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Correva l’anno 1370

Correva l'anno 1370Alla proibizione, da parte di Genova, di frequentare gli scali sardi, i bonifacini affermano di non “poter vivere senza andare in Sardegna” (Homines de Bonifacio non possunt vivere non euntes ad partes Sardinie), evidenziando l’indispensabilità del commercio con la vicina isola. La citazione a supporto del titolo è tratta da una petizione presentata nel 1370 dagli abitanti di Bonifacio al doge di Genova Domenico Campofregoso, con la quale i Bonifacini chiedevano di essere esclusi dal divieto per i sudditi di Genova di attraccare negli scali sardi, divieto imposto in seguito alla ripresa delle ostilità tra Genova ed i Catalano-Aragonesi. I rapporti tra Corsica e Sardegna datano naturalmente a ben prima del 1370. Quali risorse offriva allora la Sardegna agli occhi degli operatori stranieri? Nell’economia dei giudicati la terra rappresentava la risorsa fondamentale, sfruttata attraverso un sistema di aziende agrarie, fiscali e private, laiche ed ecclesiastiche, variamente denominate (domos, donnicàlias, curtes, curiae), alle quali si aggiungevano e contrapponevano le terre di uso comune (populares) delle comunità di villaggio.

I rapporti tra Corsica e Sardegna datano naturalmente a ben prima del 1370. In questa sede ci si limiterà a delineare un quadro sommario dei traffici commerciali intercorsi durante il XIII secolo, sulla scia di una grande tradizione di studi che annovera, solo per citare gli studi più recenti, i lavori di Geo Pistarino, Giovanna Petti Balbi, Laura Balletto, Jean-André Cancellieri, Sandra Origone ed Enrico Basso.

Tale fenomeno è a sua volta da inquadrare nel più ampio contesto dell’espansione tirrenica di Genova e dei rapporti di questa con i quattro regni giudicali, rapporti che risalivano alla seconda metà dell’XI secolo. Quali risorse offriva allora la Sardegna agli occhi degli operatori stranieri? Nell’economia dei giudicati la terra rappresentava la risorsa fondamentale, sfruttata attraverso un sistema di aziende agrarie, fiscali e private, laiche ed ecclesiastiche, variamente denominate (domos, donnicàlias, curtes, curiae), alle quali si aggiungevano e contrapponevano le terre di uso comune (populares) delle comunità di villaggio. Il termine domo indicava sia la singola unità fondiaria dotata di bestiame e servi che la grande azienda signorile, laica o ecclesiastica, costituita dall’insieme di più domos. Ogni domo prevedeva delle strutture residenziali per l’amministratore (armentariu) e la manodopera servile, altre parti destinate alla conservazione delle derrate (granai, fienili, cantine) e al ricovero del bestiame (mandras e bulbares) ed eventualmente ambienti per la caseificazione e per la molitura dei cereali. Annessi all’azienda si trovavano vigneti e appezzamenti ortivi, spesso associati a frutteti (fichi e noci soprattutto), spazi destinati alla semina di legumi e canepai.

Tali colture potevano talvolta essere comprese in spazi chiusi (cuniatos) per evitare l’invasione del bestiame. Nelle aziende ecclesiastiche erano spesso localizzati anche edifici di culto che denominavano la domo stessa (nella documentazione ecclesia diventa, cioè, sinonimo di domo). Altre piccole strutture insediative, quali domèstias (o domèsticas) e cortes, potevano trovarsi all’interno del territorio pertinente alla domo, che era variamente distribuito e non necessariamente contiguo alla sede centrale dell’azienda. Al di fuori dell’area insediativa si trovavano i saltos, adibiti alla cerealicoltura estensiva, ai vigneti, oltre che naturalmente al pascolo. I vasti spazi incolti erano destinati all’allevamento brado, alle attività di caccia (riservata quasi esclusivamente ai giudici ed all’aristocrazia) e alla raccolta dei prodotti silvestri. Tra gli animali allevati predominavano nettamente le pecore e i porci, questi ultimi alimentati sia nelle selve ghiandifere che in recinzioni domestiche. Assai curato era l’allevamento della capra, particolarmente adatto ai suoli sardi. Di notevole importanza era anche l’allevamento dei bovini, seppure quantitativamente inferiore rispetto a quello ovino.

Il cavallo veniva sfruttato principalmente come mezzo di trasporto, per finalità militari e per le battute di caccia. Sono infine documentate l’apicoltura, in funzione della produzione di miele e cera, e la cura dei rapaci per le attività venatorie. Il quadro delle risorse economiche era completato dalla pesca nei corsi d’acqua interna, nelle lagune o stagni e in mare aperto e dalle saline, localizzate nell’area di Cagliari, nelle coste oristanesi e nella Nurra. Poco documentate sono le attività artigianali, che pure dovevano esercitarsi almeno nei centri principali e che furono probabilmente incentivate dai monaci benedettini. Altrettanto scarse sono le notizie in merito al commercio interno. Tuttavia, se il sistema incentrato sulla domo rimanda all’esistenza di un’economia votata essenzialmente all’autoconsumo, non mancavano forme di scambio interzonale, dati i frequenti contatti fra le quattro corti giudicali e in considerazione di una certa mobilità della popolazione. La documentazione disponibile, concernente quasi esclusivamente le aziende monastiche, rende conto di una serie di negozi, effettuati con pagamenti prevalentemente in natura, che hanno come teatro quasi tutto il giudicato di Torres e parte di quello di Arborea, ovvero l’area maggiormente interessata dalla “colonizzazione” benedettina. La presenza capillare delle aziende monastiche creò, dunque, i presupposti per la circolazione delle merci e lo spostamento del surplus verso quei centri portuali che tra la fine dell’XI e i primi del XII secolo venivano rivitalizzati per opera dei Pisani e dei Genovesi.

Da parte loro, le due repubbliche marinare misero a frutto i privilegi e le concessioni fondiarie dei giudici realizzando propri quartieri commerciali, a capo dei quali posero dei consules mercatorum che affiancarono l’istituto indigeno del majore de portu, peraltro ricoperto sovente da individui provenienti dalla penisola italiana. I consoli «acquistavano, quindi, una doppia fisionomia: davanti ai mercanti rappresentavano la madrepatria, agli occhi dei locali apparivano come i rappresentanti dei mercanti stranieri». Tra la fine del XII e l’inizio del XIII secolo si sarebbe arrivati a un tribunale misto, composto dal giudice e dai consoli forestieri, e al riconoscimento della giurisdizione dei consoli nelle cause tra i soli stranieri. Relativamente al XII secolo sono maggiormente documentati rapporti commerciali con Genova e Savona, mentre sono scarse le fonti sulle relazioni economiche con Pisa. In realtà, almeno inizialmente, la Sardegna non figura tra le mete principali del commercio genovese. In proposito Geo Pistarino scrive che «non soltanto s’incontrano qui le difficoltà determinate dai conflitti e dai contrasti interni, e della spietata concorrenza pisana. C’è soprattutto il fatto che quello sardo è un mercato povero, non allettante per grossi capitali, in quanto non suscettibile di assicurare lucri molto elevati».

Dall’Isola provenivano merci quali il sale cagliaritano, 16 pelli di cervo (cervune), 17 grano e falconi. Viceversa vi venivano importati vino, manufatti tessili ed utensili. L’andamento dei traffici subì un’inversione di tendenza a partire dall’ultimo ventennio del secolo, allorché, dopo un’iniziale concentrazione degli interessi nel giudicato di Cagliari e poi in quello di Arborea (affaire Barisone), Genova stabilì un rapporto privilegiato con il regno di Torres. Assunse rilievo il commercio di schiavi sardi (donne in prevalenza), che proprio in questo periodo cominciano a comparire stabilmente nei mercati liguri e còrsi,21 insieme ad articoli più tradizionali quali sale, grano, orzo e falconi. Dall’altra parte persistette l’esportazione nell’Isola di prodotti tessili (lino, fustagno) ed anche di zafferano, mentre una notizia isolata dà conto della presenza a Genova di un mercante sardo (Marignonus Spina di Cagliari, de Seveteravi), il quale stipulava nel 1191 un contratto di accomandita per recarsi a trafficare in Sardegna: si tratta dell’anticipazione di un fenomeno, quello della presenza di operatori sardi a Genova e in Liguria, destinato a svilupparsi pienamente nel secolo successivo. Decisiva fu in questo senso la conquista di Bonifacio (1195), che -scrive Geo Pistarino- «diventa rapidissimamente un grande polo di attrazione, epicentro di una vera e propria area di mercato corso-logudorese, che assume le caratteristiche di distinta individualità rispetto sia alla restante Corsica sia alla restante Sardegna. Agli scambi economici nell’interno dell’area e tra questa e la Liguria si abbinano i movimenti demici, emigratori e, soprattutto, immigratori, i rapporti di parentela liguri-sardi, le esperienze feudali dei genovesi nelle isole e l’avvio di un ceto borghese-mercantile tra gl’isolani, stimolati verso i moduli di vita del continente.».

Se già nel 1186 e 1191 i giudici di Torres Barisone II e Costantino II avevano concesso ai Genovesi loca e mansiones convenientes, insieme alla completa libertà di commercio e all’esenzione da ogni tributo, con il trattato del 1216 tali privilegi vennero allargati agli uomini del castello di Bonifacio, ponendo come unica, significativa, eccezione il divieto di esportazione del sale logudorese. Il quadro dei traffici commerciali nel Duecento vede, a giudicare dalla documentazione, una netta prevalenza di Genova, per quanto «l’unilateralità delle fonti non deve far credere che il commercio genovese fosse superiore a quello pisano». Peraltro, Laura Balletto rileva come almeno nei primi lustri del XIII secolo «la Sardegna non può considerarsi come un mercato di primaria importanza nel quadro dei commerci genovesi», ponendo ancora una volta in evidenza il problema del ricorrente conflitto con Pisa e gli avvenimenti generali del contesto tirrenico e mediterraneo quali elementi discriminanti delle tendenze del traffico mercantile e dell’oscillazione a vantaggio o svantaggio delle piazze sarde. Inoltre -sottolinea ancora la Balletto- a differenza della situazione in Corsica, i Genovesi non disponevano di un proprio castrum ed erano perciò «soggetti a fluttuazioni politiche e militari che variano di frequente e con rapidità». In definitiva, le differenti strategie di Pisa e Genova e le fasi congiunturali più o meno favorevoli alluna o all’altra parte determinarono fino alla Meloria una sostanziale egemonia politica pisana, alla quale Genova opponeva una maggiore dinamicità economica.

L’analisi della documentazione genovese, pur non consentendo di quantificare i movimenti di importazione e di esportazione, permette perlomeno di individuare le principali merci oggetto di scambi. Nella prima metà del secolo uscivano dalla Sardegna grano, orzo, sale, lana, pellame, formaggio (turritano o “sardesco”), castroni ed anche olio. Per contro vi venivano importati prodotti tessili e artigianali assai variegati, stoviglie ed utensili, vino, olio, sapone, spezie (zenzeverata) e zucchero. Le piazze più frequentate erano Torres, Sassari, Ampulia, Bosa, Olbia, Oristano e Cagliari. È stato rilevato come gli operatori impegnati nei traffici con la Sardegna non appartenessero generalmente agli strati sociali ed economici più elevati dell’aristocrazia e della borghesia mercantile di Genova, circostanza che d’altra parte denota una partecipazione diffusa della società genovese al commercio marittimo, costituendone il segno caratterizzante. Altrettanto notevole è il coinvolgimento di mercanti forestieri che avevano la loro base a Genova: questi provenivano dall’Oltregiogo e dall’area padana (Alessandria, Asti, Alba, Torino, Voghera, Lodi, Cremona), ma anche da Firenze, Ancona, Pisa e Lucca.

Ma l’autentico elemento di novità è rappresentato dalla partecipazione attiva nei traffici commerciali da parte degli operatori sardi, soprattutto turritani, non solo nell’Isola ma anche direttamente a Genova ed in Liguria, Corsica e Toscana. In questo contesto è opportuno sottolineare il ruolo fondamentale, politico ed economico, che assunse il centro di Sassari, tanto da divenire, con Torres, Ardara e il castello del Goceano, una delle “capitali” del giudicato di Logudoro, oltre che la residenza preferita dei più alti prelati della provincia ecclesiastica turritana. Lo sviluppo vertiginoso che Sassari conobbe nel corso del Duecento aveva le radici nella sua vantaggiosa posizione nella rete viaria, che ne permise l’affermazione quale principale piazza verso la quale far confluire i prodotti dell’entroterra per essere immessi sia nel mercato interno che in quello ben più lucroso degli operatori stranieri che frequentavano ormai stabilmente l’Isola. Trasformatosi da villaggio rurale in borgo cittadino, Sassari diventò così il vero motore dell’economia logudorese e lì concentrarono i propri interessi anche le principali famiglie signorili “italiane”. Fu proprio la forte crescita politica, economica e sociale a propiziare la nascita dell’autonomia comunale, che pare delinearsi come l’esito della fusione tra la vecchia aristocrazia fondiaria giudicale e la nuova “borghesia” artigianale e mercantile, in cui convivevano componenti sarde, toscane, liguri e còrse. Particolarmente significativi sono i dati relativi ai «cruciali anni 1234-1238», periodo in cui maturava la crisi al vertice del regno di Torres contestualmente e conseguentemente all’affermazione della suddetta borghesia sassarese, in aperta contrapposizione al potere giudicale.