Almanacco isolanoLa Maddalena Antica

Sèmillante, naufragio nelle Bocche di Bonifacio

Le “Bouche de Bonifacio”, le Bocche, passaggio infernale ha fatto strage di naviganti. In tutti i tempi. La strettoia tra Corsica e Sardegna, larga geograficamente 14 chilometri, si riduce nel punto massimo a poche miglia, disseminata com’è di mini arcipelaghi e scogli affioranti da una parte e dall’altra.
Battuta costantemente da venti che possono facilmente raggiungere forze simili a vere tempeste e da correnti instabili, le Bocche, rappresentano un ostacolo rischioso per chi costretto ad attraversarle, talvolta per la necessità di ridossare sotto le coste isolane.
Centinaia i naufragi, spesso dimenticati. Ma uno è rimasto nella memoria storica, rammentato dalle popolazioni locali che ogni anno dal 1855, ricordano un naufragio con una perdita di vite umane tra le più significanti della storia della navigazione mediterranea.

Nella minuscola Lavezzi, a poche miglia di fronte alla Maddalena, nel febbraio di quell’anno, una di quelle tempeste che si ricordano per la sua inusitata violenza, spinse un possente bastimento da guerra francese sugli scogli facendo strage dell’equipaggio, dei passeggeri e del prezioso carico.
Nell’isola, piatta e deserta, battuta dai venti costanti, abitata da lucertole dal manto verde smeraldo, racchiuso entro mura bianche di calce c’è un piccolo cimitero che raccoglie cinquecentoventidue resti di coloro che furono scaraventati dalla violenza del mare sulle spiagge.
Per gli altri il mare stesso fu la tomba.
La Sèmillante, fregata a tre alberi, una delle sei più potenti navi da guerra di primo rango della Marina Imperiale francese, aveva lasciato l’ormeggio a Tolone il 14 febbraio 1855 alle undici della mattina con un equipaggio di 293 uomini. La destinazione era Costantinopoli, mar Nero 1500 miglia più a sud, dove avrebbe dovuto portare un contingente di 393 militari per rafforzare le forze transalpine che stavano combattendo a fianco di piemontesi, inglesi e turchi contro la Russia.
Oltre all’armamento della possente nave, erano stati caricati quattro cannoni da campagna da 24, sei mortai da 32, dieci mortai da 27, venti affusti da mortaio, centoventi barili di polvere da 50 chili ciascuno, 1500 bombe da 27, viveri ed altro materiale bellico per un totale di 400 tonnellate. Ben al di sotto della normale capacità di carico.

La rotta che il comandate aveva stabilito prevedeva che La Sèmillante avrebbe navigato ad occidente della Sardegna per dirigersi verso Malta e Costantinopoli.

La mattina dopo si trovata già al traverso delle ultime propaggini della Corsica sotto un cielo grigio, con foschia e piovaschi, sbatacchiata da un forte rollio e da un vento di maestrale molto intenso.
Il comandante radunò gli ufficiale nella sua cabina riscaldata da un braciere che spezzava appena il freddo pungente. Spiegò ad alta voce che se la tempesta fosse aumentata di intensità avrebbe dato ordine di deviare verso le Bocche di Bonifacio per mettersi al sicuro dietro l’alta costa della Sardegna.
Nel frattempo le vele dovevano essere terzarolate, i blocchi ai cannoni rinforzati, tutto ciò che era in coperta andava fatto sparire. Il vento aumento ancora di intensità, girando da ovest sud ovest rinforzò. I gabbieri in bilico sui pennoni, inseguiti dal basso dai comandi degli ufficiali raccolsero tutta la tela che si poteva sui pennoni. Il mare, nero e furioso, sbatacchiava la pesante fregata come un fuscello, l’acqua scorreva come un fiume in coperta dove i fanti addossati gli uni agli altri si preparavano al peggio.
La Sèmillante correva impazzita incontrollabile verso l’alta scogliera di Capo Testa e non rimase altro da fare al comandate di dare l’ordine di virare in direzione delle bocche con il minimo di vela possibile.

Una manovra azzardata ritenuta l’unica possibile per potersi salvare. Il tesissimo vento occidentale soffiava proprio nella direzione delle Bocche e spingeva la nave a forte velocità pur con le poche vele che aveva rizzato.
Perché il comandante abbia dato ordine di imboccare quell’infida strettoia con un il vento a poppa, privo di visibilità, senza punti definiti a terra non si saprà mai e si può solo supporre che possa avere avuto avarie a bordo tali da fargli rischiare il passaggio invece di mettersi alla cappa se non mettersi con la prua al vento per allontanarsi dalla costa.
Neppure la successiva inchiesta riuscì a svelare questo mistero.
A Bonifacio l’abate Rocca stava facendo una processione votiva per “le salut des navigateurs”. Erano le dieci di mattina del 15 febbraio. Ogni volta che una grande tempesta si abbatteva da quelle parti era usanza che il mare ricevesse l’acqua benedetta e l’abate, attorniato da qualche fedele, svolgeva la sua funzione con le onde che arrivavano a superare i contrafforti dell piccola cittadina costiera.

Nel turbinio del vento che trasportava un fitto pulviscolo di acqua di mare apparve ai presenti, come un fantasma, la visione indistinta di una nave che rollava sulle onde, come, dirà più tardi, se fosse ingovernabile.

Quasi alla stessa ora dal faro di Capo Testa avvistarono un veliero in navigazione con rotta nord ovest a “secco di tela”. Ha appena doppiato capo Pertusato. Al farista sembra che il pesante vascello sia privo di “governo” e, seguendo quella rotta, pare dirigersi verso la spiaggia nei pressi del faro, dove inevitabilmente farà naufragio. Poi, annota nel diario, che vede “issare un vela sul trinchetto, venire per babordo” ed imboccare le Bocche prima di sparire nella foschia.
La Sèmillante, che rollava all’impazzata, sospinta da un vento di poppa, quel po’ di tela sul trinchetto, la spingeva ad un velocità incontrollabile. La visibilità era ridotta a poche centinaia di metri e con molta probabilità le onde e la schiuma non permettevano di vedere non solo le isole di Lavezzi ma neppure quella miriade di scogli che come una ragnatela le circondano.

Priva di punti di riferimento sulla costa aveva rimontato troppo verso nord. Il comandante non si era reso conto che quella manovra lo portava troppo fuori rotta e ormai priva di velatura con gli alberi abbattuti i cannoni che correndo all’impazzata da una parte all’altra avevano aperto falle nelle murate si infilò, sospinta dalla furia del mare, come una palla di cannone atterrò sulla “roche du Briquet” – scoglio dell’Acciarino, punta estrema sud ovest di Lavezzi, abitata da due pastori con le loro pecore – esplodendo letteralmente sotto la violenza della mareggiata. [Esattamente nel medesimo punto, naufragarono anche il vapore Evénement e il Geneviéve nel 1903, senza vittime.] Non vi è racconto di sopravvissuto a testimoniare quanto accadde. Possiamo solo immaginare il terrore di quei marinai quando davanti ai loro occhi apparvero improvvisamente gli scogli usciti dalla foschia del mare impazzito.
L’urto produsse un’esplosione. Il possente tre alberi si sbriciolò sulla scogliera, maciullando gli uomini e disperdendo il contenuto.
I due pastori hanno udito lo schianto ma non possono avventurarsi fuori dai loro rifugi. Il livello del mare è salito, stentano loro stessi a mettersi in salvo.
Il boato si ode anche a Bonifacio, attutito dall’urlo della tempesta, un vero e proprio uragano. Da Capo Testa la sciagura non visibile per la ridotta visibilità e neppure i faristi di Razzoli si accorgono di quanto è accaduto.

La mattina dopo, la tempesta aveva esaurito in parte le sue forze ed uno dei due pastori scopre un marinaio incastrato sott’acqua fra due scogli.
Quasi nello stesso momento due marinai del bastimento di appoggio dell’ Averne, durante un controllo di routine dopo una tempesta, scoprirono avanzi di vario genere sulla battigia tra cui alcuni fucili, avanzi di divise ed altro appartenuto a militari oltre a quattro mortai a pochi metri di profondità su un fondale granitico.
Ma quello che osservano è molto più straziante oramai avvolto da un odore nauseabondo. Decine e decine di corpi sono sparsi ovunque, molti dei quali nudi, altri galleggiano nell risacca della piccola baia.

Il giorno dopo le autorità marittime di Bonifacio riescono ad organizzare una ricerca dopo aver avvertito anche le autorità sarde. La spedizione è composta da 18 persone oltre ai due pastori che, senza grandi difficoltà, ritrovano sparsi ovunque effetti personali, divise, giubbe, fucili e cadaveri in stato di decomposizione.
Inizia la pietosa opera di seppellire le vittime. Prima una poi dieci, poi cento.
Ciascun uomo verrà avvolto in una coperta e messo sotto la terra dell’isola di Lavezza. Poi più tardi verrà eretto un muro a secco a racchiudere le moltissime tombe.

Solo il 5 di marzo verrà ritrovato il corpo del comandante Jugan (sui documenti francesi è scritto Jugand; sulla targa Jugan), unica vittima di cui è stato possibile il riconoscimento grazie alle insegne che adornavano il suo cappotto d’ordinanza e la malformazione di uno dei suoi piedi.
Il 20 marzo le vittime sepolte nei due improvvisati cimiteri da una guarnigione militare appositamente inviata saranno 582 su un totale di 685 imbarcate sulla fregata di prima classe Sèmillante.

Da aprile a tutto agosto una compagnia di palombari genovesi si incarica del recupero di quel che rimane del vascello sparso a dodici metri di profondità. Riportano a galla 477 metri cubi di legno di ottima qualità che sarà venduto all’incanto a Bonifacio oltre a materiale militare che viene spedito a Tolone.

Il 23 febbraio con un dispaccio urgente il prefetto marittimo di Tolone è avvisato della catastrofe e solo il 28 verrà pubblicata sul quotidiano Monitor. La tragedia fece talmente eco in tutta la Francia che ovunque ci si appresta a fare una colletta pubblica con cui si raccolgono 60.000 franchi a cui Napoleone III e l’Imperatrice ne aggiungeranno altri dieci mila.

L’inchiesta del Ministero della Marina si concluderà in un nulla di fatto.
Le molteplici testimonianze rese sia da parte corsa sia sarda porteranno a comprendere che il pur apprezzato comandante de La Sèmillante commise un errore madornale che non gli neppure addebitato perché le condizioni meteomarine in quel momento erano oltre ogni norma. La velocità del vento, dichiararono a Bonifacio, superava i 60 nodi. Semmai non si comprende come mai, partita con vento a 20 nodi di mistral, a La Sèmillante non fu data una rotta all’altezza di Capo Corso che la dirigesse verso il bacino interno del Tirreno, in modo da potersi ridossare e mettersi al riparo in qualche porto.
La perdita di un numero così alto di soldati e marinai si potrebbe ascrivere solo ad un errore umano se non vi fosse la storia assurda della nave stessa, rimasta in bacino di armamento per diciassette anni in attesa di completamento, l’urgenza di avere truppe fresche in Crimea ed il colera che stava facendo in tutta Europa un numero altissimo di vittime. Colera che forse si era già sparso a bordo de La Sèmillante.

A ricordo del naufragio nel 1856 il Genio Militare di Bonifacio eresse una piramide in granito alta dieci metri sugli scogli dell’Acciarino. Una targa ricorda i deceduti ed i dispersi del naufragio avvenuto a causa di una tempesta il 15 febbraio 1855.