Correva l’anno 1855
Claude Hucherot è sindaco di Bonifacio. Prima del naufragio della Semillante nel 1855, era prevista la costruzione di 4 fari in Corsica a Capo Corso, Calvi, Ajaccio e Bonifacio. A Bonifacio nel 1837 era previsto un faro nel convento di San Francesco, non realizzato per mancanza si fondi (in totale 150,000 franchi).
La Maddalena ha una popolazione di 1.901 abitanti, di cui una trentina sono pescatori, una quarantina commercianti, 35 tra agricoltori e pastori, 26 artigiani (falegnami, muratori, scarpari, mastri ferrari), 3 becchini, un bigliardiere, una locandiera, 300 marinai della Regia Marina. I rimanenti sono pensionati statali, madri di famiglia, signorine e ragazzini in attesa del primo imbarco e ovviamente militari. La vita scorreva sui ritmi senza tempo del mare, in attesa dei naviganti, vedendone partire e arrivare ogni giorno. Le difese dell’arcipelago furono potenziate nel 1850, con la costruzione nell’isola maggiore del potente Forte San Vittorio sul dosso di Guardia Vecchia, del Forte Santa Teresa, detto anche di Sant’Elmo o Forte Tegge, e della batteria Sant’Agostino sulla punta occidentale di Cala Mangia Volpe. Nell’isola di Santo Stefano fu edificato il bel Forte San Giorgio non lontano dal luogo ove sorge la torre da cui mezzo secolo innanzi Napoleone aveva cannoneggiato la cittadina. Per tutte queste opere fu potenziato il contingente di forzati già di stanza a La Maddalena al servizio della Marina Militare; fino a quando fu in auge la navigazione a remi, essi venivano impiegati sulle navi e va detto a questo riguardo che il trattamento dei forzati da parte della Marina sabauda fu sempre di gran lunga più umano di quello degli altri paesi europei e che spesso, ai tempi della lotta contro i pirati e corsari, quei poveretti ricevevano in premio la libertà quando partecipavano con valore agli scontri. Nella costruzione delle opere di difesa, i forzati venivano occupati soprattutto nelle cave di granito, la cui estrazione, ancora per molti anni, fu limitata agli usi militari. Il traffico marittimo nell’arcipelago, vivace nella buona stagione, si riduceva fortemente durante l’inverno, quando le tempeste potevano scatenarsi all’improvviso. Nello stesso periodo uno dei figli più avventurieri di questi scogli, Giovanni Battista Cugliolo, “Maggior Leggero” si trova in Costa Rica, combattente per la libertà di quel popolo contro i “filibustieri yankees” di William Walker, qui in una terribile battaglia, egli fu ferito al braccio destro e fu necessario amputarglielo; caduto prigioniero, fuggì, ancora convalescente, e attraverso peripezie di ogni genere riuscì a mettersi in salvo e a trovare un lavoro come guardia di dogana a Punta Arenas. Allo scoppio della seconda guerra contro Walker, riprese il suo posto di ufficiale nell’esercito costaricano e tornò a combattere con tanto eroismo da meritarsi l’encomio dello stesso comandante nemico; di nuovo venne ferito e fatto prigioniero. Riacquistata la libertà, il maddalenino si trasferì nella Repubblica del Salvador e fu arruolato in quell’esercito come istruttore e organizzatore.
Mentre Antonio Susini Millelire era in Argentina, lo raggiunsero anche alcuni cugini tra cui Antonio Susini Origoni, capitano di lungo corso, giunto nel Plata nel 1855, all’età di 27 anni. Nel 1858 entrò a far parte della squadra navale di Buenos Aires. È autore di un inedito diario, titolato Mi vida, Capitan A. Susini, Buenos Aires 1915, Documentos para el Dr. Dn Dardo Rocha, año 1858 á 186849. Rientrò a La Maddalena intorno al 1875 per poi trasferirsi definitivamente in Argentina. Anche altri del Millelire sono i fratelli Giovanni Susini Franchini, comandante del vapore argentino General Pinto; Antonio, morto in un carcere del Paraguay, a causa di una malattia, il 28 luglio del 1868, dopo essere stato arrestato durante la dittatura di Francisco Solano Lopez, per aver partecipato a un moto rivoluzionario ad Asunción, capitale del Paraguay; Nicolò, fucilato il 9 agosto del 1868, per aver svolto, anche lui, attività rivoluzionaria contro il regime di Solano Lopez.
6 febbraio
S’inaugura il collegamento telegrafico fra Sassari e Cagliari.
15 febbraio
A Lavezzi naufraga, per un fortunale eccezionale, la fregata Sémillante, diretta in Crimea con armi e soldati: non vi sono superstiti. I corpi restituiti dal mare nei giorni seguenti sono seppelliti sull’isola in due aree della costa a sud. La Maddalena fu impotente testimone di uno dei più tragici naufragi de Mediterraneo, avvenuto nella notte tra il 14 e il 15 febbraio 1855 sulle scogliere dell’isola corsa di Lavezzi. Il 14 febbraio, alle 11 in punto, La Sémillante , una fregata a vela lunga 54 metri, salpò da Tolone con una brezza occidentale abbastanza fresca. Siamo nel pieno della guerra di Crimea, contro la Francia, l’Inghilterra e la Turchia di Napoleone III in Russia. La nave è quindi caricata con 394 militari e 400 tonnellate di equipaggiamento per l’esercito dell’est e un equipaggio di 308 uomini. La mattina l’imbarcazione “Semillante” fu sorpresa da una tempesta mentre tentava di attraversare le Bocche di Bonifacio. Verso mezzogiorno, sull’isola di Lavezzi, il pastore Limieri, che si era rifugiato nella sua casa di pietra, udì un ruggito “come un tuono proveniente dagli inferi“. Un po ‘più tardi, fuori dal suo rifugio, scopre il mare furioso coperto da enormi relitti che le onde smantellano e respingono nelle insenature o trascinano verso sud dell’isola. L’unico testimone oculare, fu Il farista di Capo Testa. Raccontò che alle 11:00 del mattino di quel fatidico giorno, aveva scorto tra le onde del mare in burrasca una fregata avanzare a secco di vele verso la costa sarda, come se avesse un’avaria al timone. Poi di colpo la vide scomparire La testimonianza del farista fu molto importante per l’inchiesta che ricostruì la storia di quel naufragio. La nave finì sull’isolotto dell’Acciarino, nella parte sud ovest di Lavezzi, dove sorge un monumento commemorativo a forma di piramide in granito. Nel naufragio perirono 695 uomini: 560 corpi riposano nei due cimiteri sull’isola di Lavezzi mentre 32 sono sepolti altrove, gli altri non vennero mai ritrovati. “Apparve all’improvviso un grande bastimento somigliante a una nebulosa immersa nella schiuma del mare, che procedeva senza un rotta precisa e senza una guida, sulla cresta delle onde, da Sud-Ovest a Nord-Ovest, come se avesse avarie importanti alla timoneria”. La grande fregata da guerra francese “La Semillante”, armata di 60 cannoni e di 250 uomini di equipaggio, era salpata con tempo bello e mare calmo dal porto di Tolone, trasportando 750 soldati di fanteria destinati alla guerra in Crimea. La navigazione procedette tranquilla fino alle alte coste meridionali della Corsica: quì si scatenò la burrasca. Non v’era modo di accostare ad alcun porto, perciò il capitano decise, come spesso si fa in questi casi, di infilare le Bocche di Bonifacio per sottrarsi al pericolo delle coste irte di scogli. Ma nel tratto di mare tra l’isola corsa di Lavezzi e quella sarda di Razzoli, la nave incappò in uno di quei terribili marosi, che i naviganti chiamano “onde anomale”, alto come una montagna, dotato di una forza immane. L’onda afferrò la “Semillante”, la sollevò quasi fosse un fuscello, la trasportò e la scagliò contro la costa di Lavezzi, irta di infiniti scogli come denti di un gigantesco squalo. La nave letteralmente scoppiò in una miriade di scaglie. Se qualcuno dei mille uomini avesse potuto sopravvivere all’urto spaventoso, sarebbe stato comunque immediatamente ghermito dalla folle sarabanda delle onde impazzite e scagliato più volte contro i denti di roccia. Quando il mare si placò e le prime barche di Bonifacio e di La Maddalena si accostarono all’isola seguendo la traccia dei detriti, uno spettacolo orrendo si presentò agli occhi dei marinai: Lavezzi era orlata da una corona di schegge di legno e brandelli umani; nessuna traccia di vita, nessun relitto di una certa consistenza, se non i poderosi 60 cannoni in fondo al mare. Non c’era neppure la possibilità di ricomporre i corpi. si decise di seppellire i poveri resti sulla stessa Lavezzi e sorse un cimitero con mille croci sull’isola deserta; alcune croci erano altissime affinché i naviganti, passando, potessero in futuro salutare quegli infelici giovani. Nel 1874 nell’isola di Lavezzi viene eretto ed inaugurato un faro.
3 marzo
S’inaugura la strada carrozzabile Sassari-Alghero.
14 marzo
“Avendo proceduto nel tardo della sera di ieri alla vista legale di tre cadaveri esistenti sulla spiaggia di questi territori, luogo detto di Abbattogia, sarebbe ora il caso di divenirsi alla sepoltura dei medesimi nel modo più conveniente, e perciò il Giudice del Mandamento infrascritto si rivolge al Sig. Sindaco Comunale, perché disponga quanto è necessario in proposito senza ritardo. Il Giudice di Mandamento Bisson“. Per oltre un mese, dal naufragio della fregata francese, con la morte di tutti i suoi marinai e passeggeri, il mare restituisse cadaveri in tutto il circondario, da Capo Testa a Punta Sardegna, alle varie isole dell’arcipelago, alla costa corsa e, ovviamente, soprattutto, a Lavezzi.
maggio
Fu nel maggio 1855 che Garibaldi mise piede sul suolo di Caprera per la prima volta. Lo troverà una massa di granito completamente disabitata e ricoperta solo da un sottile strato di terreno. Ancora una volta questo strato di terra in molti luoghi era così carico di pietre e ciottoli che poteva a malapena fornire cibo sottile per erbacce selvatiche e piante aromatiche. Oggi, dopo due anni e mezzo di attività, vediamo una casa confortevole, e intorno a questa casa un recinto circondato da un muro lungo due miglia; un vasto recinto creato dal generale, dove crescono e prosperano, per non parlare di una moltitudine di verdure, mandorle, mele, pere, castagne, vigneti, e anche canna da zucchero. Possiamo vedere scorrere attraverso il recinto diversi ruscelli distribuiti ad arte, la cui acqua, abbondante e limpida, preserva il terreno dalle scottature. I forni a carbone, in piena attività, dove le radici sradicate vengono gettate al suolo, attestano la vigilanza e l’attitudine economica del padrone. È un detto accettato e antico che la prima colonna per sgombrare la terra si espone al disastro; la colonna di Caprera sembra aver evocato questo pericolo. Questi pendii appena arati, dove ancora vedevamo solo pietre e cespugli, non promettono un ricco raccolto? Ascoltate quei cani che abbaiano, ascoltate quegli spari a intervallo; tutto questo rumore vi insegna che la piccola colonia sa difendere il proprio lavoro. Gli innumerevoli voli di uccelli che una volta venivano a godersi il frutto dei cespugli non si avventureranno più in sicurezza nelle piantagioni dell’isola… (Visita a Caprera Elpis Melena)
15 maggio
Per conto del governo inglese si getta un cavo telegrafico sottomarino fra Cagliari e Bona, in Algeria.
29 maggio
La legge Rattazzi sopprime i conventi degli ordini religiosi. In Sardegna ricadono sotto la legge 87 case religiose con 578 membri.
30 maggio
Muore nel suo palazzo della Goletta s.a. Ahmad ibn Mustafa ibn Husayn pascià, bey e possessore del Regno di Tunisi. Nato nel 1806, salì al trono nel 1837 alla morte del padre, che lo aveva avuto da una tabarchina nativa di Carloforte, Francesca Rosso, catturata ancora bambina durante la razzia del 1798. Ahmad ereditò un paese schiacciato fra l’invadenza della Francia, che aveva occupato l’Algeria nel 1830, e l’Impero Ottomano, di cui era formalmente vassallo, e che aveva riaffermato il suo possesso della Tripolitania nel 1840. Sovrano intelligente e di larghe vedute, fece grandi sforzi per accreditare agli occhi del mondo l’autonomia e il prestigio di una piccola reggenza di ex corsari, cercando di farne un paese avanzato. Fu circondato da consiglieri capaci, come il Segretario di Stato, Giuseppe Maria Raffo, suo zio, un imprenditore di origine genovese membro della fiorente comunità ligure-tabarchina di Tunisi, uomo dalla mentalità cosmopolita che organizzò tra l’altro la visita di Ahmed, la prima di un monarca islamico in Europa, nella Francia di Luigi Filippo. Ahmed e Raffo tentarono di far entrare la Tunisia nella politica internazionale in maniera autonoma, con scelte per certi aspetti simili a quelle di Cavour, partecipando ad esempio alla Guerra di Crimea per garantirsi il sostegno ottomano e occidentale. Ahmed modernizzò il paese, ispirandosi al modello egiziano di Mohammed Ali, creò un esercito moderno e una scuola superiore di formazione, futuro vivaio della classe politica tunisina, promosse le opere pubbliche e le arti, realizzò splendide dimore per la sua corte, incentivò la stampa, favorì il dialogo interreligioso tra musulmani, cristiani ed ebrei, accolse esuli politici e profughi italiani che, in fuga dalle carestie e dalla miseria, sbarcavano con mezzi di fortuna sulle coste della Tunisia; creò i presupposti per la prima carta costituzionale di un paese arabo e africano, promulgata poi dai suoi successori. La sua morte prematura coincise con l’ascesa politica di Mustafà Khaznadar, un ex schiavo greco che, invano contrastato da Raffo, dal grande ministro d’origine circassa Kheireddin Pascià e da altri membri dell’élite politica tunisina, favorì oscure manovre economiche, portando le finanze del paese, già indebolite dagli investimenti pubblici e privati di Ahmad, al tracollo economico e all’ingerenza europea, culminate nel 1881-1883 con l’istituzione del protettorato francese. Ma soprattutto, vivrà eternamente la memoria di Ahmad I per l’atto col quale nel 1846 egli abolì definitivamente la schiavitù nel suo paese con anni di anticipo rispetto alla Francia, agli Stati Uniti e a diversi altri paesi occidentali.
8 luglio
Si registrano a Porto Torres i primi due morti per colera. L’epidemia infierirà sino all’inizio dell’autunno, colpendo 99 comuni e facendo 12 538 vittime (circa 8000 nella sola Sassari).
13 agosto
Muore a Genova (per il cholera morbus asiatico) il maddalenino Francesco Millelire, (di Agostino e di Santa Zicavo, nato il 23 settembre 1805 all’Isola della Maddalena) Nel 1853 venne sottoposto a giudizio perché inquisito d’omicidio per duello provocato senza giusta causa dal fu capitano maltese Giovanni Carlo Casanova. Condannato ad un anno di carcere con sentenza del Consiglio di Guerra Divisionario di Torino il 25 luglio 1853 pel suddetto omicidio. S.M. con suo Decreto 1 agosto 1853 gli commutò detta pena in quella di due mesi di detenzione da scontarsi nella Cittadella di Torino. Usciti il 25 settembre dello stesso anno. Decorato della medaglia d’argento al Valor Militare per essersi distinto nel fatto d’armi seguito addì 21 marzo 1849 alla Sforzesca ed il 23 stesso a Novara.
Settembre
Partenza del medico Ernesto Orsini, già inviato dal governo per combattere l’epidemia di colera finalmente debellata. La popolazione soffre anche per il pessimo raccolto dell’uva. Sardegna Epidemia di colera nell’isola. Con la legge Rattazzi sono soppressi tutti i conventi degli ordini religiosi.
ottobre
Garibaldi, accompagnato dall’amico maddalenino Pietro Susini, si reca nello stazzo di Pietro Scampuddu Pilosu e, quindi, a Capo Testa per trattare l’acquisto di terreno coltivabile in quella località. La tradizione vuole che Pilosu intendesse donare il terreno all’eroe, ma che Garibaldi non abbia accettato. In dicembre, deciso a comprare terreni a Caprera, Garibaldi ne incarica l’amico Susini con una procura generale.
7 dicembre
Garibaldi frattanto, stanco e sfiduciato per la sua vita errabonda sui mari, aveva chiesto e ottenuto dal governo piemontese di tornare in Italia, per stabilirsi a Nizza con i suoi figli: erano trascorsi ormai cinque anni dalla sua partenza dalla Maddalena, durante i quali egli non aveva più fatto parlare di se, e si pensava che il mito di quell’uomo e la presa sulla fantasia popolare si fossero affievoliti, se non spenti. Così egli poté rimetter piede in patria e curarsi di una grave malattia reumatica, prima avvisaglia dell’artrite che l’avrebbe perseguitato per il resto dei suoi giorni. Da Nizza, per campare, Garibaldi, ottenne il permesso di fare il piccolo cabotaggio tra Genova e Marsiglia con la nave da carico “Salvatore“, imbarcandovi come mozzo anche il figlio Menotti. Ma pensava di fermarsi, finalmente, e il desiderio divenne imperativo un giorno del 1855, quando sbarcò in Gallura con un gruppo di amici italiani e inglesi per una partita di caccia e rimase affascinato dalla solitaria e incontaminata bellezza del promontorio di Capo Testa, con i suoi splendidi graniti protesi sulle Bocche di Bonifacio e il terreno incolto che in alcuni tratti si prestava all’aratro. Avrebbe potuto lasciare il mare e finalmente costruire una casa per la sua famiglia dove vivere in pace di una sia pur modesta agricoltura. Cercò senz’altro il proprietario del promontorio, il pastore Pietro Pelosu, e lo convinse a venderglielo, versandogli una cauzione di 200 lire. Poi riprese il mare. Ma le cose dovevano andare diversamente. Nel novembre di quell’anno morì, a Nizza, suo fratello Felice, che gli lasciò in eredità tutto quanto aveva: non molto, ma sufficiente per acquistare un po di terreno e un cutter per un modesto commercio in mare. Nel dicembre, mentre navigava alla volta di Porto Torres, una burrasca lo convinse a riparare in Corsica. Da qui, Garibaldi scrisse la seguente lettera all’amico Francesco Susini di La Maddalena: “Porto Vecchio, 7 dicembre 1855; Sono diretto per la Sardegna, qui trattenuto a bordo del “San Giorgio” per cattivo tempo. Da Porto Torres penso di percorrere la Gallura, ove penso che sarà facile che scelga un punto di stabilimento, per passarvi alcuni mesi d’inverno, o forse per abitarvi definitivamente, se trovo un posto adatto. Un consiglio vostro o di Pietro circa al punto da prescegliersi per lo stabilimento, mi sarebbe caro, quanto l’esser vicino a voi, sarebbe una delle consolazioni mie predilette….“. Finì che egli fu di nuovo ospite dei Susini a La Maddalena e ogni giorno, con Pietro, passava in Gallura per cacciare e per sondare e verificare se proprio lì avrebbe voluto stabilirsi. Con Pietro si era immediatamente riannodata la vecchia e profonda amicizia iniziata cinque anni prima e il Generale ne aveva una fiducia completa: Egli gli fece notare che parecchi pastori, e non il solo Pelosu, si contendevano la proprietà di Capo Testa e qualora Garibaldi avesse perfezionato l’acquisto con quello, “non sarebbe passato un mese ch’Ella morrebbe per mano assassina”; Il che nel duro mondo dei pastori, era una soluzione più che probabile. Perché – gli chiese Pietro – non stabilirsi in una delle isole de La Maddalena, per esempio a Santo Stefano? Garibaldi lasciò perdere le 200 lire di caparra date al Pelosu, e cominciò a riflettere sul consiglio dell’amico. Io credo che a colpirlo fosse l’idea dell'”isola”: l’isola come proprio mondo delimitato, l’isola come casa – patria della propria soggettività, ove tornare per ripossedersi, per essere se stessi, garantiti da mura d’acqua, in una solitudine mediata dal mare. Nessuna proprietà e circoscritta come un’isola. Garibaldi in quei giorni, continuando a passare dalla Maddalena alla Gallura, scartò Santo Stefano, proprio perché “troppo vicina”, quindi troppo poco isolata dal resto del mondo che per lui era certo rappresentato dalla Sardegna e non da La Maddalena. Infatti la sua scelta cadde a poco a poco si Caprera, a questa ancor più prossima di Santo Stefano, ma più appartata, difesa dalla costa sarda dalle prime due. Caprera! quel longilineo relitto di Sardegna ad essa strappato da una forza immane, imponente caos di graniti, ordinati a formare la catena orrida del Tejalone, apparentemente alta, altissima. Caprera, che l’esule aveva più volte contemplato cinque anni prima, dalla vigna dei Susini, trascolorare sulla tavolozza della natura lungo le ore del giorno in tutti i toni, dai più delicati ai più bui, e sempre restare intatta nella sua sembianza di miraggio, di scenario per un mondo a misura d’eroi o di demoni. Caprera che non offre nulla se non alla tenacia, all’umiltà del lavoro, alla semplicità, alla bontà: e non erano questi forse i sentimenti che commuovevano fino in fondo all’anima quel guerrigliero – marinaio – contadino ormai vicino alla cinquantina, che aveva percorso la circonferenza della terra senza trovare forme concrete alla propria sete di idealità? Caprera! Caprera ammantata di macchia selvaggia, avvolta di tutti gli aromi e i brusii e i voli e i suoni secchi di zoccoli caprini e suini… Caprera tuonante di ondate burrascose e di folli venti di ponente, del nord; oppure bisbigliante di sciacquii dolci come sussurri di amanti. Caprera ove vivere, ove meditare, Caprera ove Morire…. In quei giorni nacque l’innamoramento di Garibaldi per la sua isola, un innamoramento che egli volle sempre tenere riparato dal rumore dell’ufficialità, al punto che nelle sue Memorie scriverà: “Il periodo decorso dal mio arrivo a Genova in maggio del 1854 sino alla mia partenza da Caprera in febbraio 1859, è di nessuno interesse. Io passai parte navigando, e parte coltivando un piccolo possesso, da me acquistato nell’isola di Caprera.” Invece la scelta e l’acquisto dell’isola segna nella vita di Giuseppe Garibaldi lo spartiacque tra la fase errante dell’avventuriero idealista e soggettivo, sia pur grandissimo, e la maturata visione che costruisce, plasma, realizza, unifica. Il guerrigliero brasiliano col suo impeto irriflessivo non avrebbe potuto costruire una nazione: l’uomo di Caprera, capace di soffrire e di meditare, la costruì.
29 dicembre
Il primo acquisto di Garibaldi a Caprera venne fatto nel 1854 dai fratelli Ferraciolo per L.36, il secondo invece, reso possibile da una piccola eredità lasciata dal fratello Felice, avvenne nel 1855, registrato il 29 dicembre, raggiunse una somma complessiva di L.32250. In una nota autografa del generale, riportata dal Curatulo si legge:: “passata tra me e i proprietari della Caprera parte incolta di Fontanaccia, 43 lotti del signor Collins, case con stalle, parte di Giuseppe Ferracciolo, parte di Battista nel basso di Fontanaccia, parte di levante in 4 lotti. 29 dicembre 1855, atre mesi il pagamento”.
Al tempo l’isola era abitata da animali selvatici e da qualche branco di capre e di pecore, apparteneva al demanio sardo che occupava il lato settentrionale e l’aveva divisa in lotti per la vendita.
Il lato sud apparteneva ai signori Collins, una coppia di inglesi che aveva scelto di vivere a la Maddalena.
Il resto degli appezzamenti di terreno sull’isola apparteneva a due famiglie di pastori.
Garibaldi divenne proprietario della parte Nord dell’isola, acquistando un po’ di terreno dai fratelli Battista e Giuseppe Ferracciolo, un po’ dai Collins, un po’ da altri.
Si sparge la voce che Caprera fosse in vendita, l’offerta veniva da un mister Collins che – dice Ridley – era un “petulante inglese che beveva troppo e che si diceva fosse stato lo staffiere dell’affascinante signora che aveva sposato” e che viveva con lui a Moneta di La Maddalena, proprio di fronte a Caprera. Ma il pezzo messo in vendita dai Collins era meno di quanto occorresse al Generale: infatti l’atto di vendita, datato il 29 dicembre 1855, reca i nomi di altri proprietari, i fratelli Susini (che forse avevano venduto anche per contentare Garibaldi) e una famiglia Ferracciuolo, che aveva nell’isola, una casa-ovile dove Garibaldi andò ad abitare all’inizio. Garibaldi, prima di lasciare La Maddalena, diede a Pietro Susini la più ampia procura perché acquistasse per suo conto la metà circa dell’isola, tanta quanto ne consentiva l’eredità di Felice (il fratello). Pietro si mise subito all’opera, acquistando il terreno dei Collins, parte di quello di Ferracciolo (i quali possedevano una casa-ovile che finì per costituire la prima dimora del Generale) ed alcuni altri lotti. Garibaldi raggiunse Nizza e poi passò in Inghilterra per comperarvi il cutter per i suoi trasporti marittimi. Oltre la dote di Felice, per aiutare Garibaldi, il quotidiano Times di Londra, aprì una sottoscrizione, raccogliendo così la somma di denaro necessaria per l’acquisto. Caprera divenne tutta di Garibaldi solo più tardi, dopo la morte di Collins. Col bizzarro vicino Garibaldi aveva avuto, all’inizio, rapporti piuttosto burrascosi. Prima le mucche di Garibaldi invasero il pascolo di Collins, che se ne lamento, e giustamente Garibaldi fece le sue scuse: ma subito dopo furono i maiali di Collins ad entrare nella vigna del Generale. E siccome Collins non faceva caso alle sue rimostranze, all’ennesima invasione di campo Menotti sparò uccidendone uno. Collins citò Garibaldi in tribunale. Il Generale si rivolse ad un altro inglese, il capitano Roberts, già ufficiale della Marina di Sua Maestà Britannica, un altro che aveva scelto di abitare a La Maddalena. L’ideale sarebbe stato poter risolvere tutto con un duello, disse Garibaldi, Ma Roberts lo riconciliò con Collins, e dal quel momento i due divennero buoni amici. Morto Collins, la vedova vedeva sempre più spesso il generale, che la invitava a pranzo, facendola sedere – dicono i testimoni – al posto d’onore. (“Nell’isola vi erano 12 edifici con annessi per il ricovero della trentina di contadini e domestici, degli attrezzi agricoli e gli animali (150 bovini, 400 polli, 200 capre, 50 maiali e più di 60 asini, incluso quello denominato “Pio IX”). Garibaldi e la sua famiglia, grazie anche ad una rendita garantita dallo Stato della favolosa cifra di 100.000 lire annue (il bilancio dello Stato italiano era di un miliardo e trecento milioni di lire). riadattarono gli stabili, costruirono una nuova palazzina chiamata “Casa Bianca” (White House) e due mulini, di cui uno a vapore. A Caprera Garibaldi, da avventuriero quale era stato, divenne il patriarca di una comunità composta da familiari, amici e servanti, tanto che l’ anarchico e rivoluzionario russo Bakunin che si recò a visitarlo nel 1864, la definì “una vera repubblica democratica e sociale”.) Il documento pubblicato in alto, è relativo all’acquisto di Caprera: “Convenzione passata tra me e i proprietari della Caprera il 29 dicembre 1855:
-Parte incolta di Fontanaccia………. scudi 350
-43 Lotti del Signor Collins a 75 scudi. ” 3225
-Case con stalle Sig. Collins ” 775
-Parte di Giuseppe Ferracciolo ” 1300
-Case di di Battista Ferracciolo e pertinenze Capriona in comune con Giulio ” 1500
-Parti di levante con 4 lotti e del socio ” 400
-Parte di Battista nel basso Fontanaccia ” 1000
-Idem del Signor Suzini (Susini nrd) ” 400