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Squarciò – Capitolo IV

Squarciò, romanzo di Franco Solinas

Quando Squarciò andava a casa, a qualsiasi ora, c’era sempre Rosetta ad aspettarlo. Rosetta, che sorrideva sempre.

Per venti anni di matrimonio, quando Squarciò tornava Rosetta era sicura che avrebbero fatto l’amore. Nessun altro uomo al mondo, secondo lei, poteva fare così bene l’amore come Squarciò. Ma non per quello soltanto la vita di Rosetta era stata ed era ancora felice. Anche per lei c’era la casa costruita sul molo e i quattro figli che avevano fatto nascere, figli sani e forti come nessuno ne aveva in tutta l’isola. Si preoccupava solo per le bombe, ma neanche tanto perché aveva troppa fiducia di Squarciò, e non ne parlava perché sapeva che a Squarciò dava noia.

Una volta sola ne avevano parlato. Squarciò tornava da pesca, e portava un delfino con la pancia piena di uova, che a Rosetta piacevano, dopo essiccate, tagliate a fette sottili con olio e limone.

Rosetta sorrideva, anche se subito disse: – È morto Zerro.
Squarciò si fece scuro. – Come? – chiese.
– Sembra la miccia troppo corta. Non ne aveva altra, e c’era troppo fondale –. Poi Rosetta aveva cambiato discorso.
– Sai, – aveva detto – a Angelo è spuntato un altro dente.
– Quando è morto? – aveva chiesto Squarciò.
– L’hanno rimorchiato a mezzogiorno quelli del peschereccio.

Andava alla deriva.

Squarciò uscì subito. In piazza non parlavano di altro.

Gaspare gli disse passando: – Hai visto che è morto?
Squarciò riuscì a stento a frenarsi. – Sei contento? – gli chiese. – Mica è merito tuo se Zerro è morto.

Nel bar, c’erano Treddenti e Santamaria. Squarciò seppe come era successo, e si stupì che Zerro avesse potuto commettere un errore così stupido. Bevvero insieme un bicchiere, poi Squarciò disse: – Meno male che non aveva famiglia!
– Meno male che nessuna lo ha mai voluto sposare – disse Treddenti.
– Proprio una fortuna che fosse brutto come te! – disse Santamaria, e Squarciò si sentiva già meglio e tornò a casa.

Rosetta gli mostrò il nuovo dente di Angelo, poi sedettero a tavola. C’erano anche Diana, Antonino e Bore, che appena mangiato andarono a letto.

Squarciò disse ancora: – Meno male che non aveva famiglia.
– Meno male – disse Rosetta, poi prese il fiasco e versò da bere.

Bevevano sempre insieme prima di coricarsi. Rosetta quasi non parlava: diceva sì o no, a meno che non bisognasse proprio dire qualche altra parola. Era Squarciò che parlava sempre e che sempre aveva qualcosa da raccontare.

Poi si fermava d’un tratto. – Ma questo te l’ho già detto?
– chiedeva, e Rosetta diceva sempre di no, anche se lo aveva già sentito altre volte.

Una vecchia abitudine quella di bere un po’ insieme prima di andare a coricarsi. Poi, a letto, Rosetta diceva immancabilmente:
– Sarai stanco… – e Squarciò rideva e le si avvicinava lentamente. Finché facevano l’amore, e alla fine Rosetta piangeva da quanto era felice.

«Ecco, – pensava spesso Squarciò – così dovrebbe essere la vita di ogni uomo». E difficilmente pensava che il suo era un mestiere illegale. No, ma una specie di sfida fra lui e Gaspare, un fatto personale e nient’altro. Si impoverisce il mare? È tanto grande! E l’importante era pescare lontano, dove quelli dei quali lui sapeva i nomi e le famiglie non arrivavano mai.

Così pensava Squarciò, ed era felice del suo mestiere, quelle mattine di primavera quando l’avvicinarsi dell’alba segnava appena di viola l’orizzonte, e la foschia appannava il mare calmo come un respiro caldo fa su uno specchio.

Quelle mattine uguali a poche altre, con l’aria che entrava a forza nei polmoni e sapeva di mare. Quelle mattine benedette perché sembrava impossibile che un mare così trasparente non fosse generoso di pesce.

Squarciò navigava fuori dell’arcipelago. La prua trovava dolcemente la strada, e il mare si apriva davanti a lei in modo così facile e netto che sembrava non avrebbe mai più potuto ricongiungersi.

Bore aveva appena compiuti dieci anni. Di lui si vedeva soltanto la testa spuntare dalla stretta buca da dove regolava il motore secondo gli ordini del padre. Antonino aveva tredici anni, e stava sdraiato sulla prua a badare alle secche del fondo. Squarciò era al timone. Così navigava La Speranza, la vecchia barca abbastanza veloce per andare più in fretta dei finanzieri.

Da poco tempo Squarciò aveva un equipaggio. Prima, se ne andava da solo. Si fidava soltanto dei suoi figli, ora che erano già grandi e dimostravano di essere fatti della sua stessa pasta. E doveva essere così se nessuno all’isola li chiamava Bore o Antonino, ma figli di Squarciò. E quando si trattava di rivolgersi a loro direttamente li chiamavano addirittura Squarciò.

Squarciò chiamavano Bore, e Squarciò Antonino: e veniva facile tanto essi somigliavano al padre. La stessa faccia, gli stessi capelli aridi e corti col ciuffo che tornava insistentemente sulla fronte, la stessa forma del torace squadrata come una cassa, la stessa maniera un po’ impacciata di camminare con le piante dei piedi ben appoggiate sulla terra. E gli occhi, poi: avevano gli stessi occhi di Squarciò. Gli occhi, già piccoli, che egli teneva sempre appena schiusi, così che di essi era possibile afferrarne appena un brillio rapido come di cosa che splenda di nascosto. Abituati sempre a guardare troppo lontano, abituati a trascurare i vasti panorami per coglierne soltanto l’essenziale, l’unico particolare importante, erano gli occhi di Squarciò: e soltanto chi vide lui morto, con le palpebre spalancate, poté conoscerne il vero colore.

A cento metri da un molo naturale di granito, Squarciò disse a Bore di rallentare. A venti metri, gli disse di spegnere.

L’acqua smise di gorgogliare sotto il timone, e la barca andò avanti sempre più lentamente spinta dall’abbrivo.

Finché Antonino saltò a terra, allontanando coi piedi la murata perché non sbattesse. Attraccarono.

Da una buca di roccia coperta da cespugli, Squarciò tirò fuori una cassa metallica. Dentro c’era un pacco di tritolo, fettucce di balistite, detonatori e un gomitolo di miccia.

Quando Squarciò aveva preparate le bombe, Bore rimetteva in moto il motore, e Antonino tornava a prua. Secondo il vento, secondo la stagione, navigavano a ponente o a levante, ridossati alla costa o in vista del mare aperto.

Poi Squarciò diceva: – Spegni! – e la barca s’andava fermando lentamente. Antonino fissava i remi agli scalmi.

Squarciò si accendeva una sigaretta, poi metteva lo specchio in acqua e guardava. Bore e Antonino vogavano secondo i gesti del padre, Squarciò guardava il mare attraverso la lastra di cristallo.

Praterie di erbe tenere e verdi, savane deserte, picchi, grotte, precipizi, foreste intricate di rami, fiori che si accendevano all’improvviso come stelle di vetro su un albero di Natale: là, mille vite attente e disperate, mai ferme, o immobili soltanto per aspettare la preda, giocavano la loro esistenza. Tutto in silenzio, non un suono, una voce, una distratta goffaggine. I colori, che noi diciamo nero verde giallo amaranto, non erano così, ma senza nome, inventati dal mare. Squarciò guardava attraverso lo specchio, e se vedeva uno sciame di cefali o di spigole, o anche un pesce solo ma così grande da pagare una bomba, sollevava la mano.

Bore e Antonino puntavano i remi per arrestare la barca.

Secondo il fondale, Squarciò sceglieva la sua bomba e misurava la miccia. L’accendeva con la brace della sigaretta.

La faceva ardere bene. Poi la posava sul mare, senza lanciarla, la posava dolcemente sul mare. Bore e Antonino riprendevano in fretta a vogare. La bomba, intanto, scendeva lentamente, mentre la miccia bruciava di dentro secondo il tempo giusto pensato da Squarciò. Ed ecco il mare sollevarsi in cerchio con un boato sordo, compresso.

L’acqua gorgogliava come se un’immensa turbina l’agitasse dal fondo. Solo per poco, perché una leggera maretta distendeva di nuovo la superficie, che tornava immobile e trasparente.

Allora l’ansia negli occhi di Squarciò, e Bore e Antonino chini sui bordi, e i primi pesci salire lentamente con le pance bianche in superficie.