A mimoria d'a petraCo.Ri.S.MaLa Maddalena Antica

L’uso del granito prima del 1860

I primi abitanti delle isole erano pastori, agricoltori, marinai, contrabbandieri, più o meno abili in tutte queste attività; come costruttori, e ancor meno come scalpellini, invece, non valevano un granché: le loro case erano piccoli “monolocali” delimitati da muri spessi in media 50 cm, costruiti con pietre grossolanamente sbozzate e disposte, con la sola eccezione delle cantonate, senza allineamenti precisi. La porta d’ingresso, rivolta normalmente a mezzogiorno o a levante, era bassa e stretta, sormontata da un architrave, e costituiva spesso l’unica apertura. Al centro del pavimento in terra battuta uno spazio quadrato lastricato e delimitato da pietre piatte accoglieva il fuoco, u fuconi, sostituito, in alcune case, da un piccolo camino ad angolo. Il forno, collocato abitualmente all’esterno, era realizzato anch’esso con lastrine di granito che formavano pure la volta: solo più tardi vennero reperiti più facilmente i mattoni refrattari che garantivano una più agevole messa in opera della copertura e una migliore distribuzione del calore.

Gli indispensabili pozzi, costruiti, con lo stesso tipo di pietre, vicini alle case, erano tondi, raramente forniti di una rudimentale scala di discesa; assumevano forma irregolare quando venivano addossati a rocce naturali, delle quali seguivano l’andamento, o, più raramente, forma quadrangolare. Più tardi furono realizzati dei sistemi di canalizzazione, sempre in lastrine di roccia, per convogliare l’acqua in eccesso dai pozzi o da zone depresse, dove questa poteva ristagnare, verso i ruscelli (vadine).

Intorno alle case chiusi a secco di ogni tipo: dai muri di perimetrazione delle prime proprietà, alle minde dove venivano concentrati periodicamente gli animali, ai compuli, necessari per selezionare il bestiame da marchiare o per separare i piccoli dagli adulti.

Rimaneva inalterato da secoli l’uso dei tafoni le cui irregolari aperture venivano chiuse da muretti di fattura e consistenza più o meno accurata secondo le necessità: infatti le concavità naturali del granito potevano custodire da una stagione all’altra i semi, la paglia, l’avena; oppure ricoverare agnelli e capretti separati dalle madri; ospitare, precariamente, uomini in difficoltà e, qualche volta, i morti che non trovavano migliore sepoltura.

Quando, con l’occupazione da parte del Regno di Sardegna del 1767, fu necessario costruire dei trinceramenti di difesa e, più tardi, delle vere e proprie fortificazioni, non potendo fare affidamento sulle scarse competenze edificatorie dei maddalenini, si dovettero chiamare mastri muratori e tagliapietre tempiesi.

Anche per l’edificazione della chiesa, alla quale gli isolani tenevano molto e per la quale erano disponibili a prestare la loro opera, si ricorse ai soliti tempiesi.

I primi trinceramenti, necessari alla salvaguardia del presidio militare e al controllo immediato ed efficace delle possibili ritorsioni da parte di Genova (o anche di eventuali atteggiamenti aggressivi da parte degli abitanti), erano stati costruiti in fretta subito dopo l’occupazione, sulla Punta di Sardegna, a Villamarina e alla Guardia della Villa. Solo di quest’ultimo intervento rimangono larghe tracce ben identificabili, malgrado i rimaneggiamenti successivi effettuati in diverse epoche, nella parte a ovest e nell’angolo a nord-ovest del muro che sostiene la spianata.

Piuttosto che frammentare e tagliare i massi emergenti sulla fascia perimetrale della fortificazione, si preferiva inglobarli nella costruzione limitandosi ad adattarne i punti di aderenza; le pietre usate erano naturali (scelte fra quelle che presentavano una faccia abbastanza piana) o ricavate da grossi massi spaccati con le mine e quindi tagliati grossolanamente: perciò, a parallelepipedi irregolari, usati soprattutto nei punti delicati come le cantonate, si accostavano forme tondeggianti e scaglie di ogni dimensione che riempivano gli interstizi dando all’insieme l’aspetto di una costruzione che, malgrado la presenza di un progetto tecnicamente valido, andava avanti reperendo il materiale secondo le necessità del momento e il bisogno sempre impellente di risparmiare tempo e denaro; si finiva così per ricalcare gli approssimati sistemi edificatori degli isolani.

Ben diverse appaiono la Torre di Santo Stefano e la Chiesa della Trinita pianificate, progettate e costruite non più sotto il pungolo opprimente dell’urgenza: l’uso di conci tagliati da persone esperte e disposti in file parallele al terreno mostrano chiaramente la mano di tagliapietre professionisti e di appaltatori di imprese responsabili della buona riuscita dell’opera.

Dopo lo spostamento del centro abitato vicino al mare di Cala Gavetta, avvenuto fra il 1775 e il 1780, emergeva il desiderio di costruire nuove abitazioni (con criteri meno provvisori di quelli usati dai primi abitanti) e, conseguentemente, il bisogno di servizi comuni, quali una nuova chiesa, fontane e lavatoi. La necessità di affrancarsi dai costosi mastri tempiesi fece convergere l’attenzione sia dei privati che delle istituzioni su un curioso personaggio, Domenico Porra, cannoniere di professione, muratore all’occorrenza, al quale furono affidate dapprima la costruzione della fontana di Villamarina, indispensabile al presidio militare di Santo Stefano, quindi quella di Cala Chiesa, comprendente anche un bacino utilizzabile come abbeveratoio e lavatoio, numerose case private e, infine, la più impegnativa edificazione della chiesa parrocchiale nel nuovo abitato.

Per la costruzione delle case alla Marina il terreno veniva ceduto direttamente dal governo attraverso le autorità locali che consentivano al richiedente anche il rifornimento di pietra da taglio nella quantità necessaria al bisogno, prelevata da terreni demaniali e da quelli concessi a privati per uso agricolo. In questi ultimi la roccia costituiva un intralcio e, quando era possibile, il nuovo proprietario la toglieva sistematicamente accantonandola ai bordi dell’appezzamento e utilizzandola per recinzioni e chiusi per il bestiame. Ancora oggi appaiono ai bordi di questi terreni strane strutture circolari formate dalle pietre ammucchiate in modo abbastanza regolare e che, nel tempo, hanno fatto pensare ai resti di insediamenti antichi, di molto precedenti l’epoca della loro reale formazione.

Per i lotti assegnati intorno al nucleo abitato era più facile liberarsi del granito che poteva servire a chi doveva costruire la sua casa di abitazione e quindi munirsi di pietra adatta. Ne abbiamo chiara testimonianza nel 1809 quando Giò Francesco Ettori ottenne un terreno per “vigna e alberi domestici”: poiché all’interno vi erano grossi massi di granito, il Consiglio consentì a chiunque ne avesse bisogno di tagliare la pietra “a cantoni” e portarla via, logicamente senza danneggiare le piante. Ettori si sottometteva, con soddisfazione visto il beneficio che ne ricavava, per sé e per i suoi eredi a permettere questo prelievo.

Anche all’interno dell’abitato il granito affiorante non mancava e costituiva spesso un ostacolo alle nuove costruzioni e alla rete viaria che faticosamente stava assumendo un suo assetto. Nell’ incertezza dei confini a volte sorgevano dissidi per la proprietà dei lotti e quindi anche per quella del granito che in essi era reperibile. Così, nel 1841, Pietro Garrone aveva ottenuto dal consiglio il permesso di livellare la strada prospiciente la sua casa eliminando dei grossi massi che ne rendevano difficoltoso l’accesso: dopo averli ridotti in cantonetti dovette rintuzzare le pretese dei vicini che accampavano diritti di proprietà.

Furbescamente essi avevano atteso la fine del lavoro di taglio dei massi a misure utilizzabili per presentarsi a rivendicare la proprietà del terreno e, di conseguenza, quella della pietra che da intralcio era diventata una positiva opportunità.

Nel 1843, all’atto della divisione delle terre demaniali e della loro assegnazione in lotti ad uso agricolo, gli assegnatari più sfortunati furono quelli che ottennero appezzamenti vicini al mare o costituiti in gran parte da roccia viva: l’impossibilità di qualunque uso legato all’agricoltura o all’allevamento fece sì che i terreni fossero abbandonati e, non appena se ne verificò la possibilità, venduti per somme misere. Tali passaggi di proprietà avvennero, per la maggior parte, subito dopo il 1853, data di scadenza del decennio di inalienabilità dei lotti assegnati, e videro, nella zona di Nido d’Aquila-Cala Francese, l’affermarsi di pochi proprietari: Tosto Michele e Tanca Caterina a nord, Bargone Giovanni Leonardo al centro, gli eredi di Filippo Favale e di Giuseppe Culiolo a sud. Le aree relativamente pianeggianti avevano un discreto uso agricolo con vigne, qualche orto e un limitato allevamento; quelle rocciose, numerose e impraticabili, costituivano un’inutile appendice.

I lavori pubblici, che avrebbero potuto impiegare pietra tagliata, erano praticamente inesistenti: basti pensare che nel 1847 la prima pavimentazione di piazza di Chiesa fu eseguita con una sorta di cantiere di lavoro per disoccupati, reso possibile dalle “volontarie elargizioni dei più abbienti” che così garantivano occupazione per operai giornalieri ridotti alla fame in un paese che “languiva in critiche circostanze”.

Giovanna Sotgiu – Co.Ri.S.Ma