Correva l’anno 1730
La pressione sui pastori isolani, avviata col pasticcio della contemporaneità degli atti di polizia sanitaria sardi e genovesi per la peste di Zante, si esaurì nel giugno 1730, con l’ultimo tentativo del luogotenente tempiese di impegnarli a prendere la licenza e l’ennesimo rinvio furbesco da parte loro. Le famiglie isolane rientrarono per i mesi estivi nei loro alberghi del distretto di Bonifacio o ai margini di quella cittadella, portando con sé la piccola eccedenza delle loro povere produzioni. Portarono anche a battezzare i loro nati: Maria Angela, nata a metà novembre del 1729 da genitori di Quenza, e Maria Caterina, nata il febbraio dello stesso 1730 da genitori di Sorbollà. Andavano a riprendere le relazioni con le loro famiglie d’origine, sempre più allargate con il passare delle generazioni, a rimotivare i loro sentimenti di appartenenza, a partecipare alle lavorazioni stagionali, in particolare la vendemmia, ed eventualmente anche a riproporre diritti patrimoniali e/o di possesso su beni lasciati in Corsica.
Vittorio Amedeo II abdica in favore del figlio Carlo Emanuele III, che regnerà fino al 1773.
Il governo sabaudo chiede ai pastori delle isole dell’arcipelago di pagare un affitto.
21 febbraio
Muore a Roma il cardinale Antonio Pipia, protettore della Corona di Sardegna presso la Santa Sede (era nato a Seneghe nella seconda metà del secolo precedente).
29 giugno
In occasione della peste del 1728 i “conservatori di sanità” delle marine di Gallura presero l’iniziativa di denunciare alla corte viceregia di Cagliari i limiti della loro azione di tutela nel territorio di competenza. La presenza di pastori corsi in alcune isole delle Bocche, incontrollata e incontrollabile, era per loro fonte di grande preoccupazione rispetto all’importante funzione a cui erano chiamati, di evitare cioè la contaminazione dell’interno del regno da agenti di contagio provenienti dal mare. Tanto più in una realtà di per sé già difficile da controllare, in un comprensorio costiero che da Longonsardo a S. Lucia di Posada era privo di qualsiasi presidio di torri, e con una minima presenza umana aggregata in abitato solo a Terranova a est e a Castelaragonese ad ovest. A partire dalla lettera dei conservatori di sanità della Gallura, don Martino Riccio e don Isidoro Guglielmo, datata da Tempio il 7 luglio di quel 1728, il governo sardo prendeva per la prima volta conoscenza del caso maddalenino. In una memoria riassuntiva degli avvenimenti si legge, infatti, che in quella occasione i due diligenti funzionari rilevarono che: “risulta molti essere gli anni che sono li corsi bonifacini co’ loro bestiami nel possesso delle isole suddette, senz’altro titolo che quello del possesso”. L’utilizzo delle isole da parte di pastori corsi, si diceva inoltre, avveniva nell’indifferenza dei pastori galluresi, che avevano nella valle del Liscia, del Surrau e di Arzachena un abbondante territorio a disposizione e di migliore qualità, sia per i pascoli che per le semine. La notizia avuta da Tempio entrò nel pacchetto delle informazioni che gli uffici viceregi giravano routinariamente alla corte torinese. Da Torino si prese atto del fatto e della previsione di intervenire sui pastori abusivi in occasione del passaggio in quei mari della galera nel suo giro di ronda nelle acque sarde. Lo scambio di note tra Cagliari e Torino su questo argomento si protrasse sino al giugno del 1730, e da questa corrispondenza sappiamo inizialmente che la crociera della primavera- estate 1729 della galera non fu utile per l’intimazione a quei pastori di munirsi di licenza a pascolare. Nel frattempo erano sorte perplessità sulla legittimità della pretesa, e si convenne sulla necessità di raccogliere prove più certe del dominio sardo sulle isole. Ad un certo punto, a riprova di quanto si lavorasse approssimativamente e a tentoni, si pensò che la sola isola della Maddalena potesse riconoscersi rientrante nella giurisdizione sarda, ignorando del tutto S. Stefano, che oggettivamente è la più “adiacente” alla Sardegna. Ma, oltre la ricerca delle prove documentali dell’appartenenza patrimoniale delle isole al regno sardo, si iniziarono ad elaborare i primi ragionamenti di dottrina giuridica della sovranità sulle stesse isole. A questo proposito il positivo parere dell’avvocato fiscale Cani, chiamato ad esprimere il proprio giudizio sulla legittimità del dominio sardo sulle isole, rilanciò le pretese sarde. La stessa memoria riassuntiva rilevava che la corte torinese, sostenuta nelle proprie ragioni dal quel parere, scrisse al viceré, marchese di Cortanze, nell’ottobre del 1729: “doversi riputare usurpativo il possesso [delle isole Intermedie] ed ordinogli di mandare alli Giudici, a cui poteva spettare l’uso di dette isole, di far intendere alli pastori corsi di non introdurvi più li loro bestiami al pascolo senza la loro licenza, qual però veruna volta si dovesse negare e senza pagamento. E inoltre di valersi dell’opportunità delle galere per cacciarli ogni volta quando fossero renitenti a chiedere detta licenza, facendovi fare atti possessori affine di esercitarvi la sovranità ed escludere quella che ne potesse pretendere la Repubblica di Genova”. Il reggidore feudale di Tempio mandò in missione nelle isole il proprio luogotenente, che nel febbraio del 1730 incontrò per la prima volta ufficialmente i pastori corsi, cui intimò di richiedere la licenza di pascolo. Questi, con una certa malizia istintiva, non opposero alcun rifiuto esplicito, ma risposero che la decisione di ottemperare a quanto veniva ordinato non spettava tanto a loro quanto ai padroni del bestiame, i signori bonifacini per conto dei quali lo governavano. L’azione dilatoria non piacque al viceré, e il luogotenente tempiese dovette ritornare nelle isole per rinnovare l’intimazione in termini più pressanti. Ma anche i padroni bonifacini, tempestivamente informati delle pretese sarde, prepararono la loro contromossa, facendo intervenire il commissario di Bonifacio. Questi vietò ai patroni dei legni frequentatori delle isole, e che facevano capo alla sua giurisdizione, di trasportarvi qualsiasi sardo e tanto meno i ministri di giustizia galluresi. Addirittura, ordinò loro di dissuaderli anche con la minaccia delle armi, per cui furono provveduti di polvere e palle. In quella occasione, quindi, il funzionario tempiese, giunto alla marina di Mezzo Schifo del Parau, subì il rifiuto di trasporto sia da un legno corso che da uno napoletano, e non poté svolgere la missione affidatagli. Si ripiegò, allora, sulla mediazione di un pastore sardo che riuscì a contattare i propri colleghi isolani, cui rinnovò l’invito a munirsi di licenza con la debole minaccia che altrimenti se ne sarebbe scritto al viceré. Incredibilmente il pastore mediatore riferì che i corsi avevano aderito a richiedere la licenza di pascolo, per cui era necessaria la presenza del funzionario che gliela concedesse. La singolare novità fu accolta con riserva soprattutto dalla corte torinese, che subodorando un tranello determinò di non esporre un funzionario del re al rischio di un grave affronto, ma di rinnovare l’invio dello stesso pastore, magari accompagnato da altri pastori galluresi, per riverificare le intenzioni dei maddalenini e caprerini. Mentre si preparava la disposizione in tal senso per il governo cagliaritano, giunse a Torino la notizia dalla Sardegna che il 29 giugno 1730 il solito luogotenente gallurese era invece riuscito a sbarcare alla Maddalena, a contattare quei pastori e a rinnovare ancora una volta l’ordine a richiedere licenza. Anche stavolta il funzionario sardo si trovò di fronte ad un rinvio di decisione, frutto evidente di una ben studiata tattica dilatoria. “Fugli da questi risposto – infatti – che dovendo fra pochi giorni aver compita la raccolta de’ grani dovevano ritirarsi a Bonifacio ed abbandonare le isole e che li padroni de’ bestiami darebbero provvidenza per essi, per qual cagione non andavano a prender la licenza”. A questo punto, complice anche un cambio di viceré nella conduzione del governo cagliaritano, si bloccò l’attività di rivendicazione della sovranità sarda sulle isole, i pastori corsi non ne seppero più niente sino al 1736 e continuarono indisturbati a utilizzare i pascoli maddalenini. Il pregone sanitario del 1728, emesso dal viceré sardo, non avviò solo la pressione sui pastori corsi delle isole Intermedie perché con la licenza di pascolo e di semina riconoscessero la giurisdizione del regno di Sardegna su quelle isole. Non appena i bonifacini conobbero, infatti, i termini ultimativi che venivano rivolti ai loro pastori e le minacce di confisca delle loro bestie, predisposero delle contromisure. Un importante documento sinora inedito ci racconta l’antefatto della produzione da parte del governatore genovese della Corsica della sua grida sulla stessa pestilenza e sulle stesse isole, e di come i bonifacini avessero avuto notizia del pregone sardo che li mise in allarme. Si tratta di una memoria del 13 giugno 1728 che, inviata al governo della Serenissima di Genova dal commissario genovese di Bonifacio, il magnifico Ascanio Pallavicini, torna utile riportare integralmente: “Vi sono in questi mari alcune isole o sian penisole adiacenti chiamate cioè della Maddalena, la Cabriera, S. Stefano, S. Maria del Budello, Rizzuola, Budellaccio, Spargi, e altre che qui le dicono le Boche, che se bene siano pure alcune d’esse in qualche vicinanza della Sardegna, a memoria però de’ viventi son sempre state riputate annesse a questo regno, e della Serenissima Repubblica, deducendosene una probabile conseguenza d’essere state sempre dipendenti specialmente da questo luogo, dall’esservi alcune Cappellanie, cioè sotto titolo di S.ta Maria de Budelly, di S.ta Maria de insula, et altre con la percezione de’ proventi de luoghi constituiti e descritti ne’ cartularii di cotesta Ill.ma Casa di S. Giorgio, e tenesse a questa parrocchiale Chiesa o sia all’Arcipretura della medesima, e con un antico possesso, coll’enunciato giusto titolo, d’esser le medesime state sempre semenzate ed erbaricate da bonifacini, con la continua permanenza specialmente da pastori destinati alla custodia de’ bestiami di persone di Bonifacio, e come tali ……i loro alberghi et ….continuo e fermo domicilio con loro rispettivamente famiglia, senza alcun disturbo, salvo se alcune volte per qualche intervallo di pochi mesi li è convenuto sloggiare esimersi dall’innazione de’ barbari corsari che sovente frequentano quelle costiere, e solo ora essendo ritornato da Cagliari il sig. Giuseppe Antonio Serafino di Bonifacio, ove si era recato per suoi affari da negozio, e qui gionto sopra una delle due galere della Ser.ma Rep.a procedente da detto Cagliari, approdatevi in congiuntura del corso per quale son destinate, e questo riporta essersi colà pubblicata grida stampata trasmessa dal loro sovrano, del tenore in sostanza che tutti li pastori predetti che albergano nell’enonciate isole, o sian penisole adiacenti come sopra debbano immediatamente da quelle sbattere e sloggiare con li rispettivamente bestiami che hanno in custodia, alla pena della perdita d’essi e di duecento scuti ai rispettivi padroni de’ medemi e tali pastori di cinque anni di galera per ognuno”. Solo dopo 6 giorni il governatore Pinelli, evidentemente sollecitato dai bonifacini, emanò il proprio provvedimento sanitario per conto di Genova, e in Bonifacio si iniziò a produrre documenti che tentavano di certificare il possesso delle isole da parte della Corsica, specularmente alla stessa azione da parte sarda.
14 luglio
A Cagliari muore il dotto canonista Diego Cocco De Haro, cancelliere regio apostolico, curatore di un’importante raccolta di carte reali in materia ecclesiastica.
5 agosto
Il viceré scrive a Torino che gli ecclesiastici condizionano l’operato degli ufficiali di giustizia minacciando pene spirituali.
3 settembre
Vittorio Amedeo II abdica a favore del figlio Carlo Emanuele.
24 dicembre
Estratti dai Registri della Cancelleria di Bonifacio riguardanti il naufragio di un patron provenzale nelle acque di Santo Stefano. Attestazione giurata nella quale si afferma che tutto il bestiame pascolante nelle isole intermedie è di proprietà dei Bonifacini.
La questione dell’utilizzo delle terre alle spalle di Bonifacio trova uno sbocco violento: si registrano furti e distruzione di chiusure dei terreni da parte dei pastori seminomadi (definiti discoli, ribelli e malviventi) contro gli abitanti della città.
Viene denunciato un furto da Giacomo Gioja, dichiarò che: “15 pastori maddalenini avevano depredato la merce della sua polacca naufragata nelle acque di S. Stefano reclamandone la restituzione. Secondo il suo esposto, la mercanzia era stata salvata dal naufragio dai suoi 13 marinai, che imbarcatola in una scialuppa la trasportarono a terra nell’isolotto di S. Stefano. Ricoverata in una baracca costruita alla bisogna e custodita dagli stessi, non poteva considerarsi res nullius, per cui quella dei maddalenini doveva ritenersi una vera e propria rapina a mano armata“.