La Maddalena AnticaTriennio rivoluzionario sardo

Un riformismo che non rinnova

Un riformismo che non rinnovaA partire dal 1759 il re di Sardegna Carlo Emanuele III affidò al conte Giambattista Lorenzo Bogino (1701-1784), ministro della Guerra, anche la gestione degli Affari della Sardegna. Iniziò così per l’isola un periodo di riforme, variamente giudicato dagli storici, che però ebbe il merito di iniziare quella stagione, che viene definita del riformismo sabaudo. Tra gli storici più vicini a noi, Carlino Sole ha definito la politica riformatrice del Bogino come “un riformismo che non rinnova”, mentre Girolamo Sotgiu ha usato la definizione di “razionalizzazione senza riforme”.

In effetti i sovrani sabaudi, attraverso il ministro Bogino, avviarono una serie d’iniziative mirate sostanzialmente a trasformare l’economia feudale in un’economia di mercato attraverso la creazione della proprietà perfetta, creando così un moderno ceto borghese contrapposto a quello feudale, ad infondere nuova linfa vitale nella cultura attraverso la riforma delle due Università di Cagliari e di Sassari, a creare organismi di credito agrario che consentissero agli agricoltori di apprendere nuove e più moderne tecniche di conduzione agricola e a sottrarre ai feudatari il governo delle comunità locali.

I principali provvedimenti di riforma attuati dal Bogino furono fondamentalmente tre:

1) La riforma delle due Università di Cagliari e di Sassari a partire dagli anni 1764-65, emanando nuovi statuti e mandando ad insegnare in esse dei professori di vasta cultura e di chiara fama provenienti dal Continente. Tra questi ricordiamo Gian Battista Vasco, uno tra i più importanti illuministi italiani, che insegnò a Cagliari tra il 1764 e il 1767, il quale utilizzava nelle sue lezioni anche gli articoli dell’Encyclopédie di Diderot e d’Alembert; Francesco Cetti, che insegnò all’Università di Sassari e scrisse un’interessante Storia naturale della Sardegna, sull’esempio dei grandi naturalisti del settecento Linneo e Buffon; Francesco Gemelli, anch’egli docente dell’Università di Sassari, che ci ha lasciato un’opera in due volumi intitola Rifiorimento della Sardegna proposto nel miglioramento di sua agricoltura (1776), nella quale egli proponeva il superamento della sistema feudale in Sardegna seguendo l’esempio dell’Inghilterra dove, a partire dal secolo XVI, si era passati dal sistema degli “open fields”, che prevedeva l’uso comune delle terre, tipico del sistema feudale, alla creazione della “proprietà perfetta”, capace di sfruttare in modo intensivo la terra e quindi di produrre non per la sussistenza ma per il mercato.

2) La creazione dei Consigli comunitativi nel 1771: fino ad allora i Comuni erano governati dai feudatari; con l’Editto 24 settembre 1771 i feudatari erano estromessi dal governo dei Comuni, che erano affidati ai rappresentanti di tre classi in cui era suddivisa la popolazione dei paesi in base al censo, ma in pratica erano capeggiati dai nuovi ceti dei prinzipales (ricchi pastori e agricoltori) e della piccola nobiltà, che possiamo vagamente assimilare ad una nascente borghesia delle campagne, ceti che erano in contrapposizione con i feudatari assenteisti e con la rapace burocrazia feudale, capeggiata dai podatari, che erano gli amministratori dei feudi.

3) La riforma dei Monti frumentari e la creazione dei Monti nummari, ad opera del vicerè Des Hayes, con un Pregone del 1767: in ogni villaggio era istituito una specie d’ufficio di credito agrario, detto appunto Monte, attraverso il quale si davano in prestito le sementi o delle somme per l’acquisto degli attrezzi da lavoro o degli animali da lavoro agli agricoltori che ne facevano richiesta ad un tasso d’interesse molto basso. In questo modo si promuoveva l’agricoltura e si sottraevano gli agricoltori agli usurai che praticavano tassi d’interesse sui prestiti molto alti.

Le riforme avviate in Sardegna erano abbastanza simili a quelle che il re Carlo Emanuele III aveva attuato, sempre attraverso il Bogino, anche in Piemonte, dove esse diedero inizio ad un graduale processo di trasformazione dell’economia rurale, creando un nuovo ceto d’agricoltori, di commercianti e di piccoli capitani d’industria.

In Sardegna, nonostante l’impegno del Bogino, l’opera riformatrice fu meno incisiva che nel resto del regno sabaudo; questo anche perché i sovrani sabaudi si dimostrarono in più occasioni assai restii ad investire grandi risorse in un’isola così remota e con prospettive limitate.

Nel periodo del riformismo boginiano va ricordata in particolare l’opera del vicerè Des Hayes, sopra ricordato, che nel 1770 effettuò un viaggio in tutti i paesi della Sardegna, di cui studiò le condizioni economiche, politiche e sociali, che raccolse in una Relazione che costituisce un importante documento per comprendere la reale situazione dell’isola e dalla quale è possibile desumere tutti i limiti dell’azione riformatrice del periodo boginiano (1759-1773). Il vicerè Des Hayes registrò, infatti, che in diverse aree, in particolare in quelle interne, persistevano abusi feudali e faide che difficilmente riuscivano ad essere arginate; mancavano collegamenti viari; l’agricoltura, nonostante avesse ottenuto un certo miglioramento dovuto all’istituzione dei Monti Frumentari, era ancora arretrata a paragone delle altre regioni; persisteva il banditismo, facilitato dall’omertà e dalla protezione del clero e dei nobili; si riscontravano ingiustizie nell’esazione delle tasse.

L’opera del Bogino, infatti, non riuscì a superare l’anacronistica struttura feudale, a costruire vie di comunicazione, a sfruttare le risorse minerarie dell’isola o ad impiantare industrie (ogni tentativo di creare cartiere, saponifici, vetrerie e tintorie andò fallito). Complessivamente si trattò di un tentativo di riforma assai limitato, con interventi che non incisero in profondità nelle strutture economiche e politiche dell’isola a causa del loro carattere frammentario, ma anche a causa dell’estrema arretratezza del territorio e delle sue popolazioni, che non consentirono un effettivo mutamento.

Tuttavia sono da sottolineare soprattutto i risultati ottenuti nel campo dell’istruzione. A partire dal 1759 Bogino impose nelle scuole elementari la lingua italiana come ufficiale; ogni docente avrebbe dovuto insegnarla partendo dalla lingua sarda e non più da quella spagnola (questo cambiamento mostra la volontà del governo sabaudo di sottrarre la Sardegna dall’area d’influenza culturale spagnola, per inserirla in quella italiana. Inoltre, nelle scuole primarie fu vietato l’uso delle punizioni corporali.

Nell’ambito dell’istruzione universitaria, a Cagliari fu istituita la prima scuola di chirurgia, la cui cattedra fu affidata all’insigne professor Michele Plaza: tale scuola nel giro di qualche anno fu in grado di preparare medici validi e capaci di effettuare operazioni chirurgiche.
Sia a Cagliari che a Sassari, sedi delle due università isolane, i rispettivi edifici furono ristrutturati e dotati di apposite strutture scientifiche; le cattedre furono affidate all’esperienza d’illustri professori piemontesi: oltre ai tre che abbiamo ricordato sopra, sono da segnalare anche il Gagliardi, il Berlendis e lo Hintz, illustri letterati.

I corsi di laurea esistenti nelle due Università erano: Teologia, Leggi, Medicina e Filosofia; mancavano del tutto insegnamenti d’economia politica, disciplina molto coltivata tra gli illuministi francesi e italiani.
Il governo delle Università era affidata agli arcivescovi delle due città, che fungevano da Gran Cancelliere, e al Magistrato sopra gli Studi, coadiuvato dai Rappresentanti del Governo e del Consiglio Civico, dai Prefetti delle Facoltà, da un Censore, da un Tesoriere e da un Segretario.

Come riconosce lo storico Carlino Sole, le due università riformate ebbero un ruolo molto importante nella formazione di una classe d’intellettuali sensibile alla cultura di respiro europeo del secolo dei lumi; “da questi due atenei – egli scrive – uscirono uomini della levatura di un Simon, di un Angioy, di un Azuni”.

Sempre durante il periodo boginiano, a Cagliari fu istituito un archivio di stato e una stamperia reale per la pubblicazione di libri scolastici e atti governativi; furono inoltre istituite le biblioteche universitarie di Cagliari e di Sassari, che furono arricchite d’opere scientifiche e di testi classici, cui si sommeranno opere a stampa e manoscritti d’inestimabile valore provenienti dalle biblioteche dei gesuiti dopo che quest’ordine fu soppresso nel 1773.

Per quanto riguarda le scuole inferiori, denominate scuole di latinità, esse erano interamente gestite dai religiosi degli ordini degli Scolopi e dei Gesuiti. Questi ultimi avevano una visione elitaria della cultura ed accettavano nella propria scuola solo i figli dei nobili e dei ceti più abbienti; gli Scolopi, invece, le cui scuole avevano un carattere più popolare, accoglievano gli alunni provenienti dai ceti meno abbienti.

Figura caratteristica di questi studenti più poveri era quella dei cosiddetti “maioli” (figli di poveri paesani che pur di continuare gli studi si adattavano a lavorare alle dipendenze dei nobili, adibiti ai servizi più umili, in cambio di vitto e alloggio).

Alcuni di questi non riuscivano però a seguire gli studi e a migliorare la propria condizione: diventavano così degli sbandati e degli indisciplinati, che spesso creavano problemi d’ordine pubblico (il termine “maiolo” significa, infatti “discolo” o anche “mascalzone” e si distinguevano per la rozza foggia del vestito: una specie di soprabito bisunto sovrastato da un cappuccio a forma d’imbuto). Altri invece riuscivano a terminare gli studi e diventavano ora notai, ora precettori dei figli dei nobili, elevando così il proprio status sociale ed economico.