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Squarciò – Capitolo X

Squarciò, romanzo di Franco Solinas

Sembrava impossibile a Squarciò. A cinquant’anni, la vita dovrebbe ormai essere calma, uguale, senza più scosse. Né meglio né peggio dovrebbe essere, ma soddisfatta e tranquilla. Ora si trattava invece di cominciare da capo.

Peggio, come quando si comincia a vivere ereditando dal proprio padre un cumulo di disgrazie. Non era soltanto senza barca, Squarciò: ma aveva da pagare un motore nuovo, il motore più bello e più veloce che costava un anno di buona pesca. Egli doveva ancora pagarne quasi metà di quel motore, che ora stava in fondo al mare sotto venti metri di acqua.

Quando aveva la barca, e quando a tutte le ore sarebbe potuto partire per la pesca, bastava che Squarciò chiedesse una somma perché il grossista avrebbe anche impegnato il magazzino pur di prestargliela. Ma adesso no.
Adesso non c’era garanzia. Squarciò non aveva più niente se non una grande rabbia che cresceva fino a dominarlo.

La prima cambiale andò in protesto. Poi venne l’ufficiale giudiziario a cercare il motore. Squarciò disse che il motore non c’era più e non c’era più la barca, perché altrimenti la cambiale non sarebbe andata in protesto. Allora l’ufficiale giudiziario andò nella casa di Squarciò per mettere i sigilli.

Così lo trovò Squarciò, quell’ometto piccolo con la cravatta, che inventariava il tavolo, la credenza, la macchina da cucire di Rosetta.

Che cosa conta una settimana, o anche un mese, nella vita di un uomo?

Per un mese gli si può levare la casa che costa cinquant’anni? E ha tanta fretta l’Ansaldo, e può fallire se si ritarda a pagare una rata? Squarciò avvertiva confusamente il senso di tutto questo. La casa no.

Dovevano levar via quelle mani dalla sua casa! Rosetta non riuscì a trattenerlo. Squarciò aveva agguantato per la vita il piccolo pubblico ufficiale e lo trasportava di peso alla porta. Lo sbatté fuori. Rosetta lo raccolse dall’ultimo gradino. Lo supplicò, spiegandogli tante cose e troppo in fretta. Quasi lo costrinse a rientrare in casa, dove disse a Diana di preparare un caffè.

Era un brav’uomo, quell’ufficiale giudiziario. O forse aveva ancora paura, perché, con il suo mestiere, non si sa mai che cosa può capitare. Alla fine promise di dimenticarsi di tutto meno che della cambiale in protesto.

Finiva l’estate. Nell’aria appena intiepidita dal sole si avvertivano i primi umori dell’autunno. Le luci erano attenuate, e così le ombre. Era il tempo dei ricci. I ragazzi ne offrivano a cesti, spaccati a metà, col frutto stellato nel nero lucido del guscio. Sarebbe stato bello gustare quella quiete e quell’aria, magari seduti sui massi tiepidi del molo, e non pensare a niente, concedendosi alla dolce pigrizia che è giusta in questi pochi giorni dell’anno.

Perfino la rabbia di Squarciò si immalinconiva in quell’aria.

Il suo sguardo indugiava su quei luoghi noti, sulle cose ciascuna a suo posto come da tanto tempo. Le barche ormeggiate, i cassoni delle aragoste, le velature strette sui pennoni, la vecchia carcassa di un barcone, nera di catrame, tirata in secco sui sostegni.

Ormeggiato poco distante, c’era un panfilo di sedici metri. Squarciò l’aveva visto entrare in porto la sera precedente.

Ora lo guardava, pensando che su di una imbarcazione del genere si poteva attrezzare un frigorifero e arrivare fino alle coste pescose d’Africa senza nessun pericolo.

Passò davanti al magazzino del pesce. Il grossista finse di non vederlo. Più avanti, sul marciapiede, c’erano pescatori che aggiustavano le reti. Squarciò si ricordò di suo padre.

Qualche anno prima, gli aveva comprato un pezzo di terra al cimitero, e lo aveva fatto portare là dalla fossa comune dove era rimasto fino allora. Gli aveva pagata una bella lapide, e due volte all’anno Rosetta ci andava a portare i fiori.

Incontrò il maresciallo sulla piazza, e non si erano ancora visti da quando aveva affondato la barca.

Non cercò di evitarlo. Il maresciallo gli chiese:
– Dove hai la barca, Squarciò?
– Non ce l’ho – gli rispose.
– Non potevi venderla. Sul motore c’è il privilegio dell’Ansaldo.
– E non l’ho venduta. L’ho imprestata a un mio amico forestiero, che è andato a farsi un viaggio.
– Lo sai che non ti credo.
– Lo stesso, maresciallo. Anche se non mi crede è lo stesso. Non può farci niente.
– Peccato. Non faremo più le corse.
– Chi lo sa, maresciallo. Quel mio amico potrebbe anche tornare.
– È un palombaro, il tuo amico?
– Un palombaro? E perché?
– Niente, pensavo così. È un peccato anche per me che qui non si trovi uno scafandro.
– Se ne trovo uno, glielo farò sapere – disse Squarciò, ma non gli riusciva più a rispondere bene come una volta.

Nella bettola, c’era solo Santamaria con la manica destra vuota infilata nella tasca. Ci era già stato il processo, e il maresciallo Riva gli aveva risparmiato il carcere. La licenza gliela aveva soltanto sospesa, tanto era sicuro che, con un braccio solo, Santamaria non avrebbe più pescato con le bombe. Ma, fra qualche tempo, la sua barca sarebbe stata messa all’asta per conto della Finanza.

Santamaria beveva vino e sembrava invecchiato di altri dieci anni. Squarciò avrebbe preferito non vederlo. Non sapeva che dirgli. Gli chiese di Treddenti.
– È sparito, – disse Santamaria – starà sempre con quella. Credo che non vada più a pescare perché ha paura di cacaspiagge. Ci ha fregato tutti, eh? – Voi sarete stati fregati – gli rispose Squarciò. – Per me è sempre un cacaspiagge.

Tornò a casa. Rosetta aveva preparata la cena, c’erano tutti e mangiarono in silenzio. Era un po’ di tempo che Rosetta pensava di essere rimasta incinta, ma non ne disse nulla a Squarciò.

Non c’era nessun altro lavoro, e, se ci fosse stato, era troppo tardi per cominciarlo. Né Squarciò poteva andare con le reti a pescare per conto di altri. Come era stato impossibile per suo padre cambiare il mestiere che durava una vita, così lo era adesso per lui.

Pagò la cambiale andando a pescare dalla costa. Gettava bombe dalla costa dell’isola, e si sentiva un ladro qualunque. Si vergognava davanti a Bore e Antonino di quei pochi pesci ammazzati troppo di nascosto. Bastarono per la cambiale, ma chissà se sarebbero bastati il mese venturo e quello dopo. Intanto, a casa, non sempre si mangiava due volte al giorno. Squarciò pensava al suo motore sotto venti metri di acqua. Pensava che non aveva un mezzo per ricuperarlo, e che, comunque, non avrebbe avuto la barca.

Ma neanche dalla costa poté pescare per molto tempo.

L’ultima volta, sembrava una buona giornata e un buon posto perché il mare andò subito ricoprendosi di tanto pesce che Squarciò temette non bastasse il suo unico sacco a trasportarlo.

Bore e Antonino si tuffarono in acqua. Cominciarono a nuotare avanti e indietro fra il mare e la costa, dove Squarciò metteva il pesce nel suo grande sacco.

Il sole era appena salito sull’orizzonte. Squarciò pensava che se i ragazzi facevano alla svelta in un’ora potevano tornare al paese. Pensava così quando risuonarono i tonfi di più remi e all’imboccatura della rada apparvero due barche di pescatori. Avevano stesa la sciabica in modo da chiudere dal largo l’insenatura, e ora avanzavano, una barca per lato, trascinando la rete dalle due estremità. Erano a meno di cento metri dal fondo della baia.

Squarciò avrebbe potuto andarsene, avrebbe potuto chiamare i ragazzi e andarsene via con tutto il pesce raccolto.

Ma sarebbe stato fuggire davanti a gente come lui e che conosceva. Per un attimo, Squarciò provò vergogna, ma non aveva mai avuto paura. Si mise ad aspettare, e i pescatori continuarono il loro lavoro sicuri che Squarciò avrebbe fatto così e li avrebbe aspettati.

Bore e Antonino avevano ormai presi tutti i pesci. Le due barche si avvicinavano lentamente, in linea orizzontale, mentre i pescatori raccoglievano la rete. Erano sei pescatori, tre per barca, e il più anziano era Vincenzo Spagnolo.

Quando furono sotto costa, l’ultimo pezzo di rete teso fra le due barche mostrava i pesci morti che non erano saliti in superficie. Ce n’erano di piccolissimi, rimasti impigliati chissà come fra le maglie della rete.

Spagnolo ne prese una manciata e la tese a Squarciò.
– Li vuoi? – gli disse.
Squarciò scosse la testa, e ormai sapeva come sarebbe andata a finire.
– Non li vuoi? – insisteva quello.
– Non so che farmene.
– Ma sono tuoi. Li hai ammazzati tu. Noi non avremmo mai potuto prenderli.
– Non ho voglia di scherzi! – disse Squarciò chinandosi per prendere il sacco.

Ma non scherzava il vecchio, e indicando il sacco continuò:
– Quelli invece son nostri. Li avremmo presi noi con la rete. Devi darceli, Squarciò!

Anche adesso Squarciò avrebbe fatto a tempo ad andarsene prima che quelli scendessero dalle barche. Ma non lo fece, e Bore e Antonino furono contenti di questo, e gli si misero accanto, ancora intirizziti per tutto il tempo che erano stati in acqua.

Squarciò diceva: – Perché non venite a prenderveli?
– Siamo in sei – disse un pescatore.
– Dacceli, – disse un altro – lo sai che hai torto.
Squarciò disse:
– Bella prova in sei contro uno! –. E Bore e Antonino ci rimasero male e fecero un passo avanti per mostrare che c’erano anche loro.
– Abbiamo anche lavorato in sei – disse il vecchio.

Le due barche si erano accostate agli scogli. I pescatori scesero e andarono verso Squarciò.

Squarciò mise il sacco contro una roccia e ci si piantò davanti pronto a difenderlo. Stava per battersi, e non pensava ad altro. Non pensava di chi era il torto, ormai non gli importava. Stava per battersi per quel sacco di pesce che aveva pescato con i suoi figli, nel modo che aveva scelto  lui, e non poteva permettere che altri glielo prendessero.
– Ci rovini il mare – gli gridò un pescatore.
– Ladro! – urlò un altro.

Squarciò lo colpì al mento con un pugno rapido e pesante.

L’uomo cadde all’indietro. Gli altri si strinsero intorno a Squarciò, che sembrava una roccia tanto  riusciva ancora a rimanere in piedi. Si difendeva e attaccava non come un uomo, ma come una bestia selvaggia. Fra i colpi, suonava anche il suo respiro che gli scuoteva il petto.
Durò quanto nessuno mai avrebbe potuto resistere. E quando cadde, cadde sul sacco con le braccia allargate come per difenderlo. I pescatori smisero subito. Anche quelli segnati dai colpi più duri smisero quando Squarciò cadde come morto. Bisognò soltanto tenere fermi Bore e Antonino, che non volevano arrendersi e si scagliavano a testa bassa come tori.

Spagnolo prese il sacco e lo portò sulla barca. I pescatori se ne andarono, remando lentamente verso il largo.

Quella sera, Rosetta ebbe paura. Ma neanche allora fece domande.

Preparò un recipiente d’acqua e sale, e si avvicinò al marito per levargli il sangue. Neanche Squarciò disse niente. Poi, per la prima volta, fu irritato dal silenzio di Rosetta che non faceva domande.

Lo irritarono i suoi sguardi e le sue premure, ma perché aveva vergogna del proprio stato e temeva che lei lo immaginasse sconfitto.
Quella sera, mentre Rosetta si avvicinava con il catino d’acqua e sale,

Squarciò le gridò contro come se la colpa fosse stata di lei.
– Stai male – gli disse solo Rosetta. Ma Squarciò continuava.
– È meglio essere soli. Se uno rischia, quando paga paga lui solo e basta.

Un uomo non può avere moglie e figli se è nato povero. Come non può comprarsi un aeroplano, così non può avere moglie e figli un uomo che è nato povero.

In osteria sapevano tutti cosa era successo. Nessuno lo salutò per primo, e Squarciò non salutò nessuno.

A un tavolo, c’era Santamaria che beveva. Era sempre solo e beveva per questo, e questo non era proprio l’ideale che aveva detto Squarciò.

Santamaria chiamò Squarciò dal suo tavolo, e gli chiese cento lire per un altro litro.