Almanacco isolanoLa Maddalena Antica

Il ruolo della chiesa nei fatti del 1793

Nel 1767 le truppe sardo-piemontesi occuparono le isole dell’arcipelago di La Maddalena, abitato da circa duecento pastori corsi con le loro famiglie. I Corsi contestarono minacciosamente l’occupazione. In pochi anni vennero realizzate alcune fortificazioni e a La Maddalena stazionò stabilmente parte della flotta sabauda. Nel 1777 fu nominato il primo governatore o bailo, con funzioni giuridico-amministrative. Nel 1789 scoppiò la Rivoluzione Francese. Nel 1792 venne proclamata la Repubblica. Nel 1793 la Francia entrò in guerra contro Austria, Prussia, Spagna e Inghilterra. Venne decisa anche l’occupazione della Sardegna, caldeggiata dai corsi. La conquista sarebbe dovuta avvenire da Nord, con l’occupazione dell’arcipelago di La Maddalena e da sud con quello del Sulcis. L’operazione bellica partì dalla Corsica, della quale era comandante militare Pasquale Paoli.
L’operazione di invasione della Sardegna è sotto l’alto comando del contrammiraglio Truguet, comandante l’intera flotta del Mediterraneo. Alla campagna di occupazione di La Maddalena – del febbraio 1793 – partecipò anche il 24 enne Napoleone Bonaparte, che all’epoca aveva il grado di grado di luogotenente-colonnello, e che solo tre anni dopo – aprile 1796 – comandò la vittoriosa per la Francia ‘Campagna d’Italia’, che lo portò poi a proclamare la Repubblica Cispadana, e che appena 11 dopo (1804) si proclamò Imperatore dei Francesi. La folgorante carriera di Napoleone tuttavia cominciò con una bruciante sconfitta, inflittagli dai maddalenini e dai galluresi.
All’alba del 22 febbraio 1793 un’agguerrita squadra navale francese, comandata dal colonnello Colonna-Cesari, salpava dalle acque antistanti l’antica cittadina fortificata di Bonifacio (Corsica). Obbiettivo: la conquista dell’arcipelago di La Maddalena. La spedizione navale franco-corsa, composta da oltre ottocento uomini tra equipaggi, effettivi e volontari, attraversava le Bocche di Bonifacio forte di una ventina di imbarcazioni, alla testa della quale c’era la fregata La Fauvette, comandata dal luogotenente di vascello Goyetche. Le truppe da sbarco, particolarmente bellicose, specialmente quelle composte dai volontari corsi, erano comandate dal capitano Reunies e dai luogotenenti Quenza e Buonaparte. A metà mattinata del 22 febbraio, la squadra navale, senza incontrare nessuna resistenza conquistò l’isola di Spargi, priva di alcuna difesa militare e abbandonata dai pochi pastori abitanti.
Le truppe, sbarcate sull’isola, fecero razzia. Alcune ore dopo la spedizione francese riprendeva il mare attraversando il braccio di mare che separa l’isola di Spargi dall’isola di Maddalena e dalla costa di Palau, ed andando a gettare le ancore nella rada di Mezzo Schifo. Fu allora che dal forte Balbiano, la struttura militare sardo-piemontese allora più avanzata rispetto alla flotta occupante, distante da essa circa un miglio, cominciarono a partite i primi colpi d’artiglieria. Anche dalla torre armata dell’isola di Santo Stefano iniziò un fitto fuoco di sbarramento. I francesi tuttavia, favoriti e protetti dai loro cannoni, riuscirono a sbarcare a Santo Stefano ed in poche ore a conquistare la torre, difesa da tre cannoni e da soli 25 soldati. Ci fu un morto. Nel frattempo i cannoni delle navi francesi aveva colpito la mezza galera Il Serpente, ormeggiata nel porto di Cala Gavetta.
La difesa dell’Arcipelago, il già anziano comandante Riccio l’aveva affidata al giovane capitano della Real Marina, Felice De Costantin. E forse mai, nella breve storia dell’Arcipelago (250 anni che si celebrano proprio quest’anno), scelta fu più appropriata.
La postazione di Punta Tegge non solo resistette all’attacco ma la mattina del 23 febbraio scaricò sugli assalitori un fitto fuoco che procurò danni seri alla fregata la quale dovette riparare dietro Santo Stefano, nella cala di Villa Marina. Fu a quel punto che il comandante De Costantin, contando molto sul vigore dei suoi uomini ne inviò un manipolo, di notte, composto tra gli altri da Domenico Millelire, sulla costa sarda dirimpettaia a Vela Marina, dove era riparata il grosso della squadra francese. Il bombardamento che ne seguì l’indomani, il 24 febbraio, non solo danneggiò altre navi ed ancora la stessa ‘ammiraglia’ ma alleggerì il fuoco francese sull’abitato di Maddalena, dovendo questi rispondere al fuoco maddalenino che li aveva colti alle spalle. I maddalenini collocarono una seconda batteria di cannoni alcune centinaia di metri più ad Est.
Fu a qual punto che i francesi, sia per rompere il tentativo d’assedio sia per dare una svolta alla battaglia, organizzarono improvvisa, l’invasione di Caprera. Ci provarono in due ondate successive, coperti dalle navi e dal loro fuoco. Ma ancora una volta i maddalenini, comandati da Tommaso Zonza respinsero con veemenza e coraggio gli attacchi. Nel frattempo, sulla costa antistante l’isola di Santo Stefano erano giunti oltre 500 miliziani provenienti da Tempio ed altri paesi della Gallura, comandati da Thiesi. Non avevano molte armi a disposizione ma si disposero lungo tutta la costa, da Capo d’Orso fin oltre l’attuale Porto Rafael. E la notte accesero centinaia di falò, dando così ai francesi l’impressione di essere ancor più minacciosamente circondati. L’infruttuoso esito degli attacchi, l’inaspettata ed accanita resistenza dei maddalenini ed il sopraggiungere dei rinforzi provenienti dalla Gallura, evidentemente scoraggiarono il morale degli assalitori-occupanti, tanto che si registrò tra loro anche qualche avvisaglia di ammutinamento. Ciò non impedì ai francesi di intensificare il fuoco contro l’abitato, sempre diretto dal Napoleone, che studiava nuovi piani di invasione dell’Isola madre, nella convinzione che non potesse resistere più a lungo.
A La Maddalena la sera del 25 febbraio 1793 si tenne un consiglio di guerra. Si convenne ancora una volta che la miglior difesa poteva essere solo l’attacco. E così fu deciso. Per la notte si pensò ad una impresa – quasi disperata – che poteva essere tragica o eroica. E la si affidò all’ardimentoso Domenico Millelire. Il quale, con soli altri 15 uomini armò una lancia con un cannone, uno solo, e, protetto dalle tenebre, si infilò all’imboccatura del porto di Villa Marina dove erano riparate il grosso delle navi francesi. Il fuoco di fila ed improvviso che ne seguì, unito a quello dei cannoni posti sulla costa sarda il giorno prima, a quello proveniente dalle navi della piccola flotta sabauda e a quello dei fortini Balbiano Sant’Andrea e Sant’Agostino, fu micidiale per i francesi non solo in termini intimidatori ma anche materiali e di danni. Con Domenico Millelire che sbarcò sull’isola di Santo Stefano si riversarono anche alcune centinaia di miliziani galluresi che avevano nei giorni precedenti posto l’assedio dalla costa del Parao (Palau). Ci furono morti e feriti. Per i francesi, fu lo scompiglio e la fuga precipitosa verso le navi che disordinatamente ripresero il largo. Tra i fuggiaschi c’era anche Napoleone che nella fretta e per la paura di rimanere a terra, prigioniero dei maddalenini e dei galluresi, abbandonò a Santo Stefano il suo archipendolo. Domenico Millelire ebbe la medaglia d’oro da parte del Re Sabaudo Vittorio Amedeo III. Napoleone, umiliato e sconfitto dai maddalenini ritornò in Corsica, e di là nel continente francese, iniziando poi la sua irresistibile ascesa, segnata tuttavia all’inizio, da questa precipitosa fuga e da inequivocabile sconfitta subita alla Maddalena e impartitagli dalla flotta sabauda, dai maddalenini e dai galluresi.
Che la diocesi di Ampurias e Civita avesse riposto una particolare attenzione sull’arcipelago di La Maddalena lo attesta la sollecitudine con la quale provvide ad istituire, nel gennaio del 1768, la parrocchia di Santa Maria Maddalena, a nominare parroco il canonico Virgilio Mannu e ad autorizzare la costruzione della chiesa. Erano trascorsi appena tre mesi dall’occupazione militare sabauda delle isole dell’Arcipelago e con quegli atti, il vescovo Pietro Paolo Carta, non solo inglobava nella propria giurisdizione ecclesiastica le Isole ed i suoi abitanti corsi, fino ad allora inconfutabilmente orbitanti nelle cure dei parroci di Bonifacio, ma riconosceva altresì la legittimità dell’intervento militare di re Carlo Emanuele di Savoia a discapito dell’agonizzante Repubblica di Genova alla quale, e solo per pochi mesi ancora, la Corsica sarebbe appartenuta prima di essere ceduta alla Francia. La stessa sollecitudine verso l’arcipelago di La Maddalena, la diocesi di Ampurias e Civita la ebbe, col nuovo vescovo Michele Pes, venticinque anni dopo, nel 1793, in occasione dei drammatici avvenimenti legati al tentativo di occupazione della Sardegna in generale e dell’arcipelago di La Maddalena in particolare, da parte delle truppe rivoluzionarie franco-corse. Come è noto, in quell’anno, la Repubblica Francese tentò di occupare la Sardegna con due spedizioni militari provenienti dalla Corsica, indirizzate a nord e a sud dell’Isola. In quell’occasione la mobilitazione della chiesa sarda e di tutto il clero fu notevole. Basti ricordare che nel gennaio del 1793 l’arcivescovo di Cagliari, capo dello Stamento Ecclesiastico, non solo spronò insistentemente il viceré Balbiano a meglio predisporre in tutta l’isola migliori ed adeguate difese contro l’invasione rivoluzionaria, ma gli offrì anche un contributo in denaro, garantendogli, se fosse stato necessario, la vendita degli argenti delle chiese di Cagliari.
La necessità di opporsi alle truppe rivoluzionarie francesi che, al passo della “Marsigliese”, si apprestavano a sconquassare anche la Sardegna, si rendeva necessario, per la Chiesa sarda, sia per salvaguardare la monarchia sabauda ed i privilegi feudali ed ecclesiastici che questa garantiva (la maggior parte degli alti prelati erano di famiglia nobile) sia, e per alcuni settori del clero, soprattutto, per respingere oltremare quelle idee di libertà, eguaglianza e fratellanza, allora minacciosamente rivoluzionarie (di portata epocale, che hanno chiuso un mondo per aprire la nostra storia moderna), delle quali oltremodo si temevano gli effetti incontrollabili e le degenerazioni destabilizzanti.
Se le notizie provenienti dal lontano continente francese, concernenti la nazionalizzazione dei beni ecclesiastici, l’obbligo di giuramento del clero alla Costituzione (1790), il ghigliottinamento del re Luigi XVI e della regina (1792), potevano impensierire non poco nobiltà e clero sardo, quelle provenienti dalla vicina Corsica, forse opportunamente amplificate, dovettero sicuramente impressionare anche buona parte della popolazione sarda, quella popolazione che dalla Rivoluzione non poteva trarne, forse, che dei vantaggi.
Del resto il comportamento delle raccogliticce truppe franco-corse, pronte ad iniziare l’invasione della Sardegna, e dei poco raccomandabili equipaggi delle navi, non lasciavano presagire nulla di buono. I saccheggi, i furti, le devastazioni da questi impunemente compiuti in Corsica davano sicuramente ragione a chi temeva la nefasta invasione dei “senza Dio” e, dai pulpiti, chiamava a raccolta le popolazioni per proteggere, armi in pugno, “i muddheri, i fiddholi, i jesgi”. Una relazione del console Baretti al viceré Balbiano del gennaio 1793 denunciava ad esempio che le truppe rivoluzionarie, “nel partir da Bastia, bruciarono la chiesa degli Angeli, dopo aver abbattuto le statue de’ santi e calpestato ciò che vi era più sacro”.
A queste motivazioni a La Maddalena se ne aggiungevano delle altre legate alla peculiarità della propria recente storia. Gli abitanti (circa 800) in gran parte nati in Corsica o figli di genitori corsi, sebbene profondamente legati a quella terra vicina, di là delle Bocche di Bonifacio, nella quale abitavano ancora nonni, zii, cugini, fratelli, della quale parlavano orgogliosamente la lingua e ne conservavano le tradizioni, con l’occupazione militare piemontese e con il passaggio alla nuova condizione di sudditi sabaudi, avevano goduto di una sorta di affrancamento, svincolandosi socialmente ed economicamente dal sistema feudale corso.
La condizione di sudditi del Re di Sardegna oltre a proteggerli dal rischio, sempre presente, di incursioni barbaresche, offriva loro alternative di lavoro legate alla presenza stessa di truppe (fornitura di carni, pesce, prodotti agricoli ecc.), alla costruzione di fortificazioni e locali militari, al piccolo cabotaggio legale e di contrabbando (in qualche maniera tollerato dalle autorità militari), o all’arruolamento stesso sui Reali Legni. Indubbiamente dovettero essere forti, sofferti e contrastanti i sentimenti all’interno della piccola comunità corso-maddalenina e più d’una volta, in molti, avrà prevalso, dirompente, il richiamo del sangue. Di ciò erano ben consapevoli sia alla corte viceregia di Cagliari che presso i comandi militari di La Maddalena. L’invasione della Sardegna era stata insistentemente richiesta dai rivoluzionari corsi sia per fini ideali sia per motivi economici.
I bonifacini, nell’operazione, erano in prima linea, particolarmente auspicando la riconquista dell’arcipelago maddalenino. Da buoni corsi non avevano dimenticato i torti subiti 25 anni prima quando i loro servi e parenti avevano abbracciato senza alcuna convincente resistenza la causa dei Savoia.
Il bonifacino Antonio Costantini, deputato corso a Parigi, fece parecchie pressioni ed una relazione all’Assemblea Nazionale francese per convincerla a votare l’invasione dell’arcipelago maddalenino, sostenendo con forza che “queste isole non sono difficili da conquistare perché gli abitanti, d’origine corsa, saranno lusingati da essere uniti a quest’isola e, di conseguenza, alla Francia”.
Questa convinzione portò probabilmente ad un errore di valutazione da parte francese ed ebbe il suo peso sull’esito della campagna. Il viceré Vincenzo Balbiano dal canto suo, oltre a mobilitare i vari governatori e le varie guarnigioni costiere ed interne, provvide a nominare il nobile Giacomo Manca di Tiesi, comandante generale delle milizie galluresi, con sede a Tempio. Mons. Michele Pes, vescovo di Ampurias e Civita, a sua volta, attribuì al proprio vicario generale, canonico Antonio Spano Azara, il delicato incarico di tesoriere e responsabile del vettovagliamento delle truppe e delle milizie. Compito assolto non senza difficoltà, sia organizzative che di reperimento del fabbisogno necessario.
Alla fine del gennaio del 1793 il vescovo, evidentemente preoccupato per il possibile precipitare della situazione, pubblicò una enciclica con la quale si vietava rigorosamente nella diocesi “l’ingresso de’scritti sediziosi di Corsica”. Fitte corrispondenze dovettero intercorrere in quel periodo tra la curia ed i vari parroci galluresi. A La Maddalena, nel frattempo, il governatore Giuseppe Riccio, oltre a schierare la modesta una squadra navale comandata dal capitano Felice De Costantin (che nella circostanza dell’assalto assunse poi il comando generale delle operazioni), ottenne per rinforzo della guarnigione un centinaio di uomini del contingente svizzero Courten di stanza a Sassari e di oltre un centinaio di miliziani galluresi.
Questi ultimi erano accompagnati ed assistiti dal canonico don Bernardino Pes, giunto a La Maddalena appositamente da Tempio “per incoraggiare ed animare quei volenterosi soldati”, pronti a combattere “per la difesa della nostra santissima religione, piissimo sovrano e patria – e come egli stesso scrisse – disposti a sacrificare la vita in difesa di quel posto”.
La scelta di campo dei corso-maddalenini maturò in maniera convincente per i comandanti militari alla fine del novembre 1792 quando, attraverso il sindaco Giò Batta Zicavo ed altri membri del Consiglio Comunitativo, chiesero che, in vista dell’imminente attacco, i loro familiari venissero fatti sfollare in Gallura. Il governatore Riccio, accolta con sollievo tale richiesta che garantiva senza ombra di dubbio la volontà di resistere all’invasore e metteva al riparo da possibili tradimenti (i familiari dei maddalenini potevano all’occorrenza trasformarsi infatti in ostaggi), fece trasferire in Gallura donne, vecchi, bambini ed ammalati, affidandoli alla non sempre impeccabile organizzazione messa su dal canonico Spano Azara che sistemò un centinaio di sfollati a Tempio (tra i quali la stessa moglie del comandante Riccio) ed una cinquantina a Luogosanto. I maddalenini abili alle armi furono inquadrati in milizie divise in 6 compagnie. Antichi racconti ricordano l’iniziativa del sacerdote Luca Demuro (poi viceparroco di La Maddalena) il quale, con i soldi affidatigli dai maddalenini avrebbe trattato, con i contrabbandieri di Aggius, l’acquisto delle armi indispensabili per la difesa. Si racconta anche che pochi giorni prima dell’assalto francese il parroco Giacomo Mossa avrebbe nascosto, in un terreno nei pressi della stessa chiesa, il modesto tesoro di Santa Maria Maddalena, composto da qualche pezzo d’argento e pochi soldi. La necessità di galvanizzare la popolazione attorno ad un simbolo forte che fosse ideologico e religioso insieme portò il governatore Riccio a chiedere che venisse dipinto uno stendardo da combattimento.
L’allestimento del drappo si svolse in tutta fretta, probabilmente nella stessa chiesa parrocchiale. In esso venne raffigurata Santa Maria Maddalena, patrona dell’Arcipelago, ai piedi del Crocifisso, in atto di protezione sull’Isola. Ai lati una scritta recitava: “Per Dio e per il Re vincere o morire”. Su quello stendardo, fortemente rappresentativo della risolutezza che i difensori intendevano opporre all’invasore e delle profonde motivazioni che li animavano, si racconta che ci fu il solenne giuramento dei capi famiglia combattenti, verosimilmente al cospetto di don Giacomo Mossa, dal 1773 parroco di La Maddalena e regio cappellano della guarnigione militare. Il vessillo sventolò sul forte Sant’Andrea, strategicamente eretto alle spalle dell’abitato, per tutta la durata dell’assalto francese durante il quale lo stesso parroco Mossa, dopo aver sicuramente prestato la necessaria assistenza spirituale ai combattenti ed aver somministrato a chi lo richiedeva, i sacramenti, “assistette al combattimento incoraggiando i difensori”. Di ciò è testimonianza una lettera del viceré Balbiano alla Corte di Torino nella quale, per la inaspettata resistenza opposta agli invasori, si raccomandavano “le sovrani grazie” per gli equipaggi delle navi, per i maddalenini e, appunto, per “il vecchio cappellano Mossa”. La conferma della matrice anti religiosa della spedizione franco-corsa, naturalmente ricordata e rimarcata dal clero presente nell’isola, non poté non essere confermata dalle bombe lanciate contro la chiesa parrocchiale, la stessa chiesa dove pochi giorni prima era stato stretto il patto sacro di difesa. Ad incoraggiare ulteriormente i difensori di La Maddalena, militari e civili, galvanizzandoli sia sull’efficacia della resistenza sia sulle “protezioni celesti” contribuì probabilmente l’episodio della bomba che, sfondato il tetto della chiesa, rotolò senza esplodere ai piedi dell’altare.
Successivamente si appurò che la bomba (lanciata da Santo Stefano, pare dallo stesso Napoleone Bonaparte che, come noto, partecipava all’impresa), era scarica. Sul momento, tuttavia, si dovette gridare al miracolo, alla benefica intercessione della Santa Patrona e, in quel momento sicuramente, né il parroco Mossa, né i comandanti militari si dovettero preoccupare di ridimensionare l’accaduto….! Sull’altra sponda del braccio di mare che separa La Maddalena dall’Isola madre, sull’attuale costa di Palau, erano intanto giunti, appena avuta notizia delle navi francesi, alcune centinaia tra miliziani e volontari, comandati dal cavaliere Giacomo Manca di Tiesi. Provenivano da Tempio, da Calangianus, da Aggius, da Luras, da Bortigiadas, da Monti. Scendendo verso il mare, per i tortuosi sentieri della Gallura, avevano prelevato presso il santuario di Luogosanto, per farne il loro vessillo, la bandiera di lino raffigurante il volto della Vergine. Donata oltre un secolo prima per ringraziamento per lo scampato pericolo da una incursione barbaresca, allo stesso drappo si faceva ricorso nell’invocare protezione per il nuovo pericolo proveniente dal mare. La bandiera di Nostra Signora di Luogosanto sventolò tra gli uomini in armi ed i preti che la custodivano, rassicurante testimone e a sua volta protettrice, di qua del mare, della tenace resistenza di La Maddalena, dell’eroica impresa di Domenico Millelire, della riconquista dell’isola di Santo Stefano da parte delle truppe sabaude e dei volontari galluresi, del completo ritiro della spedizione franco-corsa. La cacciata dei francesi fu salutato non solo a La Maddalena ed in Gallura ma in tutta la Sardegna come un grande evento, coraggiosamente perseguito dai sardi e benevolmente concesso dalla volontà divina. Pochi giorni dopo la ritirata franco-corsa il viceré Balbiano ordinò per “il secondo giorno di Pasqua” un “solenne Te Deum di ringraziamento”, stabilendo che fosse cantato” in tutte le chiese parrocchiali del Regno, con l’assistenza de’ governatori, comandanti, ufficiali e nobiltà, e colle solite parate della truppa…”. Cosa che puntualmente dovette avvenire anche a La Maddalena, solennemente officiato dal parroco Mossa, con gli stendardi esposti, al cospetto dei comandanti militari, dei marinai, dei soldati, dei combattenti maddalenini e della commossa popolazione rientrata dallo sfollamento in Gallura. Quel che per molti maddalenini si festeggiò non fu solo la cacciata degli invasori franco-corsi “senza Dio”, ma anche la loro convincente e duratura adesione al Regno di Sardegna. Cacciati i francesi furono con essi respinte anche le idee che, sebbene contraddittoriamente, essi propugnavano. Libertà, eguaglianza, democrazia erano principi che troppo in anticipo sulla storia volevano attraversare le Bocche di Bonifacio; principi che molto tempo dopo anche la chiesa ha prudentemente elaborato, accolto ed in buona parte assimilato.

C. Ronchi