Correva l’anno 1572
Le coste della Gallura, secondo la testimonianza del capitano di Iglesias, Marco Antonio Camos, nel 1572, appaiono quasi deserte. Le ricorrenti incursioni barbaresche avevano ormai convinto la residua popolazione costiera a ripiegare nell’immediato retroterra. Dall’Isola Rossa a Capo Testa esse sono spopolate, se si esclude qualche tratto di mare frequentato da corallari. Poco raccomandabili sembrano quelle del «canal de Bonifacio» dove «se hayan tantos latrocinios, como dizen que se hazen por esta via con barcas de Corsega». Le isole adiacenti, come «Santa Maria» sono abitate da «pastores de vaccas y puercos»; a «Porto Puddu [ .. ] es mucho los despoblado que aqui ay, y pocas las tierras que sean utiles sino fuera para vaccas, puercos, y cabras, que es ganado que casi por si se guarda». Zone fertili e popolate si trovano invece in prossimità del «Puerto d’Arsaguena», dove possono sostare un buon numero di vascelli, circondato di «muy buenas tierras». Sono comunque i corsari barbareschi la preoccupazione del capitano Camos. Individuare i siti privilegiati dai corsari e salvaguardarli dalle loro scorrerie con apprestamenti difensivi si ritiene una impresa possibile, soprattutto se, dopo gli avvistamenti dalle torri, le popolazioni accorrono in difesa dei territori. Pertanto il Camos propone di intervenire anche in località, a prima vista non idonee, come «Cola de Cavallos [ … ] por razon de ser ellugar lexos despoblado, peligroso, y muy frequentado de Turcos», ma che ritiene indispensabili per i benefici effetti che avranno «las buenas tierras de Terranova, y aun las que de aqui enpieçan de Posada».
II piano difensivo elaborato dal Camos prevedeva nelle coste della Gallura, da Capo Testa a Posada, la costruzione di ben 10 torri, con 25 uomini di stanza, e di 2 posti di avvistamento, con 2 vedette fisse e 2 a cavallo. Eppure nella realizzazione concreta del piano territoriale di difesa costiera la Gallura – a parte le torri di Capo Testa e di Longon Sardo, poste a presidio delle Bocche di Bonifacio – era, sino alla torre di Santa Lucia di Posada, del tutto sguarnita. Il territorio della «costa di Tramontana», cioè quello che si estendeva «dal fiume di Cocinas (Coghinas) sino a Terranova», era completamente disabitato. In questa lunga fascia litoranea, come osservava una relazione anonima degli anni venti del Settecento, era possibile «sbarcare primieramente nella plaia d’Enas, Longosardo, porto Pozzo, Liscia, golfo di Arsachena, porto di Congianus, e golfo di Terra Nuova: ricetti tutti sicuri per qualunque armata navale, ma non seguirà in cotesti alcun sbarco per esser il paese disabitato eccetto che volessero provvedersi di bestiame sendovene quantità. Le ville vicine sono Tempio, Agius, Calangianus, Luras, Nugas e Terra nova».
Lo spopolamento gallurese era la causa principale del cinico calcolo strategico dei comandi militari del Regno. D’altra parte un nemico che fosse sbarcato in una regione quasi disabitata come la Gallura, dove per miglia e miglia non si incontrava un villaggio, come avrebbe potuto sostenere la truppa o alloggiare i soldati? Senza difese, senza ripari, in un terreno in gran parte montuoso e ricoperto di boschi o nelle pianure paludose ed infestate dalla malaria, sarebbe stato facilmente battuto dalle truppe locali.
Insomma, la Gallura non aveva alcun rilievo strategico nel sistema territoriale di difesa del Regno. Terranova era cinta di mura ed avrebbe potuto resistere in attesa del socorro delle truppe miliziane o dei fanti del presidio di Castellaragonese. II castello medievale di Pedreso, a poche miglia dalla città, nel quale, come scriveva Camos, «suelen hazer guardia ordinaria», poteva essere utilizzato come osservatorio costiero «en corrispondencia con el Cabo del Figueri».
Tuttavia nel Parlamento del 1688-89 il rappresentante del villaggio di Tempio, Sebastiano Garrucho, rivendicava con forza la necessità della costruzione di torri a difesa dell’entroterra gallurese. Constatando che da Santa Lucia a Longon Sardo non vi era alcuna torre, domandava che ne venissero innalzate almeno cinque dinanzi alle isole «adiacenti», tradizionale rifugio .dei corsari che le usavano come base per le incursioni costiere.
Egli proponeva di costruirle dinanzi all’isola di Tavolara, a Capo Figari, a Cala di Volpe, dinanzi all’isolotto di Nibani, a Capo d’Orso e a guardia dell’arcipelago della Maddalena. Per tutto il XVIII secolo il governo sabaudo progettò la costruzione di nuove torri litoranee nelle coste della Gallura. Felice De Vincenti, nei primi anni venti del Settecento, effettuò una ricognizione costiera partendo dalla torre di Santa Lucia di Posada (“unica torre che in tutto il litorale di Levante e Tramontana sino a Longosardo si trova”) fino a Capo Pecora per redigere una carta che indicasse le torri «già esistenti tanto di difesa che d’osservazione » e quelle che riteneva «indispensabili tanto per la sicurezza di detto litorale dall’invasione dei mori che dai disordini ed insulti che sogliono commettere i Bonifacini, massime nella Gallura». De Vincenti prevedeva dunque la costruzione di 12 torri: una sopra il «capo di Otiolo o Punta Pedrosa [ … ], a capo Coda Cavallo [ … ], a Punta di San Paolo che viene quasi al fu or del mare [ … ] alla bocca del porto di Terranova [ … ], al capo Figari [ … ], al golfo del Pepe, per sicurezza della Cala chiamata la Marinella [ … ] e la gola detta della Volpe [ … ], nella punta detta l’Isca segada [ … ], al capo Libano [ … ], al capo detto d’Isca de Vacca che guarda l’isola delle Biscie perché possa difendere l’entrata di porto Cervo [ … ], nella spiaggia e punta detta del Darzenale che guarda a Capo d’Orso [ … ], al capo di Marina [ … ], alla punta detta Santa Maria». Queste torri dovevano essere munite di cannoni e spingarde e di «altro armamento», nonché difese da almeno due soldati, un artigliere e un alcaide. L’ «idea di far costruire dieci torri nei diversi siti del litorale del Regno e massimamente sulle spiagge della Gallura e di Terranova le quali ne sono sprovvedute» venne riconsiderata dal viceré, conte di Bricherasio, il 2 marzo 1752. Il viceré, riprendendo il progetto elaborato nel 1736 dal marchese di Rivarolo, si faceva interprete della necessità di innalzare torri nelle deserte marine galluresi. Il progetto del Bricherasio era davvero «un’opera grandiosa», giacché prevedeva la costruzione di 50 torri «per cingere completamente il litorale del Regno». Il 18 maggio 1754 il progetto venne analizzato da una giunta composta dal viceré, dal reggente Francesco Enrici, dall’intendente generale Francesco Cordara, dall’avvocato fiscale regio Ignazio Arnaud e dall’ avvocato fiscale patrimoniale Pietro Sanna Lecca. La giunta, pur valutando l’opera «costosissima», sottolineava la «necessità del torreggiamento» sia per «il pubblico bene e per la difesa della pubblica salute a effetto d’impedire le comunicazioni coi bastimenti provenienti da’ luoghi infetti», sia per «impedire le invasioni e depredazioni continue dei corsari», sia infine «per il benefizio che ne ridonderebbe alle Regie Finanze dall’impedimento, che pur si frapporrebbe ai contrabbandi, che sono frequentissimi in questi luoghi marittimi». La soluzione per «supplire a spesa sì grande» veniva individuata nell’«accrescere il diritto dell’ estrazione delle lane, formaggi e cuoi», ma l’aumento dei dazi non era «eseguibile senza il consenso dei Stamenti».
gennaio
Nella vicina Corsica arrivano “Statuti” ed il “Syndicato”. Approvati nel dicembre 1571 ed entrati in vigore nel gennaio 1572, gli Statuti erano tenuti in gran considerazione dai corsi. Essi avevano la prerogativa di mantenere l’uguaglianza giuridica davanti alle tasse e di contenere gli aumenti del gettito fiscale entro un limite rimasto invariato per lungo tempo, lasciando, inoltre, una certa autonomia gestionale alle comunità rurali. È importante notare, a questo riguardo, che gli Statuti rimasero in vigore anche dopo la conquista francese del 1769, nonostante le frequenti critiche all’amministrazione genovese portate avanti dagli spiriti più elevati della borghesia e dell’aristocrazia corsa. Nell’esercizio della giurisdizione diretta, ovvero nel calcolo dell’imponibile delle tasse e nella fissazione dei canoni in natura, il Governatore doveva comunque prendere l’avviso dei Dodici e dei Sei; era, inoltre, tenuto a rispettare le prerogative dei feudatari del Capo e del Sud, che avevano salvaguardato il diritto di pubblicare i loro statuti. Infine, i poteri giudiziari del Governatore trovavano anche un limite nel diritto ecclesiastico, specie nelle cinque Corti di Bastia, Aleria, Ajaccio, Nebbio e Sagona. L’ultima barriera, almeno teorica, alzata contro l’arbitrio del Governatore era il Syndicato, sorta di tribunale supremo con funzioni diverse. Innanzitutto, e non è una limitazione, l’organismo non era affatto permanente: si riuniva al massimo un centinaio di giorni all’anno. In secondo luogo affrontava solamente cause minori: offese o abusi di potere di funzionari subalterni, ispezione delle prigioni e delle fortezze, delitti verso l’ordine pubblico, pianificazioni finanziarie, amministrative o giudiziarie. Bisogna inoltre sottolineare che il sistema giudiziario si accompagnava alla quasi totale venalità delle cariche. La Repubblica aveva sempre sottovalutato le funeste conseguenze di questo avvilimento della giustizia: il sospetto giustificato dei corsi davanti ai giudici corrotti ed impotenti della Dominante favorì l’estensione della vendetta. Con il passare del tempo, il Syndicato, a maggioranza corsa, rappresentò effettivamente una specie di “difensore estremo” degli isolani: sei membri per il Diquà e sei per il Dilà, ai quali furono aggiunti due genovesi per ciascuna zona. Ma, per un sottile artificio giuridico, questa preponderanza corsa era ridotta ad una semplice parità, dato che le voci dei Sindici genovesi avevano un peso maggiore di quello dei colleghi corsi. Oltretutto, anche in caso di uguaglianza dei pareri, Genova poteva sopprimere la rappresentanza corsa per «eccessivo zelo». Il potere giudiziario apparteneva soltanto alla parte più elevata della scala sociale; nei feudi si concentrava nelle mani dei feudatari e dei loro fedeli (il luogotenente assistito dagli sbirri), ma accadeva lo stesso anche nelle comunità: il potere giudiziario, anche se elettivo, era riservato in sostanza ai notabili, mentre nelle giurisdizioni regionali il potere giudiziario era depositato nelle mani dei nobili: si trattava di un sistema atto ad impedire ogni forma di dissenso nei confronti dell’amministrazione genovese. Si delinea, così, quel carattere di sfruttamento coloniale cinicamente ostentato e senza scrupoli tanto in odio ai corsi; è chiaro che non tutti i genovesi arrivati in Corsica erano, in linea di principio, degli sfruttatori senza ritegno, ma è altrettanto vero che Genova spediva in Corsica come ufficiali subalterni gli aristocratici decaduti, desiderosi di nuovi blasoni e di nuove ricchezze, che consideravano l’isola, già povera, come una terra di sfruttamento.
Lentamente gli isolani venivano eliminati dalle cariche ad esclusivo vantaggio dei genovesi: nel 1588, si chiudono loro le porte del notariato e della cancelleria; nel 1624 si escludono dalle cariche di esattori d’imposte; nel 1634 da quelle di vicari e di auditori. Dal 1585 si vieta ad ogni corso la funzione giudiziaria nel paese d’origine o in quello della moglie e, per un estensione che è al limite dell’odioso e del ridicolo, in tutti i villaggi dei parenti inclusi nel quarto grado di parentela. Genova giustificava una simile presa di posizione adducendo che questo era il solo modo per difendere i corsi da loro stessi, per strapparli dalle lotte di potere e per estirpare la radice stessa di innumerevoli vendette che insanguinavano l’isola. Ma in un paese che offriva poche possibilità di carriera professionale era una vera provocazione eliminare gli autoctoni da qualche funzione lucrativa. Questa linea amministrativa si estendeva anche alle funzioni più umili: appare ingiustificabile, sul piano militare, l’interdizione ai corsi di servire le guarnigioni dell’isola, il divieto di esercitare qualsiasi funzione nel villaggio natale (1612) e l’obbligo di assumere la cittadinanza genovese per l’esercizio delle cariche civili e magistratuali: simili atti condannavano all’esilio o all’emigrazione tutti gli elementi di un certo valore, facendo sentire crudelmente la differenza di trattamento tra i corsi e i genovesi trapiantati nell’isola.
La disobbedienza alle direttive della Serenissima era comunque abbastanza frequente: le forze dell’ordine erano insufficienti e poco incisive. Nelle città i genovesi riuscivano a far rispettare la legge con difficoltà. Nelle comunità dell’interno la situazione era già diversa: i grossi borghi riuscivano ad assicurare l’ordine pubblico autonomamente, malgrado le proteste dell’autorità centrale, che vedeva in questi atti delle iniziative pericolose. I villaggi delle montagne, isolati per natura dal clima e dall’assenza di strade, erano il rifugio di tutti coloro che sfuggivano ai giudizi: La macchia si popolava continuamente di condannati in contumacia, determinati a difendersi fino alla morte. I traditori, incoraggiati e ricompensati da Genova, controllavano a vista tutti i sentieri: la cattura condannava il fuggiasco all’impiccagione o alla galera. Obbedire alla giustizia era facile solo in città: qui regnava l’ordine, difeso da mercenari stranieri (svizzeri, tedeschi) o italiani (genovesi e toscani) che, comunque, non superavano mai le centoventi unità (Bastia, sede centrale del potere, arrivava a malapena a questa cifra). Nel resto dell’isola, nonostante la presenza intermittente di soldati o di scorte incaricate di proteggere gli agenti del fisco, la disobbedienza era totale. La tradizione nazionale, l’abitudine secolare alla lotta contro le diverse forme di potere, la passione per le armi da fuoco, concorsero a sviluppare una forma di insubordinazione cronica contro la quale Genova lottava senza sosta. Sicuramente da questa lotta emergeva la volontà di far regnare la calma e rispettare la legge; eppure certe misure, in sé lodevoli e benefiche, si scontravano con la mentalità isolana ed erano interpretate come dei soprusi o delle privazioni di libertà. È il caso della norma che puniva con la galera la detenzione di armi: misura vessatoria, esorbitante ed inefficace, dato che poteva essere aggirata con la presentazione di una domanda e il pagamento di una tassa. (Un curioso articolo del codice penale permetteva all’assassino condannato alla pena capitale di beneficiare, dietro pagamento di un’ammenda, d’un salvacondotto di sei mesi con permesso di porto d’armi. La misura, teoricamente destinata ad assicurare la difesa di quest’uomo contro i suoi nemici, rappresentava invece una minaccia diretta per questi ultimi, che erano spinti ad armarsi e ad attaccare per primi. Per rimediare all’inconveniente si approvò una delibera sollecitata nel 1711 dagli stessi corsi ed accordata nel 1715: il porto d’armi nell’isola era permesso solo dietro il pagamento di un canone di due seini (moneta genovese) per fuoco, destinato a compensare la perdita per la soppressione delle autorizzazioni deliberate fino a quel momento; la misura, ben accolta in tutta l’isola, permise il disarmo generale, con una diminuzione notevole dei crimini di sangue. Ma per una goffaggine assurda l’imposta, che doveva durare solo una stagione, non venne mai soppressa e figura tra le rivendicazioni dei corsi alla vigilia della rivoluzione indipendentista.)