultimi cannoni non poterono essere messi in batteria prima di notte, e così la Fauvette, una gondola, un felucone e due lance lasciarono Santo Stefano, e tentarono due volte (la notte del 24 e la mattina del 25) di effettuare uno sbarco di armati a Caprera, che però fu vigorosamente difesa dalla galeotta di Zonza e a terra, da 65 tra marinaî e miliziani sardi e maddalenini. Intanto, le batterie installate di fresco tormentavano il convoglio francese. Constantin, attribuendo al nemico qualcosa come il triplo dei suoi effettivi, e vedendo che, sinché la corvetta e le altre navi armate erano di fronte a Caprera le mezzegalere sarde avrebbero avuto il passo bloccato, pensò bene di contrattaccare i Franco-Còrsi sulla stessa Santo Stefano la mattina del 26 febbraio, con 400 fucilieri, attinti anche dalle truppe del Manca di Thiesi ed imbarcati sulle mezzegalere e sulle galeotte: piano “accolto con intrepidità da diversi. Quello che il comandante delle forze sarde non sapeva era che Napoleone avrebbe voluto attaccare direttamente la principale delle isole maddalenine, che aveva accettato l’ordine di Colonna Cesari di cominciare l’occupazione con Santo Stefano, e che, dopo aver riscontrato il gran numero di “centri” conseguiti dalla sua batteria, dovuti anche ad un “archipendolo”, uno strumento di mira costituito da una squadra integrata con un filo a piombo che egli stesso aveva realizzato, riteneva che la situazione fosse abbastanza matura per passare all’investimento de La Maddalena prostrata da decine di ore di bombardamento, con l’appoggio dei cannoni della Fauvette. Ed il comandante sardo non poteva sapere neppure che proprio dall’equipaggio di questa nave che era sorta una fiera opposizione a questo progetto. La gente della corvetta francese non era composta da marinaî di professione, ma da contadini provenzali reclutati a forza e frettolosamente, e che sotto le cannonate delle mezzegalere e delle batterie sarde si erano fortemente demoralizzati.

Colonna Cesari che la sera del 24 nei magazzini militari di Santo Stefano aveva riunito un consiglio di guerra per pianificare l’operazione caldeggiata da Buonaparte, fu presto informato della decisione della ciurma di ribellarsi all’ordine di attacco a fondo (anzi di impadronirsi della nave e tornare a Bonifacio), e risalì verso le 0,30 (ormai, del 25 febbraio) sulla corvetta, accompagnato da 12 gendarmes che mise a guardia della sua cabina dove era contenuta anche la cassa del corpo di spedizione, ordinò al pilota della nave, Santo Valeri, di orientare la Fauvette a difesa dalle mezzegalere sarde, poi riunì gli ufficiali di tutta la flottiglia sul ponte, chiedendo atto della loro mancanza di disciplina: la risposta fu che era la … sovrana volontà degli equipaggi ad esigere il “tutti a casa!”. Senza replicare, Colonna Cesari rientrò nella sua cabina dove fu raggiunto da un mozzo alle 7 del mattino: il ragazzo comunicava la richiesta, se pure non era un ordine, di presentarsi sul ponte. Il capo supremo della spedizione obbedì, e si trovò di fronte tutti i marinaî riuniti. Senza esser, evidentemente, un grande oratore, prospettò loro la luminosa vittoria che si prospettava e che avrebbe visto il tricolore sventolare su La Maddalena, ma la gente rimase indifferente. Colonna Cesari passò ad altri sistemi: prima puntò una pistola su un barile di polvere da sparo, gridando “Una mia parola, e la nave salta!”, ma lo si era visto troppe volte esitante sino alla pusillanimità per credergli, e come ultimo tentativo, o per un vero crollo psichico, scoppiò a piangere, senza ottenere altro, in sèguito, che i soprannomi di “Pleureur” (Piagnone) e, dal compatriota Saliceti, quello sarcastico di “Eroe de La Maddalena”.

Goyetche cercò di mediare: chiese agli uomini di esprimere il loro voto schierandosi a dritta quelli che volevano rimanere almeno per 6 o 8 ore per proteggere da un attacco delle mezzegalere sarde la ritirata che sarebbe dovuta avvenire sulle imbarcazioni sottili, e a sinistra quanti volevano andar via e sùbito: una discreta maggioranza rimase a dritta.

Colonna Cesari dovette dettare a voce alta l’ordine di ritirata, e senza poter aggiungere due parole per sollecitare le imbarcazioni armate di assistere nell’imbarco le truppe di terra. La missiva, strappatagli dalle mani e imbarcata su un canotto per essere recapitata in fretta a Quenza, diceva che la circonstance esigeva che gli sbarcati si ritirassero al più presto e si reimbarcassero, mettendosi al riparo degli attacchi delle mezzegalere sarde sotto i cannoni della Fauvette (chiamata fregata anche da lui, adesso), dopo aver gettato in mare tutto il materiale che non fosse stato possibile salvare. Ma, se vogliamo credere al rapporto scritto in sèguito da Colonna Cesari, il canotto tornò a bordo in pochissimo tempo, perché quei “lâches” dei marinaî avevano solo finto di offrirsi volontarî per far dimenticare il loro precedente atto di insubordinazione, ma poi avevano pensato bene di evitare incontri con la Marina Regia . Occorse mandare un’altra lettera con altri vogatori che, se non altro, portarono a termine il recapito.

Contrattacco sardo e ritirata dei Franco Còrsi La lettera, ricevuta dalle guardie nazionali còrse la mattina del 25 febbraio, le mise nel panico: esse erano state, è vero, sicure di concluder felicemente la campagna, ma avevano subìto giorni di pioggia invernale senza una tenda per ripararsi ed esaurito in quelle numerose ore le riserve di viveri, e lo stesso Napoleone si era dovuto accontentare della carne di un capretto reperito a stento sull’isolotto e abbrustolito senza sale e alla bell’e meglio su un fuoco di sterpaglie. E intanto, dalle manovre, sembrava proprio che la corvetta prendesse il largo. Gli uomini del 2° Battaglione si gettarono quindi verso la spiaggia su cui avevano preso terra, per risalire sulle gondole nonostante Napoleone tempestasse per ridurle all’ordine, con l’aiuto dei suoi artiglieri e dei pochi granatieri “regolari”.

Ma le principali imbarcazioni si erano dileguate, e fu gran cosa se almeno i fuggiaschi poterono salvare le proprie vite, imbarcandosi uno alla volta sulla feluca di tal Capitano Gibba ed alcune scialuppe che Colonna Cesari e Goyetche erano riusciti ad inviar loro, perché aspramente esortati dal Capitano Peretti del 52° Reggimento.

All’avanguardia del previsto contrattacco sardo era stato mandato intanto il Millelire col suo lancione, stavolta impiegato come imbarcazione d’assalto, non più per il semplice trasporto di un cannone. Avanzando verso Santo Stefano sotto l’appoggio dei forti de La Maddalena, avvistò 2 feluconi francesi che tentavano di fermarlo, ma non esitò a colpirli più volte col cannone che aveva postato a prua del lancione, disalberandone uno e costringendoli alla ritirata entrambi. Sbarcò con 15 uomini armati su un punto di Santo Stefano non visibile da dove Napoleone ed i suoi si erano accampati, rimandando poi il lancione in Gallura per attingervi rinforzi (su quel tratto di costa si erano ammassati qualcosa come 500 tra miliziani e soldati regolari sardi, comandati da don Giacomo Manca di Thiesi (n. 1730). Coi suoi marinaî e con numerosi fucilieri di rincalzo, raggiunse, per un sentiero noto la spiaggia ormai abbandonata dai nemici, che vi avevano lasciato però, come si sarebbe letto nelle relazioni successive, i 3 cannoni della torre, intatti, i pezzi d’artiglieria che avevano colpito La Maddalena (sul mortaio furono riconosciute le “armi” di Luigi XVI), e l’”archipendolo” di Napoleone, tre buone ancore e molto altro materiale, pallottole, fucili, polvere, uniformi (2). Erano stati lasciati a terra anche 10 volontarî còrsi, presi sùbito prigionieri, nonché 4 Sardi: 2 disertori del Reggimento di Sardegna, un detenuto che era stato tolto dal carcere quando i Francesi avevano occupato Nizza, ed un delinquente comune che si era rifugiato in Corsica prima della guerra. E, sembra, molti caduti sepolti sotto la terra e la sabbia di Santo Stefano.
Le mezzegalere, le galeotte ed il lancione di Millelire si posero all’inseguimento della flottiglia in ritirata verso Bonifacio, ma essa andava così veloce che si riuscì a catturare solo una gondola che portava rifornimenti al campo francese ormai abbandonato, la galeotta Sultana e la gondola Aquila avevano predato la notte tra il 26 e 27 febbraio la tartana francese Vergine del Rosario del Capitano Antonio Tropé Martin di Saint Tropez con a bordo un carico di ferro e missive che davano notizia dello stato di guerra tra Francia repubblicana ed Olanda, Gran Bretagna e Spagna, una polacca con un ricco carico di cotone e, il 6 o 7 marzo, la tartana L’aimable Lucie (Capitano Joseph Barbier pure di Saint Tropez) con 15 Francesi, proveniente da Malta e diretta in Francia.

La vittoria, insomma, era stata totale. Negli anni successivi, dopo una breve pace tra Regno di Sardegna e Francia, si sarebbe temuto più volte un altro colpo di mano a scopo di annessione delle Maddalenine, ma esso non fu mai più neppure tentato, e l’Arcipelago rimase sino ad oggi territorio italiano dopo essere riconfermato possedimento del Regno di Sardegna.
Il merito maggiore va, indiscutibilmente alla Marina Regia del tempo, sia pure con l’aiuto degli Svizzeri e delle truppe di terra del Marchese di Thiesi, ed è significativo che tra i destinatari delle prime medaglie d’oro della storia militare sarda e italiana vi fossero Domenico Agostino Millelire (quest’ultimo, fratello del primo era anch’egli marinaio, ma aveva operato a terra durante il bombardamento). Altri componenti della Marina Regia ricompensati per il valore dimostrato furono, naturalmente Constantin e Porcile, Bistolfo comandante della Serpente, il Guardiamarina Barone Galera, il “piloto” Rossetti, Tomaso e Cesare Zonza, un Alibertini (o Albertini o Aubertini) marinaio semplice, lo scrivano di fregata Pietro Francesco Foresta e il “piloto giubilato” Alagna.

Poche parole infine sulla partecipazione di Napoleone a questa battaglia. Essa rappresentò il suo battesimo del fuoco ed in essa vide la sua prima sconfitta, anche se indipendentemente dalla sua volontà e dalle capacità dimostrate sino al momento del “sauve qui peut!” dei suoi. Ma al di là di questo, fu solo un episodio trascurabile nella sua biografia, presto oscurato dalla vittoria di Tolone di pochissimi mesi dopo e dalle campagne d’Italia del 1796 e 1797.

di Giuseppe Bonelli e Paolo Cau

Note

1 Potrebbe essere tal Salvatore Ornano con l’identico nom de guerre, citato in un elenco di ricorrenti per il risarcimento dei danni subìti durante il bombardamento (abitazioni, bestiame ed altro) presente in ASCA, SSeG 2 1678, senza data ma ascrivibile all’estate 1793

2 ACCA, Lettera elenca: “un grosso mortaro di bronzo e 4 cannoni parimenti di bronzo, uno de’ quali di 36 libbre di palla, fucili, sciable, e polvara ed altre munizioni da guerra …”.