Vita di mare
La comunità dei pescatori all’inizio del secolo era divisa in due gruppi principali, puteolani e ponzesi, e in altri meno numerosi, come i cetaresi e i siciliani, che mantenevano insieme alle abitudini derivate dai diversi luoghi di provenienza, una netta differenziazione degli attrezzi da lavoro. Si erano stanziati, cercandosi l’un l’altro man mano che arrivavano, i primi a “Abbass’a marina”, i secondi a “U Molu” (Cala Gavetta), gli altri, seguendo il destino delle minoranze, senza una localizzazione precisa, ma il più possibile vicino ala mare. I puteolani occupavano la lunga fila di vani a pian terreno dell’attuale via Amendola (allora via Nazionale), e saltando il lungo cordone di via Garibaldi, le zone immediatamente retrostanti.
La porta di casa, un’anta divisa trasversalmente in due sportelli fissati all’interno da un gancio strutturato come un grande triangolo con un lato a muro, si apriva a volte sotto un arco, che ospitava gli attrezzi da lavoro, al riparo del quale le donne occupavano le lunghe ore di assenza dei mariti dipanando le matasse di cotone su rudimentali arcolai o facendo le reti. La stanza stanza, oggi la chiameremmo un monolocale, era occupata in un angolo dai fornelli a carbone e qualche volta dal forno, dai letti con testiere di ferro e da un comò sul quale facevano bella mostra di se le immancabili immagini dei Santi ai quali, nelle lunghe ore di attesa del ritorno delle barche, le donne rivolgevano le loro fervide preghiere promettendo i loro voti.
In quasi tutte le case, la note, ardeva davanti alle sacre immagini un lumino ad olio. L’abitazione era normalmente insufficiente per i componenti della famiglia, quasi sempre numerosa, che poteva però contare su una dipendenza a tutti gli effetti della casa, distante da questa pochi metri: la barca, sulla quale dormivano i ragazzi più grandi finché non creavano una loro famiglia sposandosi e lasciando così il posto ai fratelli minori. la strada, molto più stretta di quella attuale, finiva senza marciapiede sul mare con un molo rudimentale di pietre a secco che contenevano a mala pena la forza delle onde tant’è che qualche sciroccata faceva arrivare gli spruzzi fin dentro le case: e sulla banchina, considerata quasi un cortile di pertinenza degli abitanti, si disponevano in lunghe file le reti ad asciugare, si riparavano i buchi prodotti dagli odiati delfini o da altri pesci grossi che, non sempre, sfondando, rimanevano impigliati, o da strappi dovuti all’usura. Seduti per terra o sui banchetti, con l’alluce infilato in una maglia sana per tendere la rete da riparare, da soli o in piccoli gruppi, i pescatori lavoravano nelle giornate in cui era impossibile uscire per mare.
Tutto ciò risultava piuttosto ingombrante e già nell’ottobre 1898 il Regio Commissario aveva, con un’ordinanza, proibito “lungo la via a mare, seno di Mangiavolpe, sino all’inizio della Piazza Umberto I, di tenere qualsiasi materiale, di stendere per qualunque scopo le reti e di ingombrare in qualsiasi modo il suolo pubblico“. Ma l’ordinanza non poté avere l’effetto voluto, data la mancanza di spazio disponibile. Nella zona attualmente occupata dall’ufficio postale, un piccolo scalo d’alaggio naturale consentiva di portare a terra le barche per la manutenzione; tutto era fatto in maniera artigianale.
Altri, con l’aiuto dei ragazzi e delle donne preparavano negli enormi paioli la tintura per le reti, dosando la polvere rossa ricavata dalla scorza di zappino (albero simile al pino). In inverno l’acqua della tintura ormai inutilizzabile, “u zappinu”, veniva richiesta dalle donne isolane per curare i geloni delle mani e dei piedi. La fila di case era interrotta solo dalle bettole e dai magazzini dei pesci. Questi, attrezzati per conservare il pesce sotto ghiaccio e spedirlo ai mercati continentali (Civitavecchia soprattutto), erano diventati punto di riferimento economico di importanza vitale: garantivano infatti il ritiro di tutto il pescato, per il quale stabilivano il prezzo in base a quelle che per i pescatori erano delle incomprensibili leggi di mercato, per cui ritocchi continui basati sull’aumento o la diminuzione della quantità di prodotto, rendevano imprevedibile il guadagno giornaliero. Ma, soprattutto all’inizio del secolo, esercitarono una funzione notevole fornendo ai pescatori non solo gli strumenti di lavoro, ma anche le barche, ciò che consentiva quel primo passaggio di categoria, da semplice marinaio a padrone, che sta alla base del miglioramento della condizione sociale.
Era però lungo e difficile affrancarsi dal rapporto con i magazzini e ancor oggi i pescatori dicono di aver cominciato a godere di buoni guadagni solo quando hanno potuto amministrare autonomamente il lavoro. Le bettole erano frequentate nelle lunghe serate invernali, quando l’inclemenza del tempo obbligava all’inattività lì i pescatori giocavano a carte mettendo come premio un quarto di vino che i vincitori spesso non consumavano sul posto, ma portavano a casa per la cena. A Cala Gavetta i Ponzesi conducevano la loro vita occupati come i Puteolani nei lavori di preparazione dei loro mestieri, le nasse, o nella manutenzione delle barche per la quale si servivano dello scalo che occupava il lato nord della cala, fangoso e malsano a causa della turbolenta vadina nella quale affluivano gli scarichi fognari della zona a monte.
Le case dei Ponzesi a differenza di quelle dei Puteolani erano basse ma ariose. Un osservatore distratto che avesse guardato le due zone, vedendo gli uomini partire agli stessi orari, vestiti nello stesso modo, parlare fra loro la stessa lingua, su barche dai colori vivaci attrezzate con remi, antenna e albero, avrebbe pensato di trovarsi di fronte la stessa gente; ma uno sguardo più attento avrebbe rivelato le differenze: gli attrezzi da lavoro prima di tutto (solo reti per i Puteolani, solo nasse per i Ponzesi), i periodi di attività (meglio distribuiti durante il corso dell’anno, data la varietà di reti impiegabili per i Puteolani, concentrati quasi freneticamente in primavera inoltrata – estate per i Ponzesi), le barche (più larghi e pesanti i gozzi dei Puteolani, più lunghe e sfilate, quasi sempre con “pernacchia” le feluche Ponzesi). Ma anche nell’abbigliamento dei più vecchi si distingueva ancora qualche differenza perché i Puteolani portavano all’orecchio sinistro un cerchietto d’oro, regalato dal padrino al momento del battesimo, che li accompagnava fino alla morte e, all’altezza della vita, una fusciacca di lana a colori vivaci.
Il resto dell’abbigliamento era costituito da cotone o fustagno per le giornate di lavoro, zigrino nero per le grandi occasioni per chi poteva permetterselo. Quando le due zone “storiche” di Abbass’a marina e U Molu furono sature, i nuovi arrivati dovettero occuparne altre sempre seguendo la concentrazione abituale degli immigrati, derivata forse dalla necessità dell’aiuto reciproco o anche dalla sola familiarità di costumi, usi e lingua simili.
Dal 1930 ad oggi invece, una serie di innovazioni, tutte importanti, ha radicalmente mutato il lavoro del pescatore influendo positivamente sulle sue condizioni economiche e sociali. La prima di queste innovazioni è stata l’introduzione del motore, che, consentendo di raggiungere velocemente i luoghi di pesca e di spostarsi con facilità, ha permesso al pescatore di trascorrere meno tempo a mare, di faticare meno, dandogli allo stesso tempo una sicurezza in più contro il vento o il mare agitato. I primi motori a benzina furono acquistati intorno al 1935.
La benzina arrivava da Porto Torres attraverso lo spedizioniere, e essendo “schiavo dogana“, data ai pescatori a prezzo agevolato, doveva esserne giustificato e controllato l’uso. Molto più tardi fu introdotto il motore a nafta. Malgrado l’innegabile utilità di questa innovazione il processo di modernizzazione fu lento forse per l’innata diffidenza di un mondo legato a tradizioni secolari: ancora nel 1958 solo 60 erano le barche da pesca fornite di motore contro le 120 a vela e a remi. La seconda più recente innovazione (databile agli anni ’60) fu il verricello che contribuì ad alleggerire il lavoro manuale e diede maggiori possibilità di pesca visto che consentiva di calare e salpare le reti anche in presenza di correnti non favorevoli. Infine, l’altro cambiamento, lento da assorbire, ma non meno importante, fu l’avvento delle reti di nylon, che eliminarono tutto il lavoro di preparazione e riparazione e risultarono quasi indistruttibili.
Oggi, la pesca è tecnicamente più facile e più fruttuosa. E c’è anche la certezza del superamento della vecchia situazione economica e sociale, di un cambiamento profondo nel modo di intendere la vita. Per capirlo occorre schematicamente definire i punti fondamentali richiamandoci alla situazione del passato: non esisteva alcuna proporzione fra al quantità di lavoro prodotto e il guadagno realizzato; l’acquisizione dei mestieri era lenta visto che ne veniva riscattato il possesso con una parte del lavoro; il pescatore non poteva entrare nel meccanismo di scambio non avendo possibilità di vendere in proprio; i prezzi erano stabiliti dai magazzinieri in base alle leggi di mercato, difficili da capire a da accettare.
La situazione sociale, in un periodo in cui la differenza fra le classi era ben evidente, risentiva fortemente di quella economica, nella quale il gradino più basso era occupato dal marinaio, avente diritto ad una sola parte del guadagno totale (contro le tre del padrone: una personale, una per la barca, una per i mestieri). Per uscirne bisognava realizzare il primo passaggio acquisendo barca e mestieri e rendendosi indipendenti dai magazzini. Era necessario perciò lavorare il più possibile, sfruttando al massimo le condizioni favorevoli delle stagioni, facendo del rischio una necessità: era normale prassi di vita spiare il tempo per capirne le mutazioni, interpretare la corsa delle nuvole o un lampo lontano per calcolare quanto tempo utile restava per salpare i mestieri e raggiungere una cala sicura prima dell’arrivo della burrasca: chi usciva e calava le reti, nasse o palamiti sapeva che non poteva permettersi il lusso di abbandonarli neanche se era in pericolo la sua stessa incolumità perché perderli significava ricominciare da zero.
Eppure tutti erano coscienti della fragilità dei mezzi a disposizione e della loro inadeguatezza rispetto alla forza degli elementi; a parte le dimensioni dell’imbarcazione, che raggiungeva, in pochissimi casi i dieci metri (più comunemente di 6,5 m), in caso di vento forte c’era l’impossibilità di adoperare la vela che alterava l’assetto della barca; non rimaneva dunque che l’uso dei remi e l’esperienza: poi l’aiuto di Dio o della Fortuna. Subentrava perciò un certo fatalismo col quale si spiega il fatto che molti pescatori non sapessero nuotare; innumerevoli sono le storie di salvataggio in mare, altrettanto numerose le morti.