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Squarciò – Capitolo VII

Squarciò, romanzo di Franco Solinas

Squarciò scrisse una lettera all’Ansaldo. E l’Ansaldo rispose che dopo quindici giorni sarebbe arrivato il rappresentante con il motore.

Squarciò vendette allora il suo vecchio motore a Treddenti.

Treddenti fece un affare, ma per qualche sera Santamaria non volle più bere con lui come aveva sempre fatto da molti anni. Per convincerlo che era ancora suo amico, Treddenti dovette comprare un barile di vino, e invitarlo ad andare a trovare Squarciò, che insieme alla famiglia stava in un’isola dell’arcipelago.

Quindici giorni di vacanza, quanti ne occorrevano perché arrivasse il motore nuovo. Rosetta non era mai stata per tanto tempo fuori di casa, e sempre insieme a Squarciò.

Fu felice Rosetta, e anche i ragazzi lo furono. Tutti, meno Diana, che temeva di non vedere per troppi giorni il suo innamorato. Diana aveva sedici anni, lui diciotto. Nessuno sapeva che si volevano bene, e si volevano anche più bene perché lo facevano di nascosto.

Era giugno, il vento soffiava leggero, e la vela si gonfiava facendo sbandare un bordo della barca rasente l’acqua.

Rosetta e Diana sedevano su un materasso steso sul fondo. Angelo fu messo in una cesta sotto prua.

Il vento era favorevole, e l’isola non dista neanche un miglio. Ci volle poco ad arrivare. Per prima, saltò a terra Rossa, una rossa cagnetta bastarda che Squarciò aveva portata per i conigli.

La spiaggia si allarga verso l’interno con alte dune di sabbia bianca e sottile. Una cintura di granito la protegge dal vento, e non c’era un’orma sulla sabbia. La barca si arenò dolcemente. A cento metri dalla spiaggia, c’è una batteria costiera in disarmo. È scavata nel granito, e sarebbe impossibile scoprirla se non fosse per due vecchi cannoni arrugginiti fissati con cemento sulla terrazza.

Si diressero là. Diana dovette tornare indietro perché avevano dimenticato Angelo sotto la prua. Meno lei, erano tutti allegri. Rossa correva già per i cespugli annusando le piste. Quando scovò un coniglio, cominciò ad abbaiare furiosamente, e, poiché lo inseguiva, i suoi latrati andarono presto affievolendosi. Finché non si udirono più perché Rossa era ormai troppo lontana, nell’interno dell’isola, in qualche parte dove il coniglio correva ad intanarsi.

Mancava poco al tramonto. Squarciò accese una lampada, che illuminava bene la larga stanza scavata nella roccia. Tanto sole aveva assorbito il granito, e là dentro faceva caldo.

Squarciò disse:
– Mangeremo all’aperto.
– Sì – disse Rosetta.

Bore e Antonino corsero a raccogliere legna. Secchi cespugli di cisto e di lentischio arsero subito, e il loro fumo odoroso si allargava nell’aria ferma della sera. Sorgeva il primo quarto di luna, era di giugno e ancora poche stelle c’erano in cielo. Dopo mangiato, Bore e Antonino riempirono quattro lunghi sacchi di sabbia calda. Il materasso serviva per Rosetta e per Angelo.

Rosetta e Squarciò bevvero un altro bicchiere di vino.

Diana era salita sulla terrazza, e di là guardava il mare e cantava.

Squarciò la vedeva dal basso, fra le sagome scure dei due cannoni.
– Che cannoni, – disse Squarciò – non sono serviti a niente!
– No – disse Rosetta.
– Sai che sparavano proiettili con neanche mezzo chilo di polvere?
– È poco? – chiese Rosetta guardando dove guardava Squarciò – Poco? Se pensi che mezzo chilo io lo uso per dieci metri di fondo. Certo che è poco per dei cannoni, non ti pare?
– Sì – disse Rosetta.
– È già grande Diana – disse Squarciò.
– Sì.
– È una bella ragazza. Non ti pare?
– Sì, è proprio bella.
– Ti ha detto ancora niente?
– Di cosa?
– Se qualcuno le va dietro.
– No, ancora niente.
– Forse ce l’avrà qualcuno.
– Non lo so.
– Ti dispiacerà quando si sposa?
– No, sarò contenta. E tu?
– Certo che sono contento se si sposa, e se fa figli. Se lui è un uomo a posto, sarò contento. Glielo diciamo?
– A Diana?
– Sì, è bene parlarle ogni tanto. Forse è contenta che glielo diciamo.
– Meglio dirglielo quando ci avrà qualcuno.
– Va bene – disse Squarciò, e le versò da bere. – Andiamo sulla spiaggia?
– Sì, – disse Rosetta – fra un momento –. E andò a vedere Angelo, che dormiva sul materasso. Anche Bore e Antonino erano già addormentati.

Squarciò disse a Diana che era tardi. Diana non smise di cantare, ma scese lentamente dalla terrazza. Rosetta si era coperta con uno scialle. – Andiamo – disse a Squarciò.

Insieme si allontanarono verso la spiaggia. Erano scalzi, la sabbia era ancora calda. In tanto silenzio, neanche il rumore del mare si avvertiva, perché era calato il vento e il mare era immobile anche lungo la costa.

Andavano sulla spiaggia e si tenevano per mano. Senza farsene accorgere, Squarciò guardava verso Rosetta, che aveva quasi quarant’anni: ma era ancora bella, e non era sciupata come tutte le donne del popolo a quella età.

Squarciò l’aveva fatta vivere bene, per questo era ancora bella Rosetta e piaceva ancora a Squarciò. Si sedettero sulla sabbia, proprio là dove questa è più compatta perché l’acqua la raggiunge quando è alta marea.
– Abbiamo quattro figli – disse Squarciò.
– Sì, – disse Rosetta – sono bravi.
– Ti piacerebbe un altro?
– A te piacerebbe?
– Sì, un altro maschio. L’ultimo, Rosetta. Tu sei brava a far figli, di Angelo quasi non te ne sei accorta…
– Speriamo che sia maschio – disse Rosetta.
Un quarto di luna fa appena luce, ma la sabbia era tanto bianca che là sembrava chiaro tutto intorno. Era scuro lo scialle di Rosetta, e la sua pelle bianca come quella sabbia.

In quei momenti, Squarciò si sentiva ansioso e felice, come quando attendeva che la bomba si adagiasse sul fondo, e come dopo, quando l’esplosione scuoteva l’acqua e il mare si ricopriva di una pesca miracolosa.

L’alba attraversò le strette feritoie. Si illuminarono le pareti di granito. Squarciò si svegliava allora. Antonino era già in piedi, e prendeva due nasse e la rete da lancio.

Non gli piaceva la caccia, ma pescare senza bombe era per lui una novità e gli piaceva farlo. Gli altri dormivano.

Angelo se ne stava steso, con le braccia allargate sul petto di sua madre.
Squarciò prese il fucile e si riempì le tasche di cartucce.

Chissà quando era tornata Rossa, quella notte. Quando vide il padrone col fucile, cominciò a guaire e a saltargli intorno tutta eccitata.

C’era un po’ di vento, ma era vento caldo e si sentiva che era d’estate. Squarciò disse a Antonino:
– Guarda che se non peschi non mangiamo.
– Mangeremo conigli – disse Antonino. – E tanti! – disse Bore.
– Senti, – disse Squarciò – facciamo che chi non porta niente non mangia.
– D’accordo – disse Antonino sorridendo. – Allora buona caccia!
– Crepa – gli disse Bore. – Tu buona pesca.
– Adesso siete pari – disse Squarciò. – In bocca al pesce spada, Antonino.
– In bocca al lupo!

Antonino scese verso il mare. Squarciò e Bore camminarono verso l’interno dell’isola.

Bisogna battere sempre contro vento, così i conigli non possono sentire il cane prima che il cane senta loro.

Rossa poteva cacciare a vento e andare veloce, col muso alzato, senza dover trascinare il naso su ogni pista.

Per Bore era straordinario ascoltare queste cose. Guardava ammirato suo padre, che sapeva tutto. Non guardava Rossa, ma suo padre, che avanzava parlando con il fucile fra le mani. Le canne erano così corte che in quelle mani il fucile sembrava un giocattolo. Le aveva tagliate Squarciò, quando il fucile era ancora nuovo. Non avrebbe più potuto fare tiri abbastanza lunghi, ma in compenso il piombo si allargava subito appena uscito dalla canna: e serviva così a Squarciò, perché non era mai riuscito a mirare bene un animale, ma sparava sempre troppo presto, appena aveva fatto a tempo a vederlo a tiro.
– Bisognerebbe contare fino a tre – disse Squarciò a Bore. – Vedi l’animale, e conti fino a tre, così sei sicuro di mirarlo bene. Ai conigli occorre tirare due palmi avanti, se no non li prendi.

Bore si fissava tutto nella memoria. Si ripeteva in silenzio:
– Bisogna contare fino a tre…

Erano arrivati ai piedi d’un alto massiccio di granito.

Le rocce salivano in pendenza sempre più ripida, poi si allargavano in brevi piattaforme, o si interrompevano improvvisamente con crepacci profondi. Squarciò si mise il fucile a tracolla, e iniziò a salire. Bore, più svelto, lo precedeva aiutandosi anche con le mani.

Giunsero presto alla cima. Di là, si dominava tutto intorno, ed era ben visibile, fra un cespuglio e un altro, ogni spazio vuoto.

Quando Rossa trovava un cespuglio più grande, gli girava intorno annusandolo bene. Se non sentiva niente, ripartiva e batteva veloce il terreno, andando a zig zag sempre col naso alzato. Appena sentì l’odore aspro del coniglio, cominciò ad agitare la coda e aumentò l’andatura.
Poi lo avvertì più vicino, allora si udirono i suoi latrati sempre più acuti e rabbiosi.

Squarciò aveva imbracciato il fucile. Rossa sapeva che il suo padrone era lassù, e in quella direzione cercava di spingere il coniglio. Bore lo vide per primo, correre da un cespuglio all’altro, apparire e sparire tanto velocemente che ogni volta Bore temeva di essersi sbagliato. Anche Squarciò lo vide, e teneva pronto il fucile.

– Spara! – gli gridava Bore eccitato. – È ancora lontano – diceva Squarciò.

Il coniglio filava verso le rocce dove soltanto pensava di salvarsi. Squarciò lo lasciò avvicinare. Quando fu a una ventina di metri, il coniglio vide l’uomo e il ragazzo in cima alle rocce. Si fermò di colpo, e stette un attimo terrorizzato senza sapere più dove andare. Dietro di lui, i latrati di Rossa si avvicinavano minacciosi. Quando Squarciò premette il grilletto, il coniglio schizzava via di lato cercando una buca dove infilarsi. Squarciò fece partire il secondo colpo, e il coniglio fu preso in pieno. Rotolò rannicchiato su se stesso.

– Corri! – disse Squarciò. – Se arriva prima Rossa lo rovina.

Bore scese in un attimo, saltando da una roccia all’altra.

Riuscì ad arrivare prima di Rossa. Il coniglio era steso su un fianco, sotto il primo cespuglio, ma non era morto. Il piombo gli aveva spezzato le due gambe posteriori, per il resto era intatto. Era vivo, con i due grandi occhi allargati pieni di paura. Finì tutta l’eccitazione di Bore, e le sue mani s’arrestarono nel gesto di prenderlo. Ma Rossa era ormai piombata lì accanto, e Bore dovette prenderlo e tenerlo in alto per evitare che venisse sbranato. Squarciò lo trovò così, che teneva il coniglio per le gambe davanti.

– È ancora vivo – disse, e intanto guardava la faccia di Bore e capiva che il ragazzo aveva troppa pena. – Bisogna ammazzarlo, – disse – se no soffre.
Bore fece di sì con la testa, e gli porse il coniglio. Rossa saltava intorno, guaendo furiosamente. – Ammazzalo tu – disse Squarciò. – Basta dargli un colpo sulla testa.

Si mise a estrarre i bossoli vuoti, poi soffiò nelle canne.

Intanto guardava Bore, che se ne stava impacciato con quel coniglio ancora vivo. – Dai – gli disse. – È meglio non farlo soffrire. Hai paura?

Bore fece di no con la testa. Poi provò, ma diede troppo piano e il coniglio rimase vivo.

– Vuoi che faccia io? – chiese Squarciò.

Bore scosse la testa, chiuse gli occhi, e picchiò con tutta la forza. Il coniglio diede un sussulto, il suo corpo tremò come se attraversato da una scarica elettrica. Gli occhi gli rimasero aperti, ma senza più luce.
– È morto – disse Bore.
– Hai visto? – disse Squarciò ricaricando il fucile. – Non ci vuole niente.

Ne ammazzarono altri due, ma questi morirono subito.

Bore si divertiva di nuovo. Quando un coniglio riuscì a intanarsi senza che Squarciò avesse fatto a tempo a sparare, Bore disse:
– Si può fare una mina con la polvere delle cartucce, e far saltare la tana.
Squarciò sorrise:
– Niente esplosioni, – disse – siamo in vacanza. Ma se no si potrebbe.

Rosetta stava già arrostendo i pesci pescati da Antonino.

Squarciò andò sulla spiaggia a scuoiare i conigli. Rossa si mangiò le interiora. Se fosse stato solo, Bore non ne avrebbe assaggiato di coniglio, ma, così, tutti sapevano che gli era sempre piaciuto. Ne mangiò un pezzo, e poi dovette correre a vomitare dove Squarciò non avrebbe potuto vederlo.

Furono bei giorni, e lo divennero anche per Diana quando sentì fischiare dal mare e vide un sandolino a duecento metri. Un sandolino bianco e blu con Diana scritto sulla poppa. Lei stava raccogliendo conchiglie, e quando sentì il fischio di Renato continuò a camminare costa costa, e Renato la seguiva, sempre a duecento metri, in quella direzione.

Appena fu abbastanza lontana e sicura di non essere vista, Diana gli fece cenno di avvicinarsi. Si abbracciarono dopo tanto tempo, che poi era appena una settimana. Renato nascose il sandolino coprendolo di alghe.

Andarono fra due spacchi di roccia, in un metro di spiaggia che si
raggiungeva solo dal mare.

Renato tentò subito di sdraiarla sulla sabbia, ma Diana si rimetteva a sedere e lo guardava con occhi ostinati.
– Perché non vuoi? – le chiedeva Renato.
– Ho giurato che non lo facciamo più.
– Ormai lo abbiamo fatto tante volte!
– Mi vergogno con tutti quando penso che lo abbiamo fatto.

A Renato non importava niente di questa vergogna, ma doveva convincerla e si trovò a spiegare che tutte, prima o poi, lo fanno una prima volta e poi è inutile non farlo più.
– Ma dopo sposate! – disse Diana.
– E noi non ci sposiamo?
– Se ti lascio fare, poi non mi sposi. L’ho capito che vieni solo per questo.

Tanti giorni che non ci vediamo, e tu sei venuto solo per questo!

Si mise a piangere. Si asciugava poi con i pugni chiusi che aveva prima nella sabbia, e la sabbia si impastava alle lacrime disegnandole tutta la faccia. Era buffa, così. Forse anche per questo, Renato non riusciva a commuoversi.

Cominciò a giurare sulla testa di quanti gli venivano in mente, e, se commise delle ripetizioni, fu perché lui pensava a tutt’altro, pensava ad una cosa sola e voleva ottenerla.

Finiti i genitori e i parenti più intimi, cominciò su se stesso e si minacciò con una tale serie di disgrazie e di mutilazioni che Diana pianse più forte.

Ma cominciava a cedere, e il suo corpo andava debolmente inclinandosi sotto tante garanzie d’amore.

Renato ci riuscì. Diana non provava nient’altro che un dolce sentimento d’amore, e sperava che anche lui lo sentisse.

Per il resto, era ancora troppo giovane, ma capiva che per lui doveva essere diverso e che tutti gli uomini sono fatti in quel modo.

Renato non le diede pace per un bel po’. Se si fosse accontentato prima, Antonino non avrebbe fatto a tempo a sorprenderli.

Se ne veniva lungo la costa, con i piedi nell’acqua, attento ai cerchi che fanno i cefali quando nuotano in poca acqua e in superficie. Aveva, ben aggiustata sulla spalla, la rete da lancio come una mantellina di torero.

Avanzava così, lentamente, e non li vide subito perché teneva gli occhi rivolti al mare, ma poi avvertì qualcosa e si voltò. Loro non lo videro. Antonino rimase immobile, con gli occhi fissi sul dorso di Renato, pensando come intervenire.

Renato si lasciava allora scivolare sul fianco, e intanto baciava Diana, che teneva gli occhi ancora chiusi. Renato vide Antonino, si sentì rosso e ridicolo, e le sue mani erano impacciate mentre tentava di abbottonarsi i calzoni.

Provò un’enorme fatica per alzarsi in piedi. Antonino gridò il nome della sorella con una voce grossa e robusta, che a lei parve quella di Squarciò.

Poi Renato se lo vide piombare addosso come una catapulta. Non poteva reagire e non lo fece, tentò solo di difendersi stringendo i polsi del ragazzo per immobilizzarlo.

Ma Antonino cominciò a dargli calci, e poi saltava tentando di colpirlo a testate sulla faccia. Renato dovette gettarlo per terra. Antonino si tirò su e si lanciò di nuovo. Renato lo stese ancora sulla sabbia, e poiché si sentiva le gambe indolenzite e aveva anche provato in faccia la fronte di

Antonino, gli si gettò sopra piantandogli le ginocchia sulle braccia.

Allora intervenne Diana, che fino allora avrebbe voluto morire. Renato si sentì battere da ogni parte da quella furia improvvisa. Provò ancora a difendersi, ma Antonino gli sgusciava di sotto come un’anguilla. E si liberò, Antonino, e i due fratelli cominciarono a colpire insieme Renato, che tentava ancora solo di difendersi.

Lo batterono in silenzio, coscienziosamente, con un accordo perfetto. Finché non ce la fecero più, e la faccia di Renato era tutta pesta e graffiata.

Smisero. Antonino guardò sua sorella come per interrogarla.
– Ci sposiamo – gli disse Diana ansimando.
– Quando?
– Non lo so, ma ci sposiamo. Me lo ha giurato.
– È vero? – gli chiese Antonino.

Renato si sentiva stanco e dolorante. Guardò con stupore Antonino, poi Diana, ma non poté dire altro che: – Sì, ci dobbiamo sposare.
– Quando? – chiese Antonino.
– Quando? – chiese anche Diana.
– Presto, appena ho un lavoro. Appena…

E Renato si mise a piangere, e pianse anche Diana e cominciò a consolarlo.

Lo baciava e piangeva anche lei.

Poi inzuppò la veste nel mare e gli bagnò le ferite.

Intanto, Antonino non sapeva più cosa fare. La rabbia gli era finita, e ora si domandava se un fratello dovesse fare qualcosa d’altro.
– Hai giurato che la sposi? – gli chiese ancora. – Sì, lo giuro – disse Renato con convinzione.
– Va bene, se no ti ammazzo.
Raccolse la rete e il sacco per i pesci. Si allontanò senza voltarsi.
– Lo dirai a Squarciò? – chiese Diana.

Antonino se ne andava senza rispondere. – Quanti anni ha? – chiese Renato. – Antonino? – disse Diana. – Tredici –. Poi, con lo sguardo duro di prima, chiese di nuovo:
– Allora, quando ci sposiamo?