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I quattro western terzomondisti

Subito dopo Algeri, inizia per lo sceneggiatore sardo, l’avventura del western all’italiana. Pur accettando, non senza alcuni pudori, i moduli merceologici di un genere la cui origine, sulla scia dei successi di Leone, è soltanto speculativa, Solinas riuscirà ad immettere, nei sui copioni messicaneggianti, significati di carattere politico già ben espressi in Parà e Algeri e che si ritroveranno ancora in sceneggiature ben più importanti delle comunque dignitose prove sul western. Solinas cerca, in fondo, di rileggere in chiave attuale il tessuto mitico eroico del western, liberamente contaminato, attraverso un processo, che almeno in questo caso si discosta dalla ricostruzione storica vera e propria, per favorire una manipolazione facile e interpretativa del tessuto storico in favore delle necessità narrative. Questo perché la parabola para-rivoluzionaria dei peones di Solinas, dei suoi sceriffi e dei suo avventurieri americani, è tesa più che a rappresentare un passato che sia esemplare per il presente (Algeri e Queimada rappresentano un esempi sufficientemente validi), a raffigurare allegoricamente il presente stesso. Il genere western infatti si presta particolarmente, soprattutto se agli indiani si sostituiscono i rivoltosi messicani, come tramite attraverso il quale veicolare contenuti politici con un occhio alle guerre di liberazione in corso e uno al mito decadente del sogno americano. Per Solinas inizia dunque un periodo che lo vede collaborare, nell’arco di due anni, a quattro film western. La prima occasione di collaborare ad un western gli è offerta da Damiano Damiani, che chiama Solinas per “salvare” la sceneggiatura di Quien Sabe?, che, scritta da Salvatore Laurani, non soddisfaceva le esigenze di regista e produttore. Per la prima volta Solinas si vede costretto a saltare le tappe obbligate del suo operare e a lavorare al copione contemporaneamente alla riprese del film che si svolgono ad Almeria in Spagna. Egli scrive le scene giorno per giorno chiuso in una stanza d’albergo, certamente facilitato in questo dal fatto di conoscere molto bene la storia della rivoluzione messicana sul cui sfondo si staglia la vicenda che vede come protagonisti da una parta l’americano Bill Tate e dall.altra il messicano pseudo rivoluzionario El Chucho. Quien Sabe? è, di fatto, il primo “makaroni western” nel quale è instillato un discorso politico. Solinas, col regista Damiani, possono essere considerati i fondatori del filone rivoluzionario-messicano-para western, un filone di narrazioni imperniate sul tema di fondo della presa di coscienza rivoluzionaria da parte di una classe che ha persino difficoltà a raggiungere la dignità di sottoproletariato rurale. Ma è giusto parlare anche di un corpus di sceneggiature che rappresentano (Quiena sabe? e Il mercenario su tutte) una sorta di variante pop del più dichiaratamente impegnato Queimada, già virtualmente in cantiere durante la scrittura degli western, tanto da spingerci ad affermare che gli western di Solinas sembrano in molto casi dei pezzi preparatori a Queimada, nei quali lo sceneggiatore sembra aver sperimentato, attraverso la giustapposizione degli elementi narrativi, differenti soluzioni di intreccio nelle quali immergere le medesime topologie di personaggio.
Nel 1967 Solinas scrive con Fernando Morandi, col quale poi collabora anche a Rien de Rien, sceneggiatura mai filmata, il soggetto La resa dei conti. A proposito del film, Sergio Leone, col solito piglio provocatorio, ma probabilmente non a torto, affermò che «il soggetto di Franco Solinas era bellissimo, ma è stato rovinato da un film stupido». La sceneggiatura che viene sviluppata da Sergio Donati e dallo stesso Sollima, risulterebbe, su questo non abbiamo un riscontro diretto, infatti assai differente rispetto al soggetto di Solinas (di cui purtroppo non restano tracce, ma solo voci e testimonianze di chi in passato ebbe la possibilità di leggerlo). Tuttavia, La resa dei conti fu prodotto da Grimaldi: il film costituisce il primo capitolo della cosiddetta trilogia politica del regista Sergio Sollima, che vede come protagonista, l’astuto messicano Cuchillo. La storia ricalca, ed ecco che da qui estraiamo buona parte del soggetto di Solinas a cui accenna Leone, la parabola del bandito sardo, che, latitante, sfugge continuamente alla cattura. In questo caso è Cuchillo che, accusato di omicidio e stupro, sfugge alla cattura dello sceriffo Corbett fino a dimostrare la sua innocenza.
Qualche tempo dopo Grimaldi e Solinas pensano ad un film western da far girare al comune amico Pontecorvo, in difficoltà dopo il successo di La battaglia di Algeri, pervaso da dubbi e paure che né bloccavano l’ispirazione, preoccupato com’era di non saper più essere all’altezza del suo capolavoro. Perciò, Solinas con la collaborazione di Giorgio Arlorio si mise alla ricerca di una buona idea per il comune amico, giungendo in breve al soggetto Il mercenario. Pontecorvo, tuttavia, rifiuta di dirigere il film, e di conseguenza anche Solinas abbandona il progetto. La stesura della sceneggiatura viene dunque affidata ad altri e Sergio Sollima gira un film, sceneggiato da Sergio Spina e Luciano Vincenzoni i quali attenuano il senso della parabola iniziale (ben riconoscibile attraverso la lettura del copione) a favore dei motivi barocchi e romantici. Anche in questo caso abbiamo i due personaggi funzione, in costante dialettica sebbene si muovano in direzioni parallele senza mai dare la sensazione di un vero e proprio avvicinamento: Paco è uno pseudo rivoluzionario che, come El Chucho, non sa bene cosa sia la rivoluzione ma capisce che ci si deve ribellare al padrone, essendo in questo anche del tutto simile a Cuchillo. Infatti proprio come quella di Cuchillo, la vita di Paco, rivoluzionario istintivo ma anche bandito ricercato, si muove tra fughe e scorribande. La figura di Paco sembra perciò essere un ibrido tra El Chucho e Cuchillo, un ulteriore esperimento sulla strada per Queimada. A Paco si unisce presto Kowalski (Bill Douglas nella sceneggiatura), un avventuriero la cui vicinanza a Bill Tate e William Walker è precisa, lampante, innegabile. Kowalski è appunto un mercenario che combatte per denaro, nulla oltre la volontà di guadagno (la semplificazione della sceneggiatura è davvero eccessiva) lo muove. Notiamo dunque, anche in questo film, oltre alla reiterazione di strutture che si riconoscono essere tratti distintivi di Solinas (il peone, istintivo e l’opportunista occidentale, smaliziato, intelligente), anche l.abile dosaggio di ingredienti che sono sempre gli stessi, e risaltano nonostante un lavoro sulla sceneggiatura che tenda a indebolirne la portata di metafora politica e a sottolineare invece i lati spettacolari.
Al periodo, Solinas aveva già da tempo abbandonato i pittoreschi tavoli di Ruschena e di Otello (dove si incontrava con Pontecorvo) per trasferirsi nella sua casa a Fregene. Seduto di fronte ad una grande finestra con vista sul mare, egli conduceva qui una vita di routine, con orari e regole che scandivano i suoi ritmi di lavoro, una vita da impiegato, come l’ebbe a definire Morandi, uno dei suoi collaboratori, che ricorda il Solinas di quel periodo, la sua grande attenzione per il singolo aggettivo, per la costruzione non solo della scena, ma della frase e della sua forma con l’obiettivo di incidere con precisione assoluta sulla storia che sarebbe poi stata filmata. Spesso erano i registi per cui Solinas lavorava, che si trasferivano da lui per seguire lo sviluppo della sceneggiatura, come nel caso di Giulio Petroni, per il quale Solinas scrisse Tepepa (1968), aiutando il cantautore Ivan Della Mea che abito con lui per alcuni mesi. In breve la storia del film che viene scritto e girato in pieno clima sessantottino: nonostante la rivoluzione sia stata vinta, Tepepa prosegue la sua battaglia contro le truppe del governo, insieme ad un gruppo di fedeli combattenti, sentendosi preso in giro da Madero, ex-rivoluzionario ora capo dello stato imborghesito. Il rivoluzionario messicano si trova più volte a fronteggiare lo spietato colonnello Cascorro (interpretato da Orson Welles), ed è costantemente perseguitato da Henry Price, dottore inglese (ancora un occidentale nei copioni di Solinas, ma questa volta non mosso dall’opportunismo politico ma dalla ragione personale) desideroso di vendicare una ragazza appartenente ad una ricca famiglia, di cui il medico era innamorato e che Tepepa ha violentato inducendola al suicidio. Tepepa uccide Cascorro, ma viene a sua volta ucciso da Price. La morte di Tepepa, però, non segna la fine della rivoluzione, ed altri continueranno la battaglia al suo posto in un finale che ripete il finale di Algeri, non per la ricostruzione della scena ma in virtù della riproposizione del concetto fondamentale. Le consonanze con il resto della produzione western sono anche in questo caso evidenti: oltre allo sfondo storico del Messico durante la rivoluzione e al finale che apre verso l’evidente necessità rivoluzionaria, la presenza più caratteristica è quella del ribelle messicano che tra crisi di coscienza e gesti nobili porta avanti un discorso che fondamentalmente interessa la sua personale sopravvivenza per passare infine ad un convincimento orientato verso la collettività, attraverso l’esperienza che ne salda gli ideali o per lo meno li rinvigorisce. Dall’altra vi è l’occidentale, misterioso, garbato, colto, che si unisce al rivoluzionario senza mai palesare i suoi reali intenti, che sono sempre e comunque lontani se non avversi alla rivoluzione.
Gli anni a cavallo tra .60 e .70 per Solinas saranno anche quelli delle lotte contro la censura e dei manifesti di politica culturale scritti con Maselli e Damiani. Inoltre, poiché il problema della scissione ideale all’interno dell’ANAC (di cui si è accennato in precedenza) venne a coincidere con la contestazione studentesca, questo obbligò gli autori di sinistra a riconsiderare il proprio ruolo in seno alla società. È per questo che la casa di Fregene, dove Solinas vive e lavora, è popolata da giovani contestatori che egli accoglie pur mantenendo le dovute riserve per un movimento che egli considerava necessario in un Italia che deve pagare i ritardi accumulati rispetto al resto dell’Europa e ad una società industriale più avanzata, ma che tuttavia gli appare volenteroso ma confuso, e del quale l’autore sardo non riesce a decifrare i punti d’arrivo. Solinas infatti riconosceva gli aspetti positivi del .68, soprattutto riferiti all’ammodernamento della società, verso istanze più egualitarie, l’abbandono di finti pudori e la rinnegazione di un modo di fare piccolo borghese figlio di una società passata, ma, attraverso un’amara quanto ponderata analisi, riteneva che i ritardi politico-culturali accumulati dall’Italia rispetto al contesto europeo avessero nuociuto allo sviluppo del movimento distorcendo quanto di positivo potesse essere scaturito: l’errore di considerare il movimento come una spinta rivoluzionaria quale, secondo Solinas non era se non unicamente in termini ideali, aveva portato a scompensi culturali ed errori di valutazione che, sostenuti anche da certa classe dirigente si erano diretti fino alla deriva terroristica; inoltre, la spinta pseudo rivoluzionaria iniziale, si era mutata, con gli anni, in un nuovo immobilismo culturale. Forse è anche per queste ragioni che dopo il 68, come da lui stesso dichiarato, Franco Solinas si allontanò progressivamente dall’ambiente cinematografico italiano, deluso in massima parte dalle nuove generazioni di cineasti che disprezzavano il “mestiere”, “l’artigianato”, e in secondo luogo spinto da nuove proposte a livello internazionale.

Gianni Tetti