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Canna

Canna (nome scientifico Arundo donax, nome locale canna). Articolo della ricercatrice e  scrittrice maddalenina Giovanna Sotgiu.

Di probabile origine asiatica la canna si è perfettamente naturalizzata in tutto il bacino del Mediterraneo, propagandosi, grazie a dei forti rizomi striscianti, nei luoghi umidi. Fiorisce dopo due o tre anni di vita, a partire dal mese di agosto, con pennacchi setosi e morbidi che, mossi dal vento, appaiono argentei.

Nelle nostre isole, degli antichi canneti un tempo indispensabili per riparare le colture, non rimangono che pochi lembi: a Padule (in quello che era l’orto di Leopoldo), a Spalmatore lungo la vadina, a Nido d’Aquila in regione Stagnaledda, presso l’orto di Rachela (1) e Cala di Chiesa, a Santo Stefano (fra la casa Serra e quella del pastore), a Caprera presso Stagnali.

Recisi a luna nascente, i lunghi e flessibili steli, divisi in tre pezzi disposti a triangolo, trovavano largo utilizzo all’interno dell’orto, come sostegni per le piantine di fagioli e pomodori; nelle vigne lunghe barriere di canne, legate fra loro e disposte trasversalmente ogni 10 filari di viti, smorzavano la forza del vento, mentre i furchetti (tratti di stelo tagliati in modo da ottenere un incavo nella parte alta) costituivano i sostegni per gli innesti delle viti.

D’altra parte anche nella costruzione delle case esse rivestivano un ruolo importante: la copertura del tetto, infatti, veniva ottenuta con canne legate strettamente fra loro (incannicciatu), coperte di calce e sovrastate dalle tegole: esempi di questo uso ormai scomparso sono ancora visibili a Santo Stefano, nella casa del pastore, e alla Maddalena nella casa dei Rivieccio in via Antonio Viggiani. (Il nome incannicciatu indica anche il graticcio sul quale si facevano seccare fichi e uva).

Per i pescatori le canne erano materia prima indispensabile: tratti cilindrici di diverse dimensioni regolavano la larghezza del buco delle reti (u muorlu). Tagliate nel mese di marzo, seccate e spaccate in lunghi listelli larghi un dito, erano utilizzate per le nasse per aragoste: si iniziava con poche trappe di mirto per proseguire con i giunchi, disposti obliquamente all’interno, e le canne in ogni giro all’esterno. Di tutti gli antichi usi oggi rimangono solo i canni pe i zini e pe i fighidindi: costruite in modo semplice ma efficace, sono aperte nella parte più robusta, e corredate con un sughero fissato con lo spago in modo da tenere larga l’apertura.

Anche ai bambini le canne offrivano materiale per i giochi: cerbottane ricavate dai tratti lunghi compresi fra un nodo e l’altro, e fischietti per la cui costruzione occorreva maggiore abilità. Tutti questi usi non potevano non lasciare qualche toponimo: esistono infatti due Cala Canniccia nell’arcipelago, una a Spargi (oggi conosciuta anche come cala Ferrigno) e l’altra a nord est di Caprera.

  1. “Rachela” viveva a La Maddalena e aveva un terreno con orto e alberi da frutta che declinava verso una vadina, quella di Cala Chiesa. Dal momento che persisteva un certo dislivello, per superarlo fu costruito un ponte ancora oggi conosciuto come: “il ponte di Rachela”. Durante i bombardamenti del 1943 molti trovarono riparo proprio sotto questo ponte, vincendo la paura tra qualche chiacchiera e risata, carica di tensione.

Giovanna Sotgiu – Co.Ri.S.Ma