Aspetti del lessico maddalenino
L’osservazione impressionistica di Vittorio Angius secondo la quale gli abitanti della Maddalena «parlano il corso mescolato di gallurese e genovese» è anteriore di circa venticinque anni alle conclusioni del Bonaparte, affidate a una lettera a Bernardino Biondelli secondo le quali «il maddalenese differisce pochissimo dal corso meridionale di Corsica».
Se si tiene conto delle diverse prospettive e delle differenti fonti d’informazione degli autori – l’uno, interessato superficialmente al dialetto, si sarà basato su luoghi comuni di circolazione locale, l’altro, animato da precise esigenze classificatorie, poteva contare su una documentazione scritta appositamente realizzata – le due posizioni potranno apparire meno in contraddizione tra loro di quanto a prima vista non sembri: perché è facile pensare che l’Angius si riferisse essenzialmente a fenomeni superficiali, soprattutto di ordine lessicale, tali da confermare l’impressione di un ‘dialetto misto’ nel quale le diverse componenti tendevano sostanzialmente a equivalersi; mentre Bonaparte, esaminando il maddalenino nella complessità dei tratti fonetici e morfologici, doveva evidentemente prendere atto del carattere essenzialmente corso oltremontano, sartenese, della varietà isolana.
Che nel novero dei dialetti sardo-corsi il maddalenino rappresenti una varietà ulteriormente orientata verso le tipologie linguistiche dell’isola settentrionale e mostri un’autonoma personalità rispetto al contesto gallurese è un dato acquisito della dialettologia contemporanea, certificato dall’impresa stessa del NALC che ha inserito la Maddalena nella sua rete di punti, con una valenza sostanzialmente diversa dalla funzione ‘di controllo’ attribuita a suo tempo dall’ALEIC a due punti esterni allo spazio insulare corso, Sassari e Tempio Pausania: e tuttavia il carattere sui generis della corsité linguistica del maddalenino è un dato sul quale vale la pena di insistere, con riferimento non tanto all’inevitabile apertura verso le correnti linguistiche dell’area gallurese (che veicolano tra l’altro modelli di superstrato culturale affatto differenti da quelli che riguardano oggi come oggi la Corsica), quanto alla componente ligure che, se già verso il 1840 doveva sembrare all’Angius significativa, a maggior ragione si dimostra tale, almeno per quanto riguarda gli apporti lessicali, a partire da fasi più recenti. Su questa particolarità della storia linguistica del maddalenino ho già formulato alcune considerazioni, distinguendo necessariamente tra una componente ligure per così dire costitutiva, data dall’influsso del bonifacino sul dialetto corso importato alla Maddalena dai primitivi abitatori, e una componente di molto successiva, legata in particolare all’afflusso di manodopera d’origine genovese e spezzina all’indomani dell’istituzione della base navale nel 1887.
La peculiare situazione della Maddalena, vera e propria ‘isola linguistica’ senza alloglossia, luogo d’incontro per correnti di varia origine e variamente intersecate sul lungo periodo, trae dunque origine dalle vicende del popolamento del territorio in epoca storica. Le Isole Intermedie o genovesemente (sulle antiche carte) Isole dei Caruggi, così chiamate per l’esiguità dei passaggi marini che le separano, sono distribuite tra la punta meridionale della Corsica e l’estremità nordorientale della Sardegna in due gruppi oggi appartenenti rispettivamente alla Francia (il cosiddetto Arcipelago di Lavezzi, disabitato) e all’Italia (l’Arcipelago della Maddalena vero e proprio, con l’unico centro abitato di La Maddalena); tuttavia esse appartennero storicamente, dopo la fase medievale della colonizzazione monastica, alla comunità di Bonifacio, isola linguistica ligure in Corsica. Rimaste a lungo pressoché disabitate, le isole cominciarono a essere frequentate nel XVII secolo da pastori corsi del retroterra bonifacino, che vi eressero un insediamento stagionale sul colle della Guardia Vecchia.
Col trattato dell’Aja del 1720 e col passaggio della Sardegna ai Savoia nel 1728, si aprì un contenzioso tra il governo vicereale e l’amministrazione genovese della Corsica, della quale gli abitanti della Maddalena sostenevano la sovranità: esso fu risolto nel 1767, alla vigilia dell’affidamento della Corsica alla Francia, mediante l’occupazione dell’arcipelago meridionale da parte delle truppe sabaude. Fino ad allora, informa un’anonima relazione del 24 marzo 1766, le cinquanta famiglie presenti sulla Maddalena e in numero minore a Spargi e a Caprera (per un totale di 150-200 ‘abitatori’), si trattenevano «dieci mesi l’anno nelle Isole, o terminati li raccolti de’ frutti, vale a dire in fine di luglio, od ai primi di agosto passano tutti colle loro famiglie a Bonifacio, ove fanno per due mesi la loro dimora; pendente dal tempo danno conto dei frutti ricavati dai bestiami ai loro padroni; presentano al Fonte Battesimale li figliuoli, che nel tempo precedente sono venuti alla luce, ed attendono pure agli altri particolari traffichi, ed interessi».
Il governo sardo fortificò l’isola principale e vi favorì l’immigrazione, col sorgere del nucleo primitivo dell’abitato a Cala Gavetta: la popolazione passò così a 506 abitanti nel 1784, a 867 nel 1794 ed era già di circa 2.000 persone nel 1814. La posizione strategica delle isole, che ne aveva motivato l’occupazione militare, implicava questa politica di ripopolamento, ma fu anche alla base delle ricorrenti rivendicazioni francesi, col tentativo di invasione nel 1793 da parte delle truppe rivoluzionarie. L’occupazione piemontese della Liguria nel 1815, con l’acquisizione degli scali rivieraschi, fece decrescere per un certo periodo l’importanza della Maddalena come porto militare, ma l’istituzione nel 1887 della base navale e dell’arsenale portò a un rapidissimo incremento della popolazione e al conseguente sviluppo edilizio: nel 1891 si contavano già 6800 abitanti, saliti a 8400 nel 1901 e a oltre 12.000 in base al censimento del 1931.
All’originario agglomerato costiero raccolto tra Cala Gavetta e Cala di Chiesa alle falde della Guardia Vecchia andarono così aggiungendosi nuovi quartieri, intorno a Piazza Comando (Piazza Umberto I), sede delle istituzioni militari, e nel sobborgo della Moneta dove, in contiguità con le strutture dell’arsenale e dell’ospedale militare, si stabilirono in prevalenza le maestranze immigrate all’atto dell’istituzione della base della marina militare. La fisionomia dell’abitato è dunque cambiata radicalmente dall’epoca in cui l’isola fu oggetto delle mire delle truppe rivoluzionarie (all’attacco partecipò anche il giovane Napoleone Bonaparte) e poi punto d’appoggio per la flotta di Nelson (1804) prima della battaglia di Trafalgar; ma anche rispetto alla data dell’acquisto da parte di Garibaldi (1855-1856) della sua proprietà sulla prospiciente isola di Caprera, oggi collegata alla Maddalena da una diga realizzata nel 1891. Ulteriori cambiamenti legati alla presenza militare americana, al suo ridimensionamento, allo sviluppo turistico e all’istituzione del Parco Nazionale, fino al mancato svolgimento dell’incontro dei G8 sull’isola, appartengono alla storia recente, per non dire alla cronaca odierna.
È facile ipotizzare che al primitivo nucleo di abitanti originari del retroterra bonifacino si siano aggiunti dopo il passaggio alla sovranità sabauda altri Corsi e in maggiore misura oriundi galluresi, destinati nell’insieme a costituire la base del popolamento dell’isola; altrettanto probabile è l’apporto demografico, in epoca precedente all’istituzione della base navale, di pescatori di origine italiana meridionale (ponzesi, campani e siciliani), e in misura probabilmente minore di Liguri, secondo modalità che riguardavano all’epoca un po’ tutti i rinascenti centri costieri della Sardegna e diverse località alto-tirreniche; ma a partire dal 1887 il principale incremento di popolazione fu senz’altro dovuto all’afflusso delle maestranze coinvolte nella costruzione dell’arsenale, originarie di diverse parti d’Italia e principalmente da Genova e dalla Spezia, città dalle quali proveniva la manodopera specializzata nell’edificazione di strutture militari marittime. (Che la popolazione della Maddalena risultasse in certo qual modo ‘mista’ anche anteriormente al 1887 si rileva ad esempio da alcune considerazioni estemporanee sul dialetto del Della Marmora secondo il quale «il fondo del dialetto Maddalenese è Corso, che rassomiglia a quello di Bonifacio: ma siccome le famiglie sono di tanti paesi, così il popolo si adatta a parlare quel dialetto di famiglia che da piccolo ha appreso dalla domestica educazione»).
Le memorie locali riferite da Renzo De Martino sono concordi nell’affermare che nel sobborgo della Moneta si sia sviluppata una vera e propria comunità linguistica distinta da quella maddalenina: «allora, pur essendo la distanza tra il centro e la frazione soltanto di pochi chilometri, le comunicazioni non erano facili […] e i due blocchi, praticamente isolati, svolgevano in modo autonomo la loro vita di relazione. A Moneta c’erano scuole, botteghe, qualche modesta trattoria, la chiesetta, il circolo ricreativo, un’efficiente cooperativa sociale, e, anche per questo, i residenti si recavano raramente ‘in paese’ e quasi sempre per particolari esigenze o in occasione di feste e cerimonie importanti (Carnevale, celebrazioni patronali, parate militari ecc.)».
L’amalgama su base prevalentemente ligure del ‘cantierino’ è confermata dalla tradizione locale e dallo stesso nomignolo attribuito dai vecchi Maddalenini agli abitanti di Moneta, chiamati ironicamente Mighelò per riprendere una locuzione genovese ricorrente (“io ce l’ho”) che doveva suonare particolarmente insolita rispetto alla forma isolana ghjè ghi l’agghju. Nondimeno, il processo di trasfusione di questa varietà nella parlata di tradizione locale dovette essere in qualche misura favorito dall’emergere, nell’impianto fondamentalmente corsogallurese del vecchio maddalenino, della componente antico-genovese a suo tempo assunta dalla parlata dei primitivi abitanti originari del Piali bonifacino. (La tradizione locale attribuisce tuttora differenze sensibili di pronuncia e intonazione alla parlata del centro cittadino rispetto a quella della Moneta – come del resto di altri quartieri – ma non pare che sussistano, oggi come oggi, sostanziali differenze di fonetica, morfologia, sintassi e lessico).
Le stratificazioni dell’apporto ligure in maddalenino sono in parte ancora leggibili attraverso le caratteristiche fonetiche e morfologiche che contraddistinguono alcuni esiti vistosi: se alla fase dell’influsso del bonifacino sul dialetto corso mi pare lecito ascrivere alcuni tratti ‘profondi’ e sostanziali di liguricità, alla fase dell’immigrazione ottocentesca si dovrà fare risalire invece un più corposo patrimonio lessicale che, integrato con più ridotti apporti di diversa provenienza (campana, siciliana e toscana in primo luogo) determina oggi più che mai la percezione diffusa del dialetto isulanu come varietà ‘mista’ nella quale si integrino essenzialmente elementi sartenesi, galluresi e genovesi.
Ho già dedicato alcune considerazioni alle vicende legate all’adozione del pronome e avverbio di origine ligure ghi in alcune parlate corse e peri-corse, compreso il maddalenino, e non ritornerò sull’argomento se non per ribadire come l’assunzione di un tratto morfologico così significativo da parte della parlata corsa destinata a essere trasferita alla Maddalena fino a diventare il primitivo nucleo dell’attuale parlata isulana, postuli di per sé anche l’affermazione di altri elementi liguri, sul modello di quanto è stato possibile ricostruire per la parlata di Ajaccio.
Di questa componente ligurizzante del ‘proto-maddalenino’ sopravvivono alcune evidenze nel dialetto attuale, come nel caso di aizzà “alzare”, che va con la forma omofona bonifacina più che con qualsiasi altro esito ligure, o della coppia mairina (meirina) “madrina”, pairinu (peirinu) “padrino”, che possono risalire soltanto a uno strato arcaico del bonifacino, documentato ancora dal primo documento scritto di tale dialetto, risalente agli anni Trenta dell’Ottocento: e a maggior ragione risulta rilevante la presenza del ‘fossile’ màira “matrice delle femmine”, che denuncia una specializzazione della forma antica per “madre”.
A questa fase, verosimilmente, bisognerà riferire almeno in parte anche la serie di ligurismi lessicali che denunciano, nel trattamento dei suffissi, un mancato adattamento morfologico al corso, secondo modalità ancora una volta analoghe a quelle registrate nel dialetto di Ajaccio: bancalà “falegname”, barbé “barbiere”, barrì “barile”, bazzì “bacile”, brasgé “braciere”, ferrà “fabbro”, puntarò “spillo”, ad esempio, non hanno subito l’adeguamento che riguarda invece brandali “alare del camino”, scusali “grembiule” e altri genovesismi pure presenti in maddalenino ma di grande diffusione anche in Corsica; e mi pare assai significativo, in particolare, il fatto che in maddalenino sia possibile registrare, attraverso l’ammutolimento della nasale velare, anche il diverso trattamento delle uscite in -un in una serie di voci di evidente derivazione genovese, rispetto al reintegro di tipo corso (-one, -onu): così ad esempio in coppie come giggiò-giggiònu “ghiozzo”, lagghjò-lagghjònu “merlo marino”, stagnù-stagnònu (e stagnalò-stagnalònu) “recipiente metallico”, magrò-magrònu “marangone”. In diversi casi, la presenza anche in bonifacino di un lessema genovese attestato in maddalenino si accompagna a caratteristiche fonetiche che ne denunciano il carattere arcaico, e si tratta ad esempio di voci come cantra “cassetto”, liccarissu “ghiottone”, mirizzana “melanzana”, murinéttu “macinino”, mùzzaru “muggine”, nìvaru “cielo nuvoloso” o zigara “cicala”, il cui aspetto fonetico, e in special modo la conservazione di [r] < -R-, -L- lascia escludere che si tratti di genovesismi appartenenti alla fase recente dell’immigrazione ligure alla Maddalena.
È interessante osservare poi, per la storia della stratificazione degli apporti genovesi, la presenza di allomorfi con significati differenti ma riferibili allo stesso etimo e a momenti diversi dell’evoluzione semantica della voce, fatto che lascia percepire fasi diverse di assunzione: si veda per tutti il caso di muzza “vulva, vagina”, che ha conservato [ts] del genovese antico e del bonifacino, rispetto a mussa “capriccio, vezzo, mania” che è un uso figurato della stessa parola, oggi di larghissima diffusione in area ligure, ma che può essere penetrato in maddalenino (in questo significato e in questa forma) solo dal genovese moderno, come riflette chiaramente il passaggio [ts] > [s]. (Mussa / muzza per “vagina” è tipo di area prettamente ligure che H. PLOMTEUX, I dialetti della Liguria orientale odierna: la Val Graveglia, Bologna 1975, pp. 686-688, fa derivare con ottimi argomenti da *MUTIUS. Per la diffusione della voce e lo sviluppo semantico nel senso di “fandonia” cfr. VPL, II, p. 178.)
A parte ciò, se non è necessario pensare che tutte le voci liguri che trovando corrispondenza in bonifacino escludono il corso risalgano alla fase antica dell’impianto del dialetto maddalenino (la massiccia ri-genovesizzazione lessicale tardo-ottocentesca può avere infatti contribuito a creare nuove convergenze), resta assai probabile che voci del lessico di base come agugghja “ago”, barba “zio”, cavagnu “cesto”, cuppetta “scodella”, frigugghja “scodella”, funzu “fungo”, gileccu “panciotto”, gummiu “gomito”, imbriagà “ubriacare”, lalla “zia”, liammu “letame”, lummazza “lumaca”, mischinu “poveraccio”, mugugnà “brontolare”, schigghjà “scivolare”, sciaccà “schiacciare”, sciancu “racimolo d’uva”, sciurtì “uscire”, sumenza “semente”, trógghju “lavatoio”, vindignà “vendemmiare”, zavatta “ciabatta” e altre ancora, tutte presenti in bonifacino, rappresentino ligurismi defluiti già in un contesto dialettale corso a diretto contatto con l’antica colonia.
Vale inoltre la pena di segnalare qualche caso di arcaismo antico-genovese che, per quanto assente dal bonifacino odierno (sul quale, nella fase recente di obsolescenza, ha agito non soltanto un processo generale di banalizzazione lessicale, ma anche il decisivo apporto sostitutivo del corso), dovrebbe confermare l’antica circolazione tra l’antico dialetto coloniale e il proto-maddalenino: valga per tutti il caso di trubbèa “improvvisa e violenta, ma breve tempesta di acqua e di vento”, che è senz’altro da avvicinare (con discrezione del prefisso inteso come preposizione) al genovese antico destorbera “sommovimento del mare, degli agenti atmosferici”. (Cfr. Anonimo Genovese, rima 85, vv. 53-54: «quando note e mar tempo era, / entre sì gran destorbera», che costituisce un unicum nella documentazione ma al quale va aggiunta la forma maschile destorber, destolbé nello stesso autore («tanto fo quelo destolbé / che no poén inseme star», rima 49, vv. 157-158, riferito a una tempesta e «dà zo che tu inpremui, / no dai, in paxe destorber», rima 136, vv. 89-90, nel senso figurato di “discordia”: ANONIMO GENOVESE, Rime e ritmi latini, a cura di J. Nicolas, Bologna 1994, rispettivamente alle pp. 263, 158, 379); si tratta di un deverbale da destorbar “turbare” presente ad esempio nelle trecentesche Questioim de Boecio («la bonna ventura […] destorba veraxi bem per soe luzenge»: E.G. PARODI, Studj liguri. Il dialetto dei primi secoli, in «Archivio Glottologico Italiano», XIV [1898], pp. 1-110, a p. 67) e registrato anche nella variante metatetica destrobar, sempre dal Parodi.)
Di estremo interesse è poi la forma gupà per “compare”, per la quale si hanno riscontri solo nella Riviera di Levante (dove a Cogorno ricorre cupâ), fatto che se da un lato contribuisce a confermare l’origine prevalentemente ‘orientale’ dell’antica liguricità bonifacina, a cui verosimilmente la voce è da attribuire, giunge per il maddalenino a ulteriore conferma del ricorrente utilizzo di ligurismi in un campo semantico di notevole importanza come quello relativo ai nomi di affinità e parentela.
La mai interrotta (fino al XVIII secolo) e ormai accertata circolazione linguistica tra la Metropoli e la colonia bonifacina dovette a sua volta avere ricadute sul proto-maddalenino introducendovi qualche ulteriore elemento lessicale che, per quanto assente oggi in bonifacino, dev’esservi pure transitato: è il caso, già commentato altrove, del verbo mirà nel senso di “guardare”, un’innovazione genovese del XVII secolo conservatasi anche alla Maddalena (come a Bonifacio) in espressioni cristallizzate o in significati specifici, o di una voce come pilipistu “lite, baruffa”, che risale verosimilmente alla locuzione di connotazione gergale esse à pollo pesto “essere in lite” presente nel genovese del XVII secolo e successivamente mai più registrata.
Quanto a citronu per “limone”, a sua volta, conferma la trafila semantica che ha portato in Liguria all’adozione di setrun per “arancia”, partendo appunto da “limone”, fossilizzatosi in questa fase nel proto-maddalenino e passato progressivamente ad “arancia amara” e poi ad “arancia” tout court nel ligure continentale e nell’antica varietà coloniale di Ajaccio (bonifacino e maddalenino hanno conservato per quest’ultimo significato il più antico portugallu).
La panoramica fin qui descritta pone tra l’altro l’esigenza di distinguere tra gli apporti liguri più strettamente legati al contatto ligure-corso nel comprensorio pialincu e quelli che ebbero larga circolazione in Corsica e specificamente nella Corsica meridionale: è evidente sotto questo punto di vista, infatti, il diverso rango dei genovesismi antichi presenti alla Maddalena (che, essendo condivisi oggi dal maddalenino col solo bonifacino, paiono più direttamente legati a una storia strettamente locale), rispetto a quelli che risultano comuni a tutta o a molta parte della Corsica: infatti, nel caso dei genovesismi condivisi dal corso (almeno se si ragiona in termini di etymologia proxima) non vi sarebbero particolari ragioni per parlare di ligurismi in senso stretto, considerando la probabilità della diffusione e della popolarizzazione di tali voci a livello regionale, in Corsica, già prima dello stabilizzarsi del maddalenino come varietà autonoma. Vero è però che il concetto di ‘corso’ in senso unitario è di per sé alquanto relativo, e che i canali di assunzione nel proto-maddalenino di un genovesismo di diffusione generale in Corsica non dovrebbero risultare particolarmente diversi da quelli che generarono la componente più specificamente ‘bonifacina’ del lessico di tale dialetto; al tempo stesso non è neppure da escludere a priori un’introduzione seriore di corsismi (e con essi di genovesismi di ampia diffusione in area corsa) secondo meccanismi che possono anche avere aggirato lo snodo bonifacino, attraverso i contatti dei pialinchi successivamente radicatisi alla Maddalena con altre aree della Corsica ad esempio, o mediante l’immigrazione alla Maddalena di gruppi provenienti da località corse più remote, o addirittura per il tramite di contatti commerciali e marittimi diretti (peraltro difficilmente immaginabili allo stato attuale) tra la Maddalena e i porti corsi posti a nord di Bonifacio.
Come che sia, il maddalenino condivide con l’area corsa un discreto numero di ligurismi variamente rappresentativi e variamente databili, in qualche caso caratterizzati da un’effettiva diffusione sull’intera isola maggiore, in altri presenti soltanto in alcune subaree, non necessariamente prossime alle Bocche: basterà qui citare voci come ancassà “meno male che”, bandiretta “ventaglio”, barconu “finestra”, bazzì(nu) “catino, bacile”, bolentinu “tipo di lenza”, bonadonna “levatrice”, brummézzu “esca da gettare in mare” e brummizzà “gettare in mare l’esca”, camallà “trasportare pesi sulle spalle” e camallu “facchino”, camujina “varietà di pera”, catucciu “orinale”, cernégghju e ciarnegghju “setaccio”, chjappuzzu “inetto”, ciàttu “pettegolezzo”, ciattulà “spettegolare” e ciàttula “pettegola”, cuffa “grossa cesta”, fangóttu “fagotto”, frusgéttu “nastro, fiocco”, futta “stizza, rabbia”, garbusgiu “cavolo cappuccio”, gottu “bicchiere”, grattarina “grattugia”, impidita “incinta”, incallatu “azzardato”, lacertu “sgombro”, lerfiu “labbro grosso”, lerfió “labbrone”, liccia “fortuna”, lizzinu “cordicella sottile per le reti”, lunetta “ugola”, mangónu “blatta, scarafaggio”, masca “guancia, gota”, mìsuru “velo da testa”, muraddha “muro in genere”, murscellu “filo di corda”, parpélla “palpebra”, partusu “buco”, patansciu e patanciu “affanno” e patancià “ansimare”, puntarò “spillo”, scusali “grembiule”, sghindà “evitare, sgusciare, deviare”, spanticà “distruggere”, stacca “tasca”, stacchitta “bulletta”, stracquatu “restituito dal mare”, stralabbiu “strampalato”, sugu “amido” e insugà “inamidare”, taccu e taccatu “puntello di legno per sostenere le barche”, tisuri “forbici”, trugnu “maturo, pieno, grosso, prosperoso”, zembu “gobbo”, zérru “smaride” e così via.
Una rassegna di questo tipo (tutt’altro che esaustiva) richiederebbe anche una ricognizione più puntuale sulla distribuzione del lessico d’origine genovese in Corsica, perché allo stato attuale non si può escludere che ciò che appare documentato ad esempio in Balagna o a Bastia abbia in realtà (o abbia avuto in passato) una diffusione maggiore. Se poi assumiamo la possibilità che Bonifacio si configuri come uno dei centri di irradiazione del lessico genovese nella Corsica meridionale (e da qui nella Corsica in generale), i genovesismi di subarea genericamente corsa meridionale presenti anche in maddalenino – anche quando fossero assenti nel bonifacino attuale – non consentono di disegnare correnti linguistiche particolarmente eccentriche rispetto alla storia del rapporto storico privilegiato tra bonifacino e (proto)maddalenino. In quest’ottica, inoltre, andrebbe anche tenuto conto della possibilità che l’occorrenza di uno stesso genovesismo in maddalenino e in bastiaccio, ad esempio, attenga meno a una storia di contatti diretti che di autonome assunzioni dal centro genovese: da questo punto di vista, è istruttivo osservare ad esempio che il maddalenino condivide una serie importante di genovesismi col dialetto capraiese, che si configurano in parte come prestiti penetrati in epoca relativamente tarda attraverso il lessico marinaro, ponendo il problema di una circolazione alto-tirrenica e insulare di tecnicismi liguri (o comunque veicolati da Genova) le cui vicende non attengono necessariamente alla presenza politico-amministrativa della Repubblica in Corsica.
Un altro aspetto interessante della componente ligure nel lessico maddalenino è legato ai genovesismi (o voci ascrivibili con buona probabilità a tale categoria) presenti non solo in corso, ma anche in gallurese e in sassarese, e di qui penetrati talvolta in maggiore profondità nell’area sarda. Si tratta senza dubbio di un numero più limitato di voci rispetto ai genovesismi che il maddalenino ha in comune col solo corso, ma che si inseriscono in una problematica di estremo interesse, quella relativa alle modalità e alla cronologia dell’impianto delle varietà sardocorse a sud delle Bocche di Bonifacio: si tratta ad esempio di voci come abbrià “abbrivare” e abbri(v)u “velocità”, baìnu, baracóccu “albicocco” e barracucca “albicocca”, brandali, bugatta, carrèca e carrichetta “seggiolina”, carricó(nu) “seggiolone”, carrúgghju, cricca “saliscendi della porta”, fardétta “gonna, sottana”, figarettu “fegato”, ghjastimma “bestemmia” e ghjastimmà “bestemmiare”, insarzì “rammendare”, mariòlu “grossa maglia”, parastaggi “scaffale”, pindini, prescia e sprescia “fretta”, pummata e pumatta “pomodoro”, rilógghju “orologio”, rimiscià “rimescolare” e rimisciu “rimescolio”, schincu “stinco”, sciappà “spaccare”, sciuppà “scoppiare”, sciscìa “papalina, berrettino”, spicchjetti, tirasgia “ciliegia”, zina “riccio”, ziminu e zimminu; e occorrerebbe infine interrogarsi sul valore da attribuire a un gruppo più ristretto di ligurismi che il maddalenino ha in comune, apparentemente, col gallurese e il sassarese ma non col corso, e che potrebbero almeno in parte confermare l’esistenza di correnti di genovesità mediate dall’area turritana e castellanese, tali da arrivare a influenzare in maniera indiretta la stessa Bonifacio con elementi che risalenti a stratigrafie liguri estranee all’impianto originario della dialettalità locale: si tratta tra le altre di voci come alliccu “lusinga” del sassarese (genov. léccu “id.”), bagna “sugo, salsa” presente sia in sassarese che in gallurese (oltre che in logudorese e campidanese), bulià “rimescolare, intorbidare” (genov. bulegâ), chja(v)éddhu “foruncolo” (genov. ciavéllu), frisciòla “frittella” (genov. frisciö), forse di marrapiccu “piccone” (genov. marapiccu) e ranfiu “uncino” (genov. granfiu) presenti in gallurese, oltre che al noto e recente fainè “farinata di ceci” (genov. fainâ), in espansione a partire dall’area turritana, che testimonia della costante apertura di questi canali. La storia e la semantica della voce zimminu, è assai complessa. In area ligure essa indica essenzialmente un tipo di preparazione del pesce, condito con un intingolo a base di verdure, o un particolare modo di preparare i legumi, essenzialmente i fagioli; nella prima accezione zimino è passato al toscano dialettale dell’area tirrenica e di qui all’italiano col significato di “salsa per piatti di pesce, a base di verdure” o “la pietanza condita con tale salsa, specialmente il baccalà”, venendo a coincidere col battesimo locale cacciucco; alla Maddalena, come in Corsica, significa piuttosto “zuppa di pesce”, significato noto anche in Gallura, dove prevale però quello figurato di “confusione, disordine” (L. GANA, Il vocabolario del dialetto e del folklore gallurese, Cagliari 1998, p. 628); a Sassari, indica addirittura una grigliata di interiora di pecora. L’impressione è quindi che la voce sia partita dalla Liguria assumendo significati diversi a seconda di come veniva recepita: se la si associava all’idea di un “piatto di magro”, andava specializzandosi nel senso di “vivanda a base di pesce e verdura” o di “vivanda (modo di cucinare) a base di verdura”, “modo di preparare certe verdure”; se prevaleva l’idea che si trattasse di una vivanda composta con vari ingredienti, poteva passare a indicare un qualsiasi piatto formato con scarti, avanzi o comunque con materiali poveri, il che spiega il significato, apparentemente incongruo, assunto in sassarese; da qui al senso figurato di “confusione, disordine” il passaggio è ovviamente facile. L’etimologia della voce è discussa: alcuni fanno risalire la voce italiana zimino a cimino, variante di cumino (spezia che sarebbe stata originariamente utilizzata nella preparazione), ma questa spiegazione non regge per la presenza di dz-, z- nella forma genovese e in tutte quelle derivate, mentre sarebbe in tal caso richiesto ts-, s-. Secondo altri (tra cui H. PLOMTEUX, I dialetti della Liguria orientale odierna cit., s.v. zemin) si tratterebbe dall’arabo zâmin o zamîn che però significa “grasso”, mentre lo zimino è essenzialmente, in origine, un piatto di magro. Personalmente ritengo che occorra postulare una forma genovese originaria azimin, azemin (con discrezione di a- percepita come preposizione, e del resto la locuzione faxö a zemin è ricorrente), confermata del resto dalla forma corsa, che è azziminu. Diventa più che probabile in tal modo la derivazione dal vecchio grecismo azzimo “non lievitato” passato per estensione a significare un piatto “non condito”, ossia “di magro”.
Quel che rimane dopo questa ‘scrematura’ della componente ligure nel lessico maddalenino, salvo ulteriori possibilità di ascrizione a fasi anteriori, dovrà in larghissima parte ascriversi alle conseguenze dirette dell’immigrazione ottocentesca, ed è lo strato quantitativamente più ricco. All’interno di esso vi sono del resto alcune voci facilmente riconoscibili per il loro carattere recente, come piè “castagna/e mondata/e e bollita/e”, le cui caratteristiche fonetiche e morfologiche sono per certi aspetti speculari a quelle di fainè; alla sola caduta di -r- è affidata invece la riconoscibilità del carattere recente di buinà “muoversi velocemente, detto del vento o della lenza” e “espressione che indica il rumore caratteristico del girare vorticoso della trottola”, rifatto chiaramente su buiña “bolina” dal precedente borinna, prestito inglese di tramite francese attestato in genovese dal XVII secolo.
In altri casi invece, alcuni elementi lessicali risultano riconoscibili nella loro provenienza subareale: ad esempio, l’esito spezzino di -CL- si riconosce facilmente in guccéllu “ago per riparare le reti” rispetto ad agugghja che abbiamo già attribuito al fondo ‘bonifacino’ originario, perché il ligure orientale differisce dal genovese per l’esito di -CL- interno (cfr. spécio contro spégiu “specchio”); di diffusione prettamente rivierasca sembra essere anche una voce come bibégula “bavosa”. (Per questo ittionimo lo spezzino ha infatti babèca (F. LENA, Nuovo dizionario del dialetto spezzino cit., p. 25), di cui la forma maddalenina potrebbe essere un diminutivo, contro il tipo genovese ba(v)éc(ur)a: per la distribuzione dei due tipi cfr. M. CORTELAZZO, Vocabolario delle Parlate Liguri, II, 1: I pesci e altri animali marini, Genova 1995, pp. 26-27 e 28. Vero è che il bonifacino ha a sua volta bebbecula, che potrebbe essere alla base della forma maddalenina (R. MINICONI, Vucabulariu marinarescu bunifazzincu, Ajaccio 2003, p. 22): in questo caso è il fondo ligure-orientale dell’antica parlata coloniale a concordare con l’area d’origine di una parte consistente dei nuovi popolatori ottocenteschi, rendendo difficile l’attribuzione dell’ittionimo all’uno o all’altro strato.)
Per il resto, un repertorio di diverse decine di genovesismi facilmente riconoscibili come tali propone, come già nel caso del capraiese, sollecitazioni di ordine più sociolinguistico ed etnolinguistico che strettamente dialettologico, poiché induce a interrogarsi sulle modalità di acquisizione di un numero di voci veramente impressionante e sulle motivazioni di tale accoglienza da parte del ‘vecchio’ maddalenino nella sua fase anteriore all’immigrazione massiccia dalla Liguria alla fine del XIX secolo: non pare certo sufficiente in tal senso invocare esclusivamente una sorta di predisposizione data dalla presenza della componente ligure bonifacina, che pure dovette avere un suo ruolo nel favorire l’acclimatazione di nuovi genovesismi.
L’importazione di specializzazioni tecniche legate all’attività cantieristica e il prestigio sociale connesso a quest’ultima non sembra sufficiente, a sua volta, a spiegare il radicamento così massiccio di voci di uso generale e di altre appartenenti a campi semantici che non hanno particolarmente a che vedere col lavoro prevalentemente svolto dalle maestranze immigrate; la rinnovata adozione di tecniche provenienti da una consolidata tradizione ligure potrà forse spiegare l’ulteriore adozione di termini legati alla marineria e alla pesca (comunque non preponderanti), ma desta comunque meraviglia la quantità e la qualità di quelli legati all’ambiente naturale, all’agricoltura e all’allevamento, al corpo umano, all’infanzia, ai rapporti sociali, all’abbigliamento, all’alimentazione, all’arredamento e alle masserizie, a mestieri diversi, fino a voci di carattere espressivo o connotante e ad altre che testimoniano dell’adozione di tratti culturali riferibili al folklore e alla cultura popolare ligure.
Sul significato e sulle modalità di tale radicamento va dunque richiamata l’attenzione, sottolineando peraltro il carattere regressivo che la ‘liguricità’ del maddalenino è andata assumendo negli ultimi tempi: la componente ligure recente del lessico maddalenino, in particolare, sembra sottoposta più delle altre a processi di sostituzione in senso italianizzante, che riflettono più in generale la banalizzazione del lessico dialettale secondo modalità tutt’altro che esclusive della realtà maddalenina. Il lessico riferito dai repertori utilizzati, che fanno riferimento a consuetudini linguistiche degli scorsi decenni, è stato in molti casi sostituito da neologismi italianizzanti o è comunque percepito come ‘antiquato’ dalle persone interrogate in merito: si assiste oggi, così, al prevalere di voci come occhiellu su gassetta, bàmbula su bugatta, banderola su bandiretta “ventaglio”, barbieri su barbè, vindimmia su vindigna, mentre in qualche caso prevalgono voci galluresi (o che il maddalenino ha in comune col gallurese) di maggiore diffusione rispetto ai ligurismi esclusivi: tale sembra il caso di sbattulonu o sbattulata ormai decisamente preferito a patta “caduta accidentale”, di macchinu rispetto a mattù “pazzia”, di spirlonga per fiammanghilla “piatto ovale da portata”, di poccia per bratta “posa del caffè”, di curciu che ha quasi totalmente sostituito mischinu “poveraccio”, e dello stesso zinu “riccio di mare” che sta sostituendo la forma locale femminile zina. L’impressione è dunque che la componente ligure più recente, asso ciandosi a un’idea di ‘modernità’, sia anche quella più vulnerabile di fronte ai processi di rinnovamento del lessico, forse anche per il venir meno di esigenze di comunicazione con la metropoli ligure, o comunque di comunicazioni affidate all’uso del vernacolo. (La condivisione di un lessico comune a base genovese, soprattutto nel campo di tecnicismi marittimi legati al mondo della pesca, della cantieristica ad altre specializzazioni, sembra avere favorito in passato la comunicazione interdialettale tra operatori liguri e quelli di aree interessate a vario titolo sottoposte a influsso culturale ed economico ligure, indipendentemente da una conoscenza attiva del genovese: tale condizione era in vigore almeno fino a tempi recenti alla Caleta di Gibilterra, a Capraia finché la parlata locale fu in vigore, e anche a Stintino, dove peraltro, secondo alcune testimonianze, vi erano fino a qualche anno fa persone in grado di utilizzare il dialetto alassino come specifico linguaggio tecnico nell’ambito delle costruzioni nautiche.)
Alla fine comunque, se si assommano i ligurismi di probabile importazione recente all’insieme di quelli che, con varie motivazioni, abbiamo attribuito a una storia anteriore e diversificata di contatti col bonifacino, con la Corsica e l’area turritana nelle loro fasi di esposizione all’influsso genovese e direttamente con la Liguria, la notazione impressionistica dell’Angius ricordata all’inizio di questo articolo non appare priva di logica, per quanto resti chiaro al linguista il ben diverso rango delle componenti grammaticali del maddalenino (in cui l’influsso ligure è assai più limitato, rispetto a quelle lessicali) sia per quanto riguarda la classificazione scientifica della parlata, sia per quanto riguarda la sua percezione locale: come e più del capraiese, il maddalenino rappresenta insomma un episodio significativo delle modalità e della lunga durata dell’interferenza ligure in area corsa e peri-corsa, di particolare interesse storico anche per le modalità del rapporto col bonifacino e per i possibili paralleli col caso del dialetto di Ajaccio, e l’analisi del suo lessico contribuisce a riaprire la questione dell’influsso genovese in tutta l’area insulare dal Capo Corso alle coste settentrionali della Sardegna.
Fiorenzo Toso