A mimoria d'a petraCo.Ri.S.MaLa Maddalena Antica

L’assetto della società SEGIS

L’alternanza nella direzione della cava cessò quando Attilio Grondona decise di accasarsi alla Maddalena sposando Lucia Manini. Da quel momento egli divenne la vera anima della cava tanto che, all’isola, pochi ricordavano che dietro di lui c’era una società responsabile di scelte, ma tutti lo consideravano il vero padrone dell’azienda. Non sfuggiva però agli osservatori più attenti e motivati il ruolo svolto dall’altro gerente Osvaldo Marcenaro, descritto dal vecchio scalpellino Antonio Fadda come “colui che sembrava il factotum della società. Era piccolissimo di statura e mingherlino. Molto asciutto nel parlare. Provvedeva a quanto occorreva nel cantiere come legname, carbone, utensili, macchinari. Ogniqualvolta il signor Marcenaro veniva in visita (almeno una volta all’anno), dopo poco tempo che era ripartito arrivava un bastimento carico di materiali per le necessità urgenti”. Con la stessa attenzione Fadda descriveva “il signor Attilio, come comunemente lo si chiamava, il diplomatico dell’azienda. Mai uno sgarbo per nessuno, sempre sereno e conciliante, benché incutesse una specie di autoritaria deferenza personale, molto sentita da chi lo avvicinava. Ecco, forse sta qui il segreto dello sviluppo e della grandezza della Graniti Sardi di un tempo: gli uomini erano quelli giusti al posto giusto e ciascuno esplicava le sue mansioni nell’interesse di un’industria tanto fiorente da essere additata come esempio di serietà e puntualità”.

In effetti, la lunga permanenza di Grondona nella casa della cava dopo il matrimonio (durata fino a che i figli raggiunsero l’età scolare e quindi si rese necessario il trasferimento alla Maddalena) lo avvicinava ai dipendenti che avevano modo di conoscerlo e apprezzarlo per la correttezza nei rapporti personali, la generosità nell’intervenire ad aiutare i meritevoli e, cosa per niente trascurabile, la precisione nei pagamenti. Tutti quelli che hanno avuto occasione di conoscerlo e dei quali ho raccolto le testimonianze lo definivano “un signori avveru”. Il matrimonio comportò anche un’altra importante conseguenza: Giuseppe Manini, padre di Lucia, entrava nella società acquisendo le quote di Agusti e Rosi, dei due, cioè, che, fino a quel momento, avevano frenato ogni impulso a migliorare.

Il nuovo assetto societario vedeva dunque Grondona e Osvaldo Marcenaro con 2/8 ciascuno, Malerba, Edoardo Marcenaro, Plinio Marcenaro e Manini con 1/8 ciascuno.

L’11 agosto 1905 la SEGIS assunse la procura generale ad operare per conto della Società Bancaria Sarda alla Maddalena ciò che le avrebbe dovuto consentire di avere scorte di denaro liquido e quindi maggiore tranquillità nel rispettare le scadenze.
Negli anni seguenti le richieste in aumento dall’Italia e dall’estero alle quali, a volte, non si poteva far fronte per accumulo di lavoro, comportavano il desiderio di potenziare sempre più l’azienda per aumentare la produzione, ma per questo servivano finanziamenti importanti che potevano venire da banche straniere attraverso la trasformazione della società in Anonima. Osvaldo Marcenaro non era d’accordo: come sempre disposto ad uniformarsi al volere della maggioranza, affermava però che, nel caso di trasformazione, non avrebbe accettato incarichi di gestione. Spiegava che dopo una vita passata a lavorare volentieri, in qualunque condizione, per soci che erano parenti e amici, non si sentiva più di farlo per azionisti sconosciuti, per quanto danarosi.

I tentativi comunque furono fatti. Nel 1908 Grondona andava a Parigi per prendere accordi con i banchieri Dupont che, sentita la relazione e esaminati i documenti, dimostrarono grande interesse, ma sottoposero l’approfondimento dell’affare ad una perizia, da parte di un ingegnere accreditato, a spese della SEGIS. La scelta cadde su un certo Fonville, perito del tribunale civile e del consiglio di prefettura di Parigi che pareva disposto al sopraluogo richiesto fino a quando non sentì che bisognava andare in Sardegna; “fece un salto che pareva gli avessero punto il culo con degli aghi infuocati. Risolutamente mi disse che nemmeno per 50.000 lire avrebbe fatto quel viaggio, che lui a pensare di andare in mare e per di più sui piccoli vapori che fanno il servizio tra il continente e la Sardegna, cominciava già a soffrire fino da Parigi, che lui voleva troppo bene alla sua vita per arrischiarla in un simile viaggio”. Quando poi si convinse chiese 10.000 lire di compenso, cosa che sgonfiò subito gli entusiasmi dei soci SEGIS: giudicando troppo onerosa la richiesta a fronte della incertezza della conclusione positiva dell’affare, sospesero momentaneamente il tentativo per riprenderlo però due anni dopo con altro viaggio, questa volta a Londra, fatto da Plinio Marcenaro, con gli stessi risultati.

Negli stessi anni Grondona assumeva diversi appalti, da solo, o con la ditta Fratelli Marcenaro, o con il cognato Manini o con altra società: la realizzazione del tronco ferroviario Chiavari Zoagli, la costruzione del faro di Capo d’Orso (edificato in subappalto da Luigi Zappoli), la fornitura di materiale per il faro di Punta Sardegna, il trasporto e movimento del carbone per conto della direzione della base militare della Maddalena; partecipava, senza esito positivo, alla gara per l’illuminazione pubblica alla Maddalena e a quella per la costruzione del tronco stradale Ponte Liscia-Porto Pozzo.

Intanto si lavorava alla riparazione e ammodernamento del bacino di Napoli con la fornitura di pezzi speciali. Per la prima volta ci furono seri richiami a causa di cattiva esecuzione del lavoro; non si trattava più dei soliti inconvenienti derivati dallo stivaggio, ma di veri e propri errori che rendevano inutilizzabili i conci: le misure delle rientranze dei “ pezzi della soglia della camera di introduzione del bacino, che avrebbero dovuto avere una rientranza media di 0,50 arrivano anche a 70 centimetri, altri fuori squadra per cui è necessario un costoso intervento per rimediare”. Lo stesso agente della SEGIS a Napoli, ing. Gonsalez del Castillo si dichiarava “sorpreso ciò non essendo mai accaduto”. Lo spiacevole incidente fu rimediato immediatamente tanto che già dal successivo viaggio tutto era ritornato alla normalità e a Napoli si dichiaravano soddisfatti. La causa va forse ricercata nella grande quantità di lavoro di quei mesi che aveva fatto trascurare i controlli per altro assidui e puntuali degli assistenti. Infatti, contemporaneamente, si approntavano i conci per i bacini di Taranto e di Venezia, per i porti di Orano, Caen, Port Said, nonché i soliti tacchi per numerose strade, soprattutto a Genova.

Ad un occhio esterno la grande attività della cava, le numerose imbarcazioni che accostavano alla banchina per caricare, il brulicare degli uomini presso i fronti di distacco dalle pareti e nei piazzali di lavorazione davano l’impressione che tutto andasse sempre bene; ma, in realtà, in occasione di infortuni ai lavoranti, o incidenti alle navi, o ancora alla necessità di interventi non programmati agli impianti, ricompariva in alcuni soci il desiderio di mollare tutto e vendere. E Marcenaro registrava queste difficoltà cercando di convincere se stesso e gli altri che bisognava avere coraggio e andare avanti: “pel passato qualunque lieve o grave inciampo è bastato per farci gridare in coro “meglio piantarla lì – chiudiamo e facciamo altro- se provassimo a ricevere i nostri denari”…; è bastato che un Fovellini credesse bene farsi portar via la testa ed un Tribunale di asini dicesse ciò esser dovuto a nostra colpa. O che una Teresa qualunque usasse catene da secchia per opporre resistenza alla violenza del mare, e finire sugli scogli. O la banchina fatta alla carlona finisse in fondo alla cala per colpa nostra o di chi la costrusse.

O una cavagna uso Lo faro si mettesse ad affondare anzichè galleggiare come fanno le navi rispettabili. O un ministero qualunque ritardasse un mese il nullaosta ad una sostituzione di granito alla cava. O un esercizio di cava fosse meno remunerativo di un altro. E che pel futuro anche se dovessero succedere incidenti o contrattempi simili – crepi l’astrologo – sarà il caso di prenderseli alla buona e cercare di rimediare senza avere l’idea di mollar tutto in bando”.

Uno dei problemi più curiosi che si presentarono in quell’anno 1910 fu quello che Marcenaro chiamava lo Spionaggio, il tentativo cioè da parte di qualcuno di carpire le intenzioni della SEGIS in relazione alle offerte per importanti gare; in effetti, proprio in questi mesi destò preoccupazione la costituzione, da parte di un certo Peduzzi di Savona, di una nuova società per estrarre granito da Terranova: la partecipazione di questa alla gara per nuovi lavori al bacino di Taranto tenne in tensione i gerenti che, convinti di avere all’interno qualche talpa, cercarono di blindare la corrispondenza: “Certamente che in quanto possono cercano di farci la barba e forse buona parte dei sospetti sono fondati. Per qui adottiamo i crampons fin da stasera, ma costì come farete? Baiardo ed altri ne hanno? Per il telegrafo seguiremo intanto la via che ci indicate”. La gara fu vinta dalla SEGIS e le preoccupazioni furono, per il momento, accantonate.

Nel 1911 si concretizzava, grazie alla disponibilità di Lorenzo Manini, cognato di Grondona, il progetto di creare una nuova società (la “Marcenaro e soci”) per il commercio di materiale da costruzione in Libia. Inizialmente gli affari furono buoni, tanto che per superare il problema della lentezza nelle consegne dei materiali a Tripoli (legata al fatto che per far entrare le merci in porto bisognava usare delle chiatte), si richiese la concessione di un tratto di costa, il molo Sparto: alla promessa di una rapida conclusione della pratica seguirono invece lungaggini burocratiche che portarono allo scioglimento della società. Ma proprio i problemi legati ai costi e ai tempi dei noli per il trasporto dei materiali in Libia, che a volte lo facevano esplodere in rabbiose quanto colorite invettive contro i noleggiatori, convincevano Osvaldo Marcenaro che bisognava affrancarsi dai loro lacci capestro e acquistare direttamente un vaporetto di circa 400 tonnellate: egli aveva studiato tutte le possibilità e le sottoponeva a uno scettico Grondona che considerava eccessivi i costi di gestione; secondo Marcenaro, invece, oltre a garantire le consegne più importanti rispettando i tempi previsti, il vaporetto avrebbe potuto assicurare dodici viaggi Cala Francese-Tripoli in 5 mesi facendo risparmiare cifre notevoli e, nei momenti di stallo, avrebbe potuto essere messo a nolo per altri.

Mentre i due gerenti discutevano, un avvenimento esterno arrivò a sbloccare la situazione: l’affondamento del veliero Raffaele, carico di granito SEGIS diretto a Genova, in un basso fondale a Porto Santo Stefano, avvenuto a gennaio 1912. I conci disposti in coperta potevano essere recuperati, ma alle difficoltà logistiche di reperire un palombaro, una barca appoggio, una gru, si aggiungevano quelle provenienti dal comandante e dall’armatore. Le preoccupazioni si moltiplicavano perché in quei giorni spesso la SEGIS aveva in mare contemporaneamente 4 carichi con destinazione diversa e Marcenaro non cessava di argomentare quanto sarebbe stato utile un vapore proprio. A volte le imbarcazioni si susseguivano al carico in banchina senza un attimo di sosta e, malgrado ciò, più di una volta fu necessario inviare il piccolo gozzo di proprietà della ditta fuori dalla Madonnetta verso Santa Maria per bloccare l’ulteriore imbarcazione in arrivo.

Finalmente, cedendo alle sue insistenze, il vapore fu acquistato. Il 27 maggio 1912 arrivava da Amburgo il Margheb che venne destinato subito al doppio compito: portare a Genova il granito SEGIS e ritornare con i carichi di materiale da costruzione e dei pezzi di ferro lavorati per i depositi di combustibile di Santo Stefano. Ma incominciarono anche i problemi che non erano stati previsti: alcuni legati al cattivo funzionamento dell’imbarcazione per cui, nello stesso anno 1912, dovette entrare in bacino a Genova, altri legati al mondo delle regole del noleggio. Infatti l’equipaggio dei velieri, per prassi, era tenuto a stivare il carico a bordo, quello dei vapori si riteneva esente da tale operazione e i marinai del Margheb seguivano questa impostazione; inoltre, non avendo a bordo mezzi di sollevamento adatti per i grossi carichi di granito si era costretti a utilizzare quelli da terra, con conseguente aggravio economico. Il problema poteva essere risolto, almeno parzialmente, solo con nuovi ingaggi di marinai che accettassero l’eventualità di stivare per contratto.

Lo sviluppo della cava della Maddalena comportò il rinnovo della concessione per la banchina, richiesta per 20 anni, a decorre dal 1910. Il primo rudimentale approdo, ereditato dalla precedente gestione, si era rivelato già dai primi anni insufficiente alla incrementata mole di traffico: fu perciò allungato e reso più sicuro l’attracco dei velieri con anelli sistemati all’esterno su una secca.

Ma a volte le condizioni del tempo rendevano difficili le manovre: arrivando si prendeva da prua una catena all’ancora; quindi accostati alla banchina ci si assicurava ad altre catene sistemate a poppa e a sud. Col tempo la posa di diversi corpi morti creò condizioni di sicurezza.

L’eterno problema, che non appariva all’esterno, era quello di acquisire nuova linfa per alimentare il miglioramento della cava e continuamente venivano studiate e proposte soluzioni che prevedevano l’allargamento o la trasformazione della società. Seguendo tale esigenza, con l’ingresso di capitali importanti di qualche nuovo socio, il 5 maggio 1914, la Società in nome collettivo SEGIS assorbiva la Marcenaro e Soci e si trasformava in Società in accomandita semplice Società Esportazione Graniti Sardi e Materiali da Costruzione con 15 soci. Accomandatari e gerenti rimanevano i Marcenaro e Grondona.

Nel periodo della guerra si tirò avanti con poche commesse, ma con fiducia nella ripresa, tanto che, nel 1917, i soci riuniti in assemblea decisero di non licenziare le poche maestranze rimaste e di procedere “allo sgombro della cava di tutti i detriti, di sistemare, di riparare, di migliorare (coi mezzi a disposizione) tanto gli impianti mobili che fissi…allo scopo di avere, nel dopoguerra la
cava in ordine ed in condizioni tali da poter dare il massimo rendimento”.

Le speranze in un dopoguerra positivo si infrangevano nelle difficoltà create dalla lentezza della ripresa: alcuni soci, spaventati, volevano cedere la cava a qualunque costo, per cui quando la Società Anonima Opere Marittime di Roma presentò un’offerta, essi si dichiararono d’accordo, senza neanche trattare, sulla prima cifra proposta per non perdere l’affare. Fortunatamente una grossa commessa per il nuovo porto di Genova fece rientrare le preoccupazioni e la cava riprese a pieno ritmo smentendo le nere previsioni dei pessimisti.

Fu un periodo di crescita continua che durò fino al 1932. I soci genovesi che saltuariamente la visitavano ne riportavano un’ottima impressione tributando giusta lode a Grondona, il quale sempre, pur ringraziando, attribuiva gran parte del merito all’assistente Ercole Molinari dal quale era “validamente aiutato”.

E’ bene mettere in evidenza questo tratto del carattere di Attilio Grondona (a giustificazione della stima generale della quale era circondato) che teneva a riconoscere i meriti altrui, in questo caso quelli di Molinari, anche in contesti, come quello dell’assemblea dei soci, del quale lo stesso Molinari non avrebbe mai avuto notizia.

Nel 1924 gli utili furono “senza precedenti”; in cava lavoravano 200 operai, 100 dei quali erano scalpellini.

Quell’anno si verificarono dei cambiamenti che portarono seri problemi: il monopolio fino a quel momento mantenuto dalla SEGIS pareva messo in discussione, proprio nell’arcipelago. Due nuove cave furono aperte contemporaneamente: a Santo Stefano, “la ditta Salvatori e &…… e così pure la ditta Chinelli a Spalmatore”. Questa non preventivata immissione di fornitori condizionò il mercato: “col loro improvviso inconsiderato intervento hanno portato uno scompiglio nel costo della mano d’opera che dovemmo aumentare del 30%, ciò che ci costringe ad elevare il prezzo di vendita”.

L’altra conseguenza fu la paura che con “questa fregola di aprir cave” se ne aprisse qualcuna troppo vicina a quella di cala Francese ciò che costrinse ad acquistare il terreno a nord di 70.000 mq per 25.000 lire. La reazione della SEGIS andò, comunque, verso un potenziamento delle strutture: si aumentarono i binari arrivando fino a 2,5 Km di linea, e si decise l’acquisto di “alcune mancine di stemma Derrick” e di una locomotiva a vapore: tutto ciò influiva sul numero degli operai, fino a quel momento addetti alle manovre dei carrelli, che subivano una diminuzione, ma provocava anche un significativo miglioramento della sicurezza, visto che, a volte, la messa in movimento a mano del carrello carico provocava incidenti nelle discese verso la banchina.

La continua ricerca di aggiornamento, dovuta, in questo caso, all’esigenza di combattere la nascente concorrenza, portò, ancora una volta, alla proposta tanto combattuta da Marcenaro di creare una società anonima con 4/5 milioni di capitale che qualcuno dei soci pensava di poter ottenere interpellando uomini d’affari americani. Per il momento non se ne fece niente e gli americani rimasero, almeno allora, lontani dall’isola!

Nel 1928 si registrò di nuovo il migliore attivo; il denaro impiegato fruttava ai soci il 15%, si respirava un’aria di forte ottimismo, tanto che il socio che aveva impegnato il capitale più cospicuo, Saredo Parodi, affermava: “Le cave che si possono aprire nell’arcipelago della Maddalena e in Sardegna stessa ci danno poco da pensare e non sono per la qualità del materiale e le difficoltà dell’organizzazione in grado di farci concorrenza. Infatti due di esse, quella di Marginetto e di Spalmatore hanno chiuso, non resta che quella di Santo Stefano che produce solo tacchi con una ventina di operai (oggi noi ne abbiamo 300): del resto altro che tacchi queste cave non potranno produrre e questa produzione è la meno redditizia di tutte le produzioni di cava”.

Parodi aveva ragione nell’evidenziare la distanza che separava la cava della SEGIS dalle altre, ma aveva torto nel pensare che quella di Santo Stefano sarebbe rimasta di rango inferiore, destinata a produrre solo tacchi per pavimentazione: non aveva messo nel conto la intraprendenza del vero responsabile di quella “ditta Salvatori e &” che rischiava di mettere in discussione il monopolio, apparentemente intangibile, della SEGIS. In effetti, fino a quel momento, Santo Stefano non aveva rappresentato un problema: da più di 50 anni vi esistevano dei punti di estrazione del granito, mediocri per entità e gestione; in seguito, nel 1904, Pasquale Serra aveva inoltrato al sindaco richiesta per ricerche minerarie nell’isola, ma, pur avendo avuto risposta positiva, non aveva ufficialmente avviato alcuna attività. Ora, però, il personaggio che si presentava sotto il nome di “ditta Salvatori e &”, mostrava tutta l’intenzione di inserirsi prepotentemente nel mercato del granito sardo: era Stefano Schiappacasse, costruttore edile genovese che, venuto in Sardegna nei primi anni Venti per procurarsi forniture di pietra da costruzione, era sbarcato prima a Tortolì dove aveva aperto una cava fallita in breve tempo. Era venuto, quindi, alla Maddalena e aveva avvicinato Primo Tonelli per avere informazioni da un esperto sui luoghi più adatti per nuovi impianti. Era stato proprio Tonelli a suggerirgli Villamarina e Schiappacasse si era accordato con il proprietario, Pasquale Serra, con la clausola che ne avrebbe assunto il figlio Giovanni Battista. Solo nel 1930, però, l’apertura della cava a nome “dell’esercente proprietario Stefano Schiappacasse & C di Genova” fu formalizzata con l’indicazione di Battista Serra come direttore dei lavori. Da subito una buona organizzazione sembrava riproporre, in piccolo, le caratteristiche di Cala Francese: la cantina ad uso dei dipendenti, una linea di collegamento con La Maddalena, la banchina della Fumata per accogliere gli operai e quella di Cala Levante per imbarcare comodamente i pezzi finiti, una rete viaria ripristinata adeguatamente, gru, binari per i carrelli da trasporto, forge e quanto altro necessitava al lavoro.

Schiappacasse aveva avviato una gestione piuttosto attiva: i contatti con Genova, la sua esperienza nel campo dell’edilizia, la qualità della pietra di Villamarina, gli garantivano contratti importanti: ma i dipendenti gli rimproveravano comportamenti non corretti nei loro confronti, accusandolo di scarsa serietà nel versamento dei contributi previdenziali e di altrettanto scarsa puntualità nel pagamento dei salari. Perciò mentre a Cala Francese il giorno di paga era fisso, a Villamarina i ritardi erano la norma e una bandiera gialla con un decoro rosso veniva issata per segnalare che finalmente si poteva ritirare il dovuto. A volte, per zittire gli operai inferociti da settimane di attesa, Schiappacasse dava loro dei buoni per generi di prima necessità da spendere nel negozio di alimentari di Battaglia che gli concedeva credito, finchè cinque di loro (fra cui Enea Morganti, Paolo Moi, Giacomo de Giovanni e Giorgio Amalfitano) si rifiutarono di continuare il lavoro manifestando il loro malcontento di fronte a tutti gli operai riuniti sulla banchina a Maddalena per l’imbarco verso Santo Stefano. I più giovani fra cui Pilade Moranti, figlio di Enea, si sentivano “come pulcini”, spaventati dalla presenza dei carabinieri (accorsi per sedare eventuali disordini) e tuttavia partecipi della “rivolta” degli anziani. Schiappacasse fu duro con questi allontanandoli da Santo Stefano, ma, dovendo in qualche modo rimediare, affidò loro la lavorazione di un grosso masso precipitato a causa di un fulmine, nel terreno di Webber, vicino al mare: si aprì così una cavetta che assicurò un discreto lavoro.

L’anno 1928 segnò, per la SEGIS, un avvenimento negativo che immagino di forte impatto per tutti, ma soprattutto per Grondona: la morte del suo socio della prima ora e amico di sempre, Osvaldo Marcenaro.

Il 1929 registrava ancora un record nella produzione e negli utili: si erano imbarcate 17.000 tonnellate di pietre lavorate e 2.000 di scagliame. Ma arrivavano anche le prime avvisaglie di cambiamento: la concorrenza che, evidentemente, era stata sottovalutata, costringeva a diminuire i prezzi mentre il costo della mano d’opera rimaneva elevato, soprattutto se paragonato a quello dell’alta Italia dove le ditte erano riuscite a proporzionare il calo dei prezzi con quello dei salari. Non si sentivano, però, pericoli imminenti, tanto che si decise di acquistare una macchina ad uso della direzione, una Fiat 509, capace di smentire da sola ogni previsione di decadenza. Si notava in assemblea generale dei soci che, benchè “il patto sociale concluso pel 1929 coi sindacati operai subisse una certa riduzione, ….i salari [erano] ancora troppo alti e bisogn[ava] adeguarli a quelli correnti in Alta Italia” e, malgrado “la crisi che travaglia[va] tutte le industrie”, ivi compresa quella dei tacchi per pavimentazioni, usati prevalentemente da Genova, l’impresa reggeva bene.

Si rinnovava perciò la concessione per la banchina anche se cambiavano gli oneri a carico della SEGIS: le si chiedeva, infatti, un impegno preciso per la manutenzione della strada militare nei tratti usati dalla società per mettere in comunicazione le diverse cave, quantificato in giornate di lavoro e tipo di intervento.

Nella fase di consolidamento del molo, in previsione di un conflitto che poteva richiederne la distruzione, la SEGIS si impegnava a costruire e “mantenere sei pozzi lungo il muro di sponda della banchina in 3 coppie equidistanti metri 18 l’uno dall’altro e m 3 tra un pozzo e l’altro di ciascuna coppia. Ciascun pozzo deve potere contenere una carica di gelatina esplosiva racchiusa in recipienti metallici a chiusura ermetica in modo che, in caso di bisogno, si possano far esplodere contemporaneamente tutte le sei cariche, mediante l’accensione elettrica, producendo così la rovina di tutta la banchina”.

Giovanna Sotgiu – Co.Ri.S.Ma