24 settembre 1865, l’incendio di villa Webber e la favola del bandito Berretta
Negli anni tra il 1855 e il 1857, James Phillips Webber, inglese della contea di Flintshire, dopo tredici anni di soggiorno in Australia ove si era arricchito con una proficua attività agricola, giunse a casualmente a La Maddalena ove la nave sulla quale compiva un viaggio nel Mediterraneo, incappata in un fortunale, era stata costretta a far scalo. Webber era nato nel Wales ed era stato battezzato il 17 luglio 1797 nella chiesa di Overton; figlio primogenito di Edward Webber e di Charlotte Margareth Phillips ebbe due fratelli; John Phillips Webber ed Edward (Montgomery) Affleck Webber. Nel 1821 emigrò in Australia e dopo un breve periodo di lavoro a Newcastle si trasferì a Tocal ove negli anni che seguirono acquistò l’una dopo l’altra vaste estensioni di terreno da destinare all’allevamento di bestiame. Alla prima tenuta di 2.000 acri acquistata nel 1822, si aggiunsero 1.280 acri nel 1825, 2.560 nel 1831 e 2.380 nel 1833. Era arrivato a Tocal nel marzo del 1822 con quattro dipendenti e sei tonnellate di bagagli; nel 1828 aveva quasi 40 dipendenti 222 capi bovini e 1674 pecore, oltre a 160 acri di terreno destinati a colture estensive e 120 a piantagioni di ogni genere. Da un suo memoriale del 1829 apprendiamo che quell’anno la sua produzione di mais, grano, orzo e tabacco ammontò ad un valore ben 3422 sterline. Le sue grandi capacità di agronomo lo avevano fatto membro della Agricoltural Society of New South Wales e per la stima che godeva nel 1925 gli era stato conferito l’ufficio di giudice di pace. Lo aveva raggiunto in Australia il fratello John divenuto anche lui “farmer” di una tenuta, di 2560 acri, con 200 capi bovini, 750 pecore e con 74 acri fra seminativi e piantagioni.
Ma nel novembre del 1835 il richiamo della vecchia Europa fu irrestistibile; lasciò l’Australia dopo aver venduto tutte le sue tenute e dopo un lungo viaggio attraverso la Cina per arrivò in Inghilterra nel luglio del 1836. Da quì intraprese poi a viaggiare per il Mediterraneo fino a giungere, come abbiamo visto, a La Maddalena.
Fu un amore a prima vista; aveva trovato finalmente l’isola che da tanto tempo cercava per metter fine al suo lungo peregrinare. Acquistata una vasta estenzione di terreno in località Padule, diede subito mano alla costruzione di una villa che ancora oggi porta il suo nome e che nel 1943 ebbe la ventura di ospitare come prigioniero Benito Mussolini. Attorno alla casa volle creare un ampio parco la cui realizzazione fu una vera e propria sfida all’impervia natura di quei luoghi. Fece trasportare la terra dalla vicina Sardegna, costruì poderose mura a difesa delle piante dalla violenza del ponente, creò un ingegnoso sistema di irrigazione; in pochi anni in quel sito di rocce nacque un rigoglioso giardino di aranci, cedri, limoni alberi da frutta per oltre un centinaio di specie diverse e piante esotiche fatte venire da ogni parte del mondo. Dotò la sua casa di una vasta biblioteca, di pregiati mobili e quadri dei più quotati artisti dell’epoca. “L’aristocrazia del denaro fa sentire qui il suo potere”, scrisse Speranza von Schwartz che si era recata a visitarlo nel 1857.
Di tutto ciò, però, dopo l’abbandono in cui è caduta la villa, sono rimaste poche tracce: “…la bella casa – scrive la Racheli – cominciò a subire, oltre all’ingiuria degli elementi, quella sistematica degli uomini: scomparvero dapprima i pochi mobili rimasti, poi le porte, le finestre, gli stipiti, i marmi dei caminetti, gli impianti igienici, le inferriate; tutto, tutto fu sottratto con un lavoro da roditori che durò anni”. Nessuna traccia è rimasta della biblioteca, dei quadri e degli arazzi che adornavano i saloni della villa: “Percorrere quello sfacelo – scrive ancora la Racheli – è l’unica esperienza angosciante che io ho vissuto nell’Arcipelago maddalenino”. Non è stato così per la sua casa australiana; in quella terra lontana Webber è ancora oggi considerato uno dei pionieri della colonizzazione europea e la sua casa di Tocal è rimasta perfettamente conservata e trasformata in un museo. A La Maddalena, invece, le uniche rimaste sono i ginepri arborei del viale d’ingresso e la grande pineta miracolosamente sopravvissuta.
L’attuale pineta, che la Racheli riferisce essere stata piantata nel 1862, mentre come vedremo risale almeno al 1855, non è in gran parte quella originaria. Difatti, a causa di un incendio doloso avvenuto in una notte di fine estate del 1865, il boschetto del Webber venne quasi completamente bruciato e fu necessario ripristinarlo dopo qualche anno. Gli atti del processo instauratosi a seguito dell’incendio, iscritti presso il tribunale il Tempio e definiti con una sentenza della corte d’assise di Sassari del 13 febbraio 1869, ci danno modo di ricostruire la vicenda che portò alla distruzione della pineta.
Con una denuncia al procuratore del re del 27 settembre 1865, redatta da un suo incaricato, il Webber, che come si può notare aveva italianizzato il suo nome, così esponeva l’evento:
“Giacomo Filippo Webber residente a La Maddalena col dovuto rispetto espone che nella sera del 24 cadente mese di settembre verso le ore otto, da mano facinorosa, o nemica, venne appicciato fuoco ad una selva di pini che l’esponente aveva nel suo tenimento nel luogo detto -La Padula-, preciso sito -Sebete-, vicino alla strada comunale; in numero dette piante trentamila e non minore di lire trentamila il loro valore. (sic) Il fuoco si è protratto, ed ha devastato tutte quelle piante, e mentre ne dà partecipazione alla giustizia per gli stili opportuni, non lascia ignorare che i suoi sospetti cadano sopra certo Natale Berretta, e suo figlio Antonio Berretta di La Maddalena riservandosi a darne formale querela, a costituirsi parte civile se sarà del caso, ed a dare maggiori schiarimenti se gli sarà possibile ottenerne onde la giustizia possa provvedere in proposito”.
Il Webber, immediatamente sentito dal giudice mandamentale di La Maddalena, all’uopo incaricato dal giudice istruttore del tribunale, il 2 ottobre successivo confermava la denuncia; precisava che circa la quantità degli alberi incendiati il suo procuratore si era sbagliato, indicandoli in trentamila e non in cinquecento o seicento come in realtà erano, ed in ordine ai sospetti esternati nei confronti del Berretta, così dichiarava:
“…non abbiamo indizi e tanto meno prove formali, né io posso somministrarne in conseguenza, bensì si è animato a sospetti puri e semplici contro gli indiziati Natale e Antonio padre e figlio Berretta della Maddalena, pigliando motivi perchè da due a tre anni a questa parte tra gli Berretta e la mia Casa venne sostenuta una lite per pretesa di terreni e la verità fu a favor nostro con la sentenza giudiziale, per cui da allora in poi essi Berretta hanno sempre malumore con tutta la nostra famiglia sebbene non ho testimoni dei fatti particolari quindi come ho detto non è per ora che un puro e semplice sospetto, che se potrò in avvenire raccogliere dei lumi e prove contro chiunque sia l’autore io non mancherò di parteciparne alla giustizia”.
In effetti le vicende giudiziarie fra i Webber e i Berretta erano state molteplici. Natale Berretta, figlio di Dono (Donato) e di Maria Caterina Zicavo, che molti autori descrivono come un bandito venuto chissà da dove nei primi decenni dell’800, come risulta dal libro primo della parrocchia, alla pagina 231, era invece nato a La Maddalena il 23 novembre 1797; la favola del bandito Berretta rifugiatosi nell’isola di Spargi per sfuggire alla giustizia, riportata da quasi tutti gli autori che si sono occupati delle vicende isolane, è dunque da sfatare, tanto più che all’atto dell’incriminazione per l’incendio egli, dalle informative in atti, risultò immune da ogni precedente penale e mai implicato in alcuna vicenda giudiziaria se non quelle relative alle liti con il Webber. Bandito, come vedremo, il Berretta lo diventerà a settantanni, dopo che era già incontrastato padrone di Spargi e vi aveva a lungo abitato. Prima di lui l’isola era praticamente deserta; la relazione Della Chiusa del 1736, riportata dal Garelli, dà l’isola per disabitata, mentre dalla relazione inviata a Torino dal conte di Rivarolo l’11 aprile 1766, riportata dal Baldacci, si apprende che “Sull’Isola di Spargi solea andarvi la famiglia di Nicolò Pauzino, allorchè il suo Corsojo era destinato alle sementi a pascervi il suo bestiame; senza andare, come tutti gli altri a Santo Stefano” e che “…in quest’anno non vi è andato, perchè i bonifacini, entrati in pretenzione d’avervi diritto come appartenti alla Repubblica di Genova, hanno voluto seminarvi in compagnia di qualcuno dei stessi isolani”.
I Berretta erano giunti a La Maddalena nell’ultimo decennio del 1700. Sappiamo che Dono, padre di Natale padrone marittimo, esercitava il piccolo cabotaggio con la sua gondola con la quale commerciava con la Corsica e che a La Maddalena si era trasferito con il fratello Filippo. Era figlio di Natale e di Maria Caterina Nicolai, del villaggio corso di Livia. Nelle cronache dell’epoca il suo nome ricorre di frequente perchè per il suo carattere irruento era stato spesso protagonista di vicende giudiziarie. Arrestato più volte per risse e ingiurie e una volta per percosse a un ragazzo era sempre tornato in libertà grazie all’intervento del viceconsole di Francia Martinetti che, tuttavia, non aveva talvolta esitato egli stesso a farlo arrestare quando per sottrarsi alla cattura trovava rifugio sulla sua imbarcazione protetta dalla bandiera della repubblica francese. Aveva poi contratto matrimonio con Maria Caterina Zicavo Tramoni il 13 febbraio 1797 e si era definitivamente stabilito a La Maddalena. Il suo primo figlio fu Natale, nato a La Maddalena il 23 novembre 1797, che appena adolescente era stato mandato a Spargi per accudire il bestiame. Sull’isola deserta, oltre a curare la pastorizia, Natale si era dedicato all’agricoltura recintando alcuni tratti di terreno e destinandoli ad orto e vigneto, sicché egli, all’atto dell’emanazione dell’Editto delle Chiudende del 1820, aveva consolidato un possesso che gli consentì poi di divenire pieno ed esclusivo proprietario di quasi tutta l’isola. Difatti, tra i tanti documenti esaminati, il padre Dono e il di lui fratello Filippo, morto celibe, risultano proprietari di beni a La Maddalena, ma non a Spargi, e, parimenti, non sono mai risultate intestatarie di terreni le sorelle di Natale, Maddalena, Antonia, Francesca e Maria, come si apprende dagli atti di una causa sorta fra esse e il fratello in occasione della morte dello zio Filippo, totalmente abbandonato da Dono e accolto invece da Natale, unico familiare che si curò per molti anni di accudirlo e mantenerlo.
Da un atto del 27 luglio 1853, con il quale Natale conferiva una parte dell’isola in dote alla figlia Francesca, i testi Giovanni e Giovanni Battista Tanca dichiararono che i terreni di Spargi erano nel possesso del Berretta da oltre trenta anni e che, tolta la parte destinata in dote, ne rimaneva tanto da soddisfare gli altri quattro figli. Da questa dichiarazione è facile intuire che il possesso di Spargi da parte del Berretta si era consolidato all’epoca dell’entrata in vigore dell’Editto delle Chiudende.
Sta di fatto che quando nel 1848 fu fatta la ripartizione delle terre, furono assegnati lotti a La Maddalena, a Caprera, a Santo Stefano e sugli isolotti minori, ma non si parlò di Spargi ove la commissione preposta alla formazione dei lotti aveva recuperato pochissimi tratti di terreno formando solo alcuni lotti certamente non appetibili visto che Natale non li aveva coltivati. Uno dei lotti era stato assegnato a Filippo, ma questi deve averlo subito ceduto o dismesso perchè di tale proprietà non si fa cenno quando alla sua morte sorse la controversia fra gli eredi.
Natale, oltre alla proprietà di Spargi, aveva dei terreni anche a La Maddalena confinanti con quelli acquistati dal Webber; non pochi furono i contrasti derivanti da questa vicinanza, e non tanto fra il Webber e il Berretta, quanto fra questi e il figlio Antonio con il figlio del primo, il napoletano Luigi Alfonso Russo Webber, adottato già adulto dal ricco inglese che nel suo peregrinare per il mondo non aveva mai pensato a sposarsi. Numerose erano state le denunce per danneggiamenti, uccisioni di animali, sconfinamenti di bestiame, danni alle colture e minacce, quasi tutte finite nel nulla per mancanza di prove o per prescrizione del reato (La giustizia era lenta anche allora). Quando si verificò l’incendio, dunque, dati i dissapori tra le due famiglie, c’erano ben fondati motivi per sospettare che i Berretta non erano del tutto estranei all’evento.
Sulle cause e sull’entità dell’incendio venne disposta una perizia e gli esperti, nominati nelle persone del settantenne Pietro Culiolo di La Maddalena e del cinquantenne Fabio Pietri di Porto Vecchio, dimoranti nell’isola, non riuscirono a determinare se le cause dell’incendio avessere avuto origine dolosa o colposa, né poterono subito quantificare il danno in quanto, a loro dire, i pini, che stimarono esere stati piantati almeno da 10 o 12 anni, “…nel numero di quattrocentosessantuno sono abbrustoliti soltanto nella scorza superficiale e nelle cime senza che allo stato presente ci risulti morta o deperita alcuna di esse piante cosicchè noi non sapressimo che danno attribuire per cui non si potrebbe dare ora un giudizio e noi da parte nostra ce lo riserviamo alla primavera, marzo od aprile, all’epoca della rigettazione”. I periti accertarono inoltre che circa cinquecento o seicento alberi non avevano subito alcun danno e ciò ci consente di stimare l’originaria pineta in oltre mille piante.
L’11 ottobre 1865 il procuratore del re di Tempio “…Attesochè non risulta consegnato in processo il benchè menomo lume o prova intorno all’accertamento dell’autore od autori del reato”, chiedeva al giudice istruttore l’archiviazione degli atti e questi, senza dar corso ad ulteriori indagini, vi provvedeva il 15 successivo. Tutta la vicenda, quindi, a venti giorni dall’evento, prendeva la via dell’archivio.
E’ evidente che il Webber non se ne stette con le mani in mano ed esattamente a distanza di un anno, il 27 ottobre 1866, si presentava al giudice mandamentale riferendo che tali “Battista e Pietro padre e figlio Olivieri, nella sera del seguito incendio avrebbero visto un uomo che appicciava il fuoco nella selva dei pini e questo avrebbero riconosciuto nella persona del Natale Berretta”.
Gli atti furono riesumati e inviati per l’istruttoria al pretore di La Maddalena. Il 27 ottobre il Webber, sentito dal Pretore, confermò di essere venuto a conoscenza che i due Olivieri avevano visto il Berretta appiccare il fuoco e chiese che costoro venissero interrogati al fine di poter procedere nei confronti dell’incendiario “…con tutto il rigore per la di lui punizione e per il risarcimento dei danni”. Fu disposta una nuova perizia, affidata a Giuseppe Lena, e venne accertato che le piante definitivamente deperite erano circa settecento e che il danno subito dal Webber, stimando le piante a quattro lire l’una, era di 2.800 lire.
Il Berretta, sentito il 29 gennaio dell’anno successivo, si protestò assolutamente estraneo a quanto gli veniva contestato, dichiarando:
“Io sono quasi sempre alla mia residenza nell’isola degli Sparagi e ben di rado vengo in quest’isola. Non saprei dire se nella sera indicatami del 24 settembre 1865 io mi trovassi in quest’isola oppure in quella di Sparagi però ovunque fossi non mi sono mosso nella notte di casa giacchè non sono uso andare nella notte girovagando e semprechè vi siano dei testimoni che possano contestare la mia verità in quell’affare io son pronto a sopportare tutte le conseguenze della legge”.
Il Webber, chiamato ancora una volta dal giudice mandamentale, nel confermare i suoi sospetti sul Berretta, dichiarava di non aver “…altre prove da somministrare per meglio accertare la colpevolezza del medesimo. Onde stabilire però l’odio e il malanimo che ha ognor avuto il detto Berretta contro la mia casa cercando sempre sia con parole che con fatti d’insultarla e recarci danno, potranno sentirsi in esame li nominati Giacomo Simoni, Antonio Derosa e Pietro Mamberti contadini di quest’isola”.
Proseguendo nell’istruttoria, il pretore procedette quindi all’esame dei testi. Caterina Colla, domestica del Webber, dichiarò di aver notato l’incendio dalla sua camera, di aver immediatante avvertito il padrone, ma di non aver visto nessuno che appiccava il fuoco, né avrebbero potuto vederlo altre persone addette alla casa in quanto essendo giornata di domenica tutto il personale della villa si trovava fuori. Giacomo Simoni, che in passato aveva lavorato alle dipendenze del Webber, riferì che in occasione della costruzione di un muro di confine fra le due proprietà era nata una discussione tra il Berretta e il figlio del Webber e che quest’ultimo era stato dal primo apertamente minacciato. Antonio Derosas, dopo aver detto che “…è cosa notoria in tutto il paese che il Natale Berretta è in aperta inimicizia con la famiglia del Sig.Webber a motivo di una lite per un pezzo di terreno posto nella regione Valle Maggiore”, confermava anche lui di aver sentito il Berretta minacciare apertamente il figlio del Webber. Ed infine Pietro Mamberti, terzo teste indicato dall’inglese, depose che “…tra il Natale Berretta e la famiglia del Sig.Giacomo Filippo Webber esiste un odio piuttosto forte a motivo di una lite per un pezzo di terreno di cui il Webber rimase vincitore, ma io non so – aggiunse il Mamberti – se quest’odio abbia potuto spingere il Berretta a rendersi autore dell’incendio della selva dei pini, solo dirò che quattro anni circa or sono io lavoravo a far muro per conto del Berretta, quando passato in quelle vicinanze a cavallo un uomo di servizio del Sig.Webber, il Berretta prese a dire che quell’uomo era mandato ad invigilare ciò che lui faceva dal bastardo di quel napolitano alludendo al figlio adottivo del Sig.Webber che è nativo di Napoli e proseguendo a minacciare disse che un giorno o l’altro gliel’avrebbe fatta pagare”.
Il teste chiave dedotto dal Webber, Giò Battista Olivieri, soprannominato “Bazzò”, fu però preciso e dettagliato e riferì al giudice che mentre rientrava a casa unitamente al figlio Pietro “…giunti nel tenimento detto La Padula proprio del Sig.Giacomo Webber e precisamente al sito ove esiste una selva di pini vidimo un uomo armato di fucile da una mano e con l’altra tenendo in mano una materia incendiaria con cui appicciava fuoco alle erbe secche esistenti in mezzo a quei pini. A tale vista mi fermai col mio figlio ed avvicinateci pian piano senza far rumore di sorta sulla tema anche che quell’individuo avrebbe potuto farci del male accorgendosi della nostra presenza, riconobbi in quest’ultimo il Natale Berretta del fu Antonio oriundo corso e residente nell’isola degli Sparagi il quale continuava colla materia incendiaria ad appicciar fuoco or qua or là in quella selva di pini”. Aggiunse quindi: “Il Berretta è un uomo di pessime qualità morali, prepotente e capace di commettere simili e maggiori reati. Lo scopo poi di questo maleficio a danno del Sig. Webber a mio credere proviene per causa di litigi che il Berretta ebbe a sostenere col figlio adottivo di detto Sig.Webber e nei quali questi riportò vittoria e non sapendo come sfogare il suo odio che nutre contro della famiglia Webber cerca tutti i mezzi per farci del danno”.
Pietro Olivieri, sentito subito dopo, confermò in pieno la deposizione paterna precisando: “…vidi che in mezzo a quei pini vi era un individuo che al chiaro della luna mandava il fuoco e conobbi per un certo Natale Berretta del fu Antonio pastore oriundo corso”. Precisò poi che “…il Berretta è ritenuto per uomo prepotente, vendicativo e capace di commettere reati di simil genere”.
Il giudice, malgrado tali concordi deposizioni, forse per verificare eventuali ripensamenti, prima di rimettere gli atti al tribunale ritenne opportuno risentire Giò Battista Olivieri; lo fece quindi ricomparire a distanza di circa due mesi e questi, avuta lettura della precedente deposizione. dichiarò di “…confermarla e ratificarla in ogni sua parte per essere quanto in essa detto la pura verità, facendo però osservare che vi occorse uno sbaglio nella dichiarazione del padre che è fu Dono e non Antonio”. L’Olivieri volle anche aggiungere: “Né io né mio figlio fecimo parola colla famiglia Webber di quanto c’era occorso di vedere nelle sera del 24 settembre 1865, si è perchè abbiamo pochissima conoscenza e minima relazione sia con detta famiglia che con quella del Berretta e poco l’importava che fosse stato commesso quel reato tanto più che anch’io tengo della proprietà e non volevo inimicarmi col Berretta. In un giorno però di quest’estate passata mio figlio Pietro, essendosi incontrato al Sig.Giacomo Filippo Webber, questi cominciò a parlargli del danno che gli era stato cagionato dall’incendio …e ad eccitarlo a narrargli se la nostra famiglia, siccome solita a passare in quelle adiacenze, non ci fosse mai occorso di vedere qualcuno recargli danno e segnatamente se nella sera dell’incendio fossimo di colà passati ed avessimo visto qualcuno. Allora mio figlio non potendo celare la verità raccontò al Sig.Webber che l’autore dell’incendio era il Berretta avendolo visto sia lui che io quando appicciava il fuoco”.
Il tribunale di Tempio, ricevuti gli atti e ravvisando a carico del Berretta gli estremi del reato di incendio doloso, allora di competenza della corte d’assise, rimise gli atti al procuratore generale in Cagliari che il 30 agosto 1867 incriminò il Berretta disponendone la cattura e la traduzione alle carceri di Sassari per essere giudicato. Il Berretta, avuta notizia del provvedimento a suo carico, sebbene ormai settantenne, si diede alla macchia; e fu forse a seguito di ciò che nacque la leggenda del Berretta bandito nascosto negli anfratti dell’isola di Spargi. Non è dato di sapere se effettivamente il Berretta abbia trascorso a Spargi la sua latitanza, ma è certo che le numerose spedizioni compiute dai carabinieri nell’isola allo scopo di catturarlo rimasero senza esito. Il 26 settembre del 1868, dopo oltre un anno di latitanza, appreso che il processo era stato fissato, Natale, con una cauta marcia di avvicinamente durante la quale dovette certamente godere di connivenze e protezioni, si costituì direttamente nelle carceri di Sassari e il 13 febbraio il comparve nell’aula di assise davanti ai giudici e ai giurati ben munito di difesa e soprattutto ben munito di testi disposti a destabilizzare la deposizione a suo tempo resa dai due Olivieri.
Il Webber, evidentemente tacitato e risarcito, non si costituì parte civile, per cui il principale obiettivo della difesa era ora quello di destabilizzare e rendere poco credibili le accuse mosse dai due “Bazzò”.
Vennero escussi i testi Gian Leonardo e Vincenzo Bargone, Vincenzo Biaggi, Francesco e Nicolò Susini, Giacomo Gambarella e Giulio Ferracciolo; tutti maggiorenti isolani e quasi tutti consiglieri comunali i quali, salvo qualche defezione, erano evidentemente decisi a far quadrato in difesa del Berretta.
Vincenzo Bargone, dopo aver detto di conoscere benissimo i due Olivieri come “…persone di buona moralità, assidue al lavoro di campagna e rispettosi delle cose altrui …degne di fede ed incapaci di poter affermare, massime nanti l’autorità giudiziaria, una cosa diversa da quella che loro consta per cui io non avrei difficoltà di deferire ai loro detti”, precisò che ignorava se “…i medesimi siano in buone o cattive relazioni col Natale Berretta o col Signor Filippo Webber. Ho inteso, sono alcuni mesi, che agli Olivieri siano state uccise due vacche, ma niente mi consta sull’autore”.
Di opinione diversa questi tutti gli altri testi; Francesco Susini, dopo aver tenuto a precisare di conoscere i due Olivieri, anche nella sua qualità di consigliere comunale, e disse che erano persone “…di non cattiva moralità, però tenute in poco conto perchè, massime il padre, considerati come menti stupide, di poco senno e di scemenza nei loro detti e nei loro fatti, avendoli sperimentati nei diversi affari, motivo per cui poco o niente deferisce ai loro detti”; Nicolò Susini, anch’egli consigliere comunale, definì gli Olivieri “…persone di buona moralità, assidui al lavoro e rispettosi con tutti” -aggiungendo che- “…però i medesimi sono comunemente tenuti per persone piuttosto semplici e di poco senno, motivo per cui poco si deferisce ai loro detti nei quali si dimostrano variabili afffermando o negando ciò che prima avevano affermato o negato”. Ed anche Giulio Ferracciolo confermò che gli Olivieri pur di “…buona moralità, assidui al lavoro e incapaci di poter offendere alcuno, però non posso negare che siano piuttosto semplici e di poco senno, incostanti e variabili nel loro dire e nel loro fare a modo che io per primo presto poca fede ai loro detti e questo modo di agire in essi mi pare che dipenda da malattia mentale, quale malattia, or pochi mesi or sono si è visibilmente manifestata nel figlio Pietro, per guarirsi della quale è partito in Terraferma”. Quest’ultima circostanze venne confermata dal teste Giacomo Gambarella, medico condotto di La Maddalena, che tuttavia minimizzò la cosa dichiarando di “…potere in coscienza affermare che i medesimi sono di ottima moralità, dediti al lavoro ed incapaci di potere, massime nanti l’autorità giudiziaria, dichiarare una cosa diversa da quanto che loro consta. E’ vero che il figlio Pietro da due mesi a questa parte soffre l’ipocondria per la cui guarigione, secondo il mio consiglio, è partito, or è poco tempo, per il Continente; ignoro quale sia la vera causa che gli abbia prodotto tale malattia”.
Tutti affermarono di non essere a conoscenza se gli Olivieri avessero rapporti con il Webber o motivi di astio nei confronti del Berretta anche se confermarono di aver saputo che ad essi, in epoca immediatamente successiva alle dichiarazioni rese al giudice, erano state uccise due vacche.
Di diverso piglio le deposizioni di Vincenzo Biaggi e di Gian Leonardo Bargone le cui dichiarazioni, che nei verbali appaiono ben evidenziate con vistose sottilineature in rosso che ci è parso opportuno ripetere in questo testo in quanto le frasi rimarcate sono state forse quelle che hanno determinato l’esito del giudizio.
Il primo teste, anch’egli consigliere comunale, affermò che gli Olivieri “…sono tenuti, massima il padre, in concetto di persone di poco conto e di poca fede nei loro detti, quindi dico francamente che io non deferirei a quanto essi mi potessero dichiarare, e ciò non tanto per malefizio quanto per imbecillità che evidentemente ha dimostrato sempre il padre e da cinque o sei mesi anche il figlio, il quale si vuole che sia così divenuto a causa di una sua amorosa. Per quanto ho inteso i detti padre e figlio Olivieri sono in buona relazione col Signor Filippo Webber, col quale devono trattare perchè hanno le proprietà vicine, ed ho inteso che gli stessi padre e figlio Olivieri siano in poco buona armonia col nominatomi Natale Berretta, che bene conosco a causa di dispute di terreni e di pascolo abusivo nei medesimi ed ho inteso pure, saranno otto o dieci mesi, che ai ridetti Olivieri siano state uccise due vacche appunto in questi terreni posti in ”Cala Francese” senza però che abbia mai sentito da loro o da altri che questo maleficio sia stata opera del Berretta”.
Analoga la deposizione di Gian Leonardo Bargone, anch’essa marcata dalla sottolineature dei giudici: “…posso in tutta coscienza affermare, anche come membro della Giunta Municipale che il padre è un uomo piuttosto stupido a modo che poco conto si deferisce ai suoi detti; il figlio invece lo ritengo per un buon giovane, però da quattro o cinque mesi a questa parte si è osservata in lui una certa insolita serietà che si rassomiglia molto alla stupidezza del padre. Padre e figlio Olivieri sono stati sempre in buona relazione con il Signor Webber, a di cui conto prestano dei servizi come giornalieri nel suo tenimento. So ancora per parlarsene pubblicamente che gli stessi Olivieri non corrono niente bene col nominatomi Natale Berretta dimorante nell’isola di Sparagi, persona che ben conosco perchè essendo stati uccisi ai detti Olivieri due capi vaccini, sarà un anno circa, questi sospettano che un tal maleficio sia stato loro causato per opera del ridetto Natale Berretta”.
La difesa, infine, a dimostrazione della scarsa moralità dell’Olivieri padre produsse copia di una sentenza con la quale lo stesso, il 16 settembre 1865, era stato condannato a cinquanta lire di ammenda o a quindici giorni di carcere per il furto semplice di due tavoloni e di una stanga di legno di pino.
Negli atti processuali della corte d’assise non vi è traccia della partecipazione al dibattimento dei due Olivieri che non vennero neppure citati pur essendo stati i testi chiave che avevano dato luogo alla riapertura del caso e all’incriminazione del Berretta. A quell’epoca, difatti, salvo casi particolari in cui le parti ne facevano richiesta, quanto i testi avevano dichiarato in istruttoria veniva acquisito al dibattimento senza ulteriore conferma.
Nel pomeriggio del 13 febbraio 1869 i giurati emisero un verdetto di non colpevolezza e il presidente della corte Pinna Pabis diede lettura della sentenza che riconosceva l’imputato innocente ordinandone l’immediata scarcerazione.
Natale Berretta, dopo un anno di latitanza e quattro mesi e mezzo di carcere, poteva far ritorno nella sua Spargi: l’inviso Webber e l’ancor più inviso figlio adottivo rimanevano scornati al cospetto di tutta l’opinione pubblica maddalenina e i due Olivieri tacciati di follia e di imbecillità.
Il nostro singolare personaggio passerà il resto dei suoi giorni a Spargi e quando il conte Francesco Aventi, nel 1869, si recherà a trovarlo nel corso del suo viaggio di studi sull’agricoltura in Sardegna, appena pochi mesi dopo la conclusione della lunga vicissitudine giudiziaria, troverà il vecchio patriarca isolano nella sua bucolica dimora amorevolmente circondato da figli e nipoti con le sue 200 pecore, 100 capre, 40 vacche, maiali, orto, vigneto e seminativi. Un vero re omerico tornato a vivere felice nella pace di questo remoto angolo di mondo.
La vicenda sarebbe certamente piaciuta a Pirandello, che, se ne fosse venuto a conoscenza, anzichè “Il berretto…” avrebbe scritto “Il Berretta…a sonagli”.
Vedi anche: Berretta: i “Sovrani di Spargi”