CronologiaMilleottocento

Correva l’anno 1860

Il disegno del cortile della casa di Caprera fu eseguito dall’illustratore inglese Frank Vizetelly che nel 1860 si recò in visita sull’isola.
Gli schizzi dal vero di Vizetelly sono un fedele ritratto del paesaggio e della vita di quel tempo sull’isola.
Il disegno della foto ritrae Garibaldi nel cortile, circondato dagli animali della sua azienda agricola.
Sullo sfondo la sua prima abitazione, la casetta dei pastori che trovò quando acquistò la sua proprietà a Caprera, e la casa di legno che costruì personalmente, con assi di legno trasportate nel 1856 da Nizza, in attesa di costruire la casa Bianca.
Sembra di essere catapultati indietro nel tempo, non trovate?
Gli schizzi che Vizetelly effettuò a Caprera, furono pubblicati su The Illustrated London News del 1861.

Martino Peraldi è sindaco di Santa Teresa. Ricoprirà l’incarico fino all’anno successivo.

Qualcuno fuori dall’isola scoprì la convenienza del granito della Maddalena per lastricare strade. L’impresa Serafino Lintas, Baingio Mura Multineddu e [?] Piu di Sassari conclusero un accordo con Giovanni Leonardo Bargone per estrarre materiale dalla zona di Nido D’Aquila: la qualità della pietra e la relativa facilità e rapidità di trasporto, che si effettuava via mare fino a Porto Torres, aveva fatto preferire il granito della Maddalena a quello di altre località tradizionalmente più attrezzate per questo tipo di fornitura e di lavorazione. Non sappiamo molto sulle quantità estratte e sul tempo dell’attività della cava. Sappiamo però che, terminato l’appalto, la zona rimase per qualche anno inutilizzata, tanto che lo stesso Bargone aveva consentito a cedere gratuitamente dei cantonetti di scarto per terminare i lavori di ristrutturazione del molo di Cala Gavetta, continuamente sottoposto a integrazioni o sostituzioni delle parti maggiormente danneggiate: ciò aveva provocato la denuncia da parte di un certo Serra che, avendo lavorato per la ditta di Sassari, si riteneva proprietario della pietra tagliata rimasta nel cantiere abbandonato. É grazie a questa contestazione che apprendiamo i nomi di alcuni dei primi tagliapietre maddalenini conosciuti: Serra Giovanni Battista, Pittaluga Salvatore e Peraldi Pietro. Dopo questa prima commessa pare che l’interesse per il granito della Maddalena fosse venuto meno, tant’è che anche gli scalpellini citati avevano cambiato mestiere: Pittaluga era stato assunto al faro di Razzoli e Peraldi si era trasferito alla Spezia. Vedi anche: I primi tentativi di cava

Non si hanno molte informazioni sulla presenza di maddalenini o ilvesi in Argentina, così come d’altronde non si hanno che scarne notizie, più in generale, sul flusso migratorio che dalla Sardegna si è diretto nel paese del Plata. Nell’isola-continente il fenomeno dell’emigrazione è iniziato relativamente tardi rispetto ad altre regioni d’Italia, raggiungendo un certo peso, degno di essere rilevato a livello statistico, a partire dagli anni 1897-1898, quando oltre 5.000 sardi, quasi esclusivamente contadini con le loro famiglie, emigrarono in Brasile. Prima di quegli anni l’emigrazione fu molto contenuta e, ancor di più, nella prima metà del XIX secolo, quando gli espatri assumevano il carattere di episodi sporadici. Infatti, alcuni autori affermano che si possa parlare di emigrazione, almeno per quanto riguarda la Sardegna, solo a partire dagli anni ottanta dell’Ottocento, quando tale flusso assunse il carattere di un fenomeno sociale più ampio, inteso anche come risposta a una situazione di disagio socio-economico.
Ad ogni modo, grazie a una prima ricognizione sulle presenze sarde e ilvesi in Argentina, effettuata presso l’Archivio del Centro de Estudios Migratorios Latinoamericanos di Buenos Aires (CEMLA), è emerso che gli espatriati sono soprattutto marinai. Si tratta di un flusso modesto, ma che merita di essere conosciuto e approfondito. Tra gli ilvesi giunti al Plata, tra il 1860 e il 1862, si segnalano i marinai Giuseppe Poggi, di anni 36, coniugato; Antonio Polverino, coniugato; Antonio Quirico di anni 24 e Angelo Tarantini, entrambi celibi; Pasquale Cogliola, di anni 45, sposato, di professione barciaiolo. Invece, con riferimento agli anni 1859-1861, risaltano alcuni nominativi di emigrati sardi, sbarcati al porto di Buenos Aires, provenienti da altre parti dell’isola: da Cagliari, da Olbia e da altre aree geografiche non specificate. (Le notizie relative ai maddalenini emigrati in Argentina sono state raccolte dalla Dott.ssa Roberta Murroni grazie alla consultazione di alcune liste di sbarco relative agli anni cinquanta e sessanta dell’Ottocento, conservate all’Archivio del CEMLA di Buenos Aires.)

24 gennaio

La contessina Giuseppina Raimondi era benestante, davvero bella, davvero giovane e intrigava di desiderio Garibaldi. Lui 53 anni e lei 19 … Pare che il matrimonio lo avessero già consumato con ancor prima di celebrarlo, il 24 gennaio del 1860, data funesta per il nostro eroe perché poco dopo il fatidico sì, si trovò suo malgrado a leggere una lettera che parlava, suo malgrado, di corna, nei suoi confronti. Infuriato, Garibaldi ripudiò di fatto ed immediatamente la novella sposa, e il 30 gennaio si imbarcò da Genova per Caprera. A Caprera il nostro eroe mise piede i primi di febbraio, intrattenendo da subito corrispondenze per l’annullamento del matrimonio “tradito”, che bruciava non poco il suo orgoglio. Che bella che era Caprera a febbraio! Nonostante il vento e l’umidità. Giuseppe era tornato nella sua casa e tra i suoi affetti più cari e sinceri. C’erano gli amici maddalenini, i suoi fedelissimi, c’era da cacciare, c’era da dare una riordinata agli orti e al frutteto, e da badare agli animali. L’uliveto… Garibaldi decise d’ingrandirlo un po’, ordinando in Continente una decina di alberi da mettere a dimora non appena fossero arrivati.

8 febbraio

Negli appunti del generale riportati dal Curatulo, si legge “..8 febbraio 1860 si ripara abbeveratoio..” “n.d.c.”: probabilmente non si tratta dello stesso che troviamo oggi nel cortile della casa colonica, visto che questo non compare in nessuna fotografia o rappresentazione di quell’epoca, alcuni autori, ne attribuiscono comunque la paternità a Garibaldi in epoca imprecisata (il lavabo che porta l’incisione “Achille Fazzari 20 Gennaio 1880, potrebbe essere stato aggiunto in un secondo momento).

marzo

A Caprera, dove l’eroe si diletta a coltivare ortaggi, qualcuno va a parlare con Garibaldi della prossima impresa. Intanto la regione più a nord del regno sardo-piemontese se ne va. I francesi si prendono la Savoia e a noi lasciano i Savoia. Ancora oggi ci si domanda chi ci abbia guadagnato. La Savoia è sicuramente bellissima. In più alla Francia va in dono anche Nizza e Garibaldi si infuria: quella è casa sua, ci è nato e lì l’hanno battezzato. È il momento in cui decide di partire e poco male se i volontari disposti a seguirlo sono pochi. Quando a Quarto lo informano che sono più di mille, esclama: Eh! Così tanti! Ma la ferita brucia. Il generale pretende che nel registro dei Mille imbarcati sul Lombardo e sul Piemonte venga scritta accanto ad ogni nome la nazionalità. Ci sono tedeschi, polacchi, persino un turco. Anche lui deve essere segnato sul registro. Scrivono: Giuseppe Garibaldi, nazionalità francese. Sempre nel 1860, Antonio Balbiani nel libro “Storia illustrata della vita di Garibaldi”, scrive (tra le altre cose) di Agata, la giovane figlia della proprietaria dell’unico albergo di La Maddalena. Agata era cosi bella che il pittore Zuccoli volle farne il ritratto. Scrive il Balbiani: “Alta e spiccata la persona, il collo di cigno; ovale il viso contornato da una profusa e nerissima capigliatura. Aggiungasi un profilo di meravigliosa venustà nella singolare armonia delle curve; pupille velate, dal vivacissimo fuoco; labbra di corallo, denti di avorio, color bianco alabastrino della carnagione, e avete un’idea, sebbene imperfetta, dell’originale in cui Zuccoli ha nel suo portafoglio la gentilissima copia”. E’ più oltre aggiunge che nelle donne di quest’Isola rifugge un tipo italo-greco, il più puro”. Ma queste donne erano anche dotate di grande energia e robustezza: le abbiamo già viste portare le anfore per l’acqua e la calce per la costruzione della chiesa; si aggiunga che a La Maddalena non esisteva il mulino, ed esse usavano macinare il grano sulla soglia di casa con pesanti macine, lavoro durissimo; dovevano provvedere a conservare il poco che la terra dava e quindi preparavano marmellate di fichi, uva e fichi d’india; sapevano seccare piselli, fave, fagioli, fichi, pesce (perfino i polpi e le razze); conservavano sottolio peperoni, melanzane e carciofi. Poi ogni anno la casa veniva completamente imbiancata a calce e poiché gli uomini erano quasi sempre in mare, questo lavoro era svolto dalle donne. Inoltre sapevano cucire gli abiti propri e dei figli, tutte si cucivano il corredo, molte filavano la lana e la gnacchera (Pinna Nobilis), cioè il prezioso bisso che si ricavava dalle grandi conchiglie chiamate appunto gnacchere o pinne, facevano e riparavano reti da pesca. I guanti confezionati dalle maddalenine erano usati in tutta la Sardegna. Sempre più numerose erano le famiglie che contemporaneamente vivevano di pesca o marineria e di una modesta agricoltura: assente l’uomo, era ancora la donna che portava avanti la cura del bestiame, del frutteto, della vigna. Inoltre essa si trovava per mesi ed anni a dover reggere da sola la famiglia, ad allevare i figli, a curare i vecchi. Intorno alla metà del secolo, già La Maddalena non contava più un solo analfabeta, quando ancora in Sardegna superavano largamente il cinquanta per cento della popolazione: infatti appena fu istituita la scuola elementare, che non era né obbligatoria né gratuita, tutti la frequentarono. Nei registri di dogana degli anni 1815 – 1820, si notano molti arrivi di carta per scrivere, di penne, di pacchi di libri. I bambini venivano allevati soprattutto dalle mamme e dai vecchi e spesso conoscevano ben poco il padre, quando questi navigava. Comunque i maschi, giunti all’età di 11 – 12 anni, venivano perlopiù imbarcati a loro volta o sulle navi militari o su quelle mercantili ed era frequente il caso in cui non tornassero nell’Isola se non uomini fatti, a volte dopo la quarantina. Eppure dovevano tenere una regolare corrispondenza con le famiglie e queste tra di loro combinavano i matrimoni tra gli assenti e le ragazze. Sempre più spesso, col passare degli anni, invalse l’uso dei fidanzamenti in cui i due promessi sposi non si erano mai visti, almeno in età adulta, e dei matrimoni per procura: in tal caso, un messo del fidanzato si recava a casa della ragazza e trattava le nozze con la famiglia di lei; veniva quindi steso un regolare contratto o celebrato il matrimonio per procura. Poi lo stesso messaggero accompagnava la sposa nella città di residenza del marito, recando con gran pompa il corredo lungamente preparato. Altri maddalenini preferivano sposarsi tardi, dopo aver navigato per più di trent’anni; tornavano ormai anziani alla loro isola tanto amata e tanto lungamente desiderata e lì sceglievano tra quelle belle figliole la moglie. Esistono alcune testimonianze di scrittori del tempo che sottolineano la frequenza di tali matrimoni tra ultracinquantenni e giovinette e di bimbi con madri giovanissime e padri anziani. Parecchie erano infine le donne che in mancanza di coetanei a La Maddalena, finivano per sposare giovani sardi o corsi e ciò non faceva che intensificare i vincoli di parentela con queste zone già vicine per antichi rapporti e geograficamente. Una passione dei maddalenini era la caccia. Nei nostri registri di dogana compare un’incredibile quantità di canne da “schioppo” e pallini; facevano battute di più giorni in Gallura, ospitati da quei pastori e ne tornavano carichi di prede che erano altrettante occasioni per far festa. L’arrivo di un ospite era un avvenimento per tutta l’Isola , e questi si trovava ben presto in una calorosa e accogliente rete di inviti, da una casa all’altra, dalla più ricca alla più modesta; e veniva accompagnato a caccia, a pesca, in campagna; e tutto gli era offerto con un signorilità e una grazia di cui restano decine e decine di testimonianze scritte. Ne si badava da quale parte del mondo l’ospite venisse e quale lingua parlasse: era ospite benedetto, e basta. Perfino la morte era occasione di incontro e nell’Arcipelago era invasa l’usanza di Gallura di preparare, dopo le esequie un solenne pranzo in onore del defunto e degli ospiti intervenuti. Così come negli stazzi dei pastori di Gallura, anche qui si uccideva una bestia e la si cucinava destinandone meta agli ospiti e metà ai poveri che venivano invitati. Questa usanza è seguita ancor oggi in Sardegna.

2 aprile

Garibaldi parte da Caprera per Torino dove partecipa ai lavori del Parlamento come Deputato di Nizza. Il 12 dello stesso mese ha un violento scontro con Cavour a proposito della cessione di Nizza alla Francia, avvenuta il 28 Marzo.

11 aprile

Le Bocche di Bonifacio, straordinaria quanto famosa via del mare fin dai tempi dei traffici della Roma Repubblicana con la costa iberica, diventarono tristemente famose invece, nei tempi moderni, per il più drammatico naufragio del Mediterraneo, della fregata francese di primo rango, La Sèmillante, con 700 persone a bordo, tutte morte nelle acque di Lavezzi, il 15 febbraio 1855. Sull’argomento si sono pubblicati diversi racconti importanti e qualche libro, compreso quello di chi scrive, intitolato “Pascal mon amie”, di cui è prossima la riedizione, con la prefazione, stavolta, della docente universitaria maddalenina Paola Ruggeri. Nelle Bocche di Bonifacio, tuttavia, si sono registrate anche altre tragedie del mare. Oggi vi racconterò la storia inedita del naufragio del veliero francese, “Jason”, di cui ho avuto notizia molti anni or sono, grazie a una dettagliata relazione, riassunta in una delibera consiliare del 27 novembre 1861, prot. 2414, richiesta dal Ministero dell’Interno a completamento della pratica di alcuni encomi, con relativo premio in denaro. Il “Jason”, un veliero in legno di quercia, dipinto di nero, adibito al trasporto di merci varie, giungeva a vele spiegate l’11 aprile 1860, da Marsiglia. Sia pure con qualche difficoltà, a causa di un forte vento di maestrale, che, (in maniera repentina quanto imprevedibile presto girerà a tramontana) aveva costeggiato ad occidente la Corsica. Proprio quando il veliero riteneva di poter trovare maggior riparo, entrando nelle Bocche di Bonifacio, per ripararsi dalla tramontana, sebbene si tenesse alla larga dai temutissimi scogli di Lavezzi, si trovò invece ad affrontare sotto costa uno strano, imprevisto, ribollire del mare a tribordo con forte risacca. Forse perché turbato psicologicamente dalla storia drammatica del naufragio di cinque anni prima, il comandante fece procedere il veliero, a velatura ridotta. Il vento, urlando indemoniato, spingeva ondate di burrasca sul ponte di comando, mentre, non pago, intensificava ulteriormente le proprie gelide raffiche sulle sàrtie, facendo tremare l’alberatura del veliero. Il “Jason” era-a detta degli esperti-un veliero in grado di tenere bene qualunque tipo di mare, ma quel giorno, nelle Bocche, vento e mare ce l’avevano messa proprio tutta per confondere ulteriormente le idee al comandante. Dopo alcuni fatali istanti di indecisione, questi, non riuscendo a leggere nel migliore dei modi il quadro meteomarino, letteralmente in balia delle onde, anziché riprendere a scendere ad occidente dell’arcipelago maddalenino, per trovare riparo magari a Cala Lunga, ritenne giunto il momento di allineare proprio il faro di Razzoli con ciò che in quel finimondo sarebbe dovuta essere la Presa. Il veliero francese, esposta la fiancata di babordo ad una nuova bordata di tramontana, finì con estrema violenza, a causa dell’incontenibile scarroccio, che già gli aveva sfibrato il mascone di sinistra e il resto della velatura, sulle secche della “costiera” a settentrione di Razzoli, andando letteralmente “in pezzi”. Era la notte tra l’11 e il 12 aprile 1860 e il Jason, rotto il sistema di timoneria, con l’invasione improvvisa di valanghe d’acqua nella stiva, venne avvistato ancora in assetto, per un ultimo istante, dai fanalisti di Razzoli. Poi la coperta del veliero esplose sotto gli occhi terrorizzati dell’equipaggio, forse per la pressione straordinaria dell’acqua del mare, oppure, più verosimilmente, per un ulteriore urto del dritto di prua contro la roccia emergente. Il veliero aveva una ventina di persone di equipaggio a bordo. Di questi, quattordici furono inghiottiti immediatamente dal mare, dopo lo schianto, per poi essere riportati dalle forti ondate, sugli scogli, ormai cadaveri nelle ore successive. Tutti i morti tornati a galla, furono il giorno dopo recuperati e ricomposti sulla scogliera. Qualche giorno dopo, quando le acque del mare si erano notevolmente calmate, i cadaveri furono trasportati col lancione di servizio nella vicina isola di Santa Maria, dove vi era terra sufficientemente soffice per scavarvi delle fosse e procedere a una dignitosa sepoltura. La pietosa opera venne eseguita dal pastore Giovanni Battista Simeone, che percepì per questa ingrata incombenza, lire 150 dal Ministero della Marina (mandato messo in corso sulla categoria 7 n. 493 del bilancio 1860, intestato al medesimo ed esigibile a Tempio il 17 ottobre 1861, in partenza da Torino). Tre naufraghi, invece, erano stati tratti in salvo dai fanalisti di Razzoli Domenico Barrera, Tomaso Ornano, Giuseppe Viggiani, Gio Battista Simone, che erano riusciti nelle tenebre a individuarli e a portare loro aiuto, fra mille difficoltà, mettendo a repentaglio la loro stessa vita. Il forte vento continuò a imperversare nelle Bocche per altre quarantotto ore, ma quella notte, per quanto l’oscurità venisse squarciata solo a tratti dai lampi del faro, il comportamento dei fanalisti, dovette essere davvero eroico; ed “eroico”, effettivamente venne definito, negli atti ufficiali. I superstiti attestarono il comportamento coraggioso dei fanalisti con una dichiarazione giurata. Il 19 febbraio 1861, venne accreditato presso la Regia Intendenza del Circondario di Tempio una “gratificazione per salvamento naufraghi nave Jason” di lire 100, da dividere in lire 25 per ogni fanalista. (Gian Carlo Tusceri)

24 maggio

Garibaldi si sposò con la marchesa Giuseppina Raimondi, 18 anni, ma la ripudiò’ il giorno successivo, dopo aver saputo che era incinta di un suo garibaldino, Luigi Càiroli. In quegli anni il Generale ebbe una profonda e lunga relazione sentimentale con la ventenne e ricca ereditiera Speranza Von Schwartz, di origine tedesca ma naturalizzata inglese, la quale lo venne a trovare più volte nell’isola, lo aiutò’ nei suoi contatti internazionali e curò’ l’educazione in Europa della figlia Anita, ma rifiutò’ la sua proposta di matrimonio. Giuseppina Raimondi, allora 18enne. Figlia illegittima del marchese Giorgio Raimondi Mantica Odescalchi, fervente patriota, seguì il padre nel suo esilio svizzero, partecipando poi attivamente alle lotte per l’indipendenza italiana. Era una donna di grande temperamento che dimostrò anche avviando una vorticosa giostra di amanti. E forse anche per questo rifiuto la serrata corte dell’eroe iniziata nel giugno del 1859 quando gli apparve «come una visione». In particolare, in quel periodo la giovane frequentava due giovani garibaldini: il tenente Luigi Caroli e il maggiore Carlo Rovelli. Dopo aver a lungo rifiutato le proposte di matrimonio, la Raimondi nel 1860 accettò inaspettatamente la proposta di matrimonio. Il nizzardo la raggiunse nella sua villa di Fino Mornasco e il 24 gennaio avvenne la cerimonia. Subito dopo però si presentò il maggiore Rovelli che presentò a Garibaldi la lista dei tanti amanti della donna, con cui aveva intrattenuto relazioni fino a pochi giorni prima del matrimonio. Il generale chiamò «a rapporto» la sposina che senza tanto imbarazzo confessò tutto e venne immediatamente ripudiata. Le strade dei coniugi si divisero. Garibaldi tornò a Caprera dove iniziò l’ultima relazione della sua vita, appunto con la Armosino, mentre Giuseppina Raimondi continuò a collezionare amanti. Fino a quando nel 1880 la loro unione venne dichiarato nulla. Quello stesso anno l’eroe sposò la sua ultima compagna, mentre la sua ormai ex moglie convolò a nozze con il patriota e avvocato Lodovico Mancini, suo cognato, dal quale ebbe la sua unica figlia, Nina.

27 maggio

Durante la partenza dei Mille da Quarto, le barche che dovevano portare armi e munizioni non comparvero e ciò costrinse poi Garibaldi a fermarsi a Talamone per cercare di procurarsi quello che gli abbisognava. Cesare Abba, che è il più noto fra i tanti che hanno scritto la storia della spedizione dei Mille, nella sua opera più famosa Da Quarto al Volturno non dice nulla su questo importante episodio però nel suo libro Storia dei Mille, scritto molti anni dopo il precedente e che quindi contiene non solo i suoi ricordi ma anche una ricca messe di altre informazioni, ci racconta nel dettaglio cosa accadde. Benché la Società Rubattino fosse d’accordo a fornire i due vapori Piemonte e Lombardo a Garibaldi, bisognava far sembrare che fossero stati presi colla forza. Già da alcuni giorni Nino Bixio aveva fatto nascondere fucili e munizioni nella vecchia carcassa di una nave, chiamata nave Joseph, che si trovava vicino alle due navi da catturare. Alle nove e mezza del 5 maggio con una quarantina di uomini Bixio, ricuperate le armi, si impadroniva dei due vapori, caricava una parte dei volontari che si trovavano alla foce del Bisagno e si recava verso Quarto per caricare gli altri volontari che si erano già allontanati da riva su molte barche. Secondo il piano fra le quelle barche avrebbero dovuto essercene anche alcune cariche di armi e munizioni che erano immagazzinate a Bogliasco. All’alba del 6 maggio però Garibaldi e Bixio, parlandosi da un vapore all’altro, scoprirono che le barche non erano giunte per cui avevano fucili ma non munizioni. Cosa era successo? La sera prima Bixio e l’Acerbi avevano mandato un gruppo di giovani genovesi al ponte di Sori dove avrebbero trovato due uomini ai quali avrebbero dato una parola d’ordine. Da costoro avrebbero avuto le casse di armi e munizioni, che erano a Bogliasco, da caricare nelle barche e poi, condotti sempre da costoro, avrebbero dovuto raggiungere i due vapori catturati da Bixio stesso. Abba non ci dice i nomi di questi due ma ci racconta che qualcuno di quei giovani sospettò subito di costoro temendo che fossero gli stessi che, nel 1857, dovevano condurre Rosolino Pilo con un carico d’armi ad incontrare il vapore Cagliari su cui si trovava Pisacane ed invece girarono per il golfo senza trovare il vapore per cui Pisacane andò incontro alla morte senza armi. Bixio però non volle dire i nomi e quando i giovani li incontrarono videro che si trattava proprio delle stesse persone. I loro timori purtroppo erano giustificati infatti i due consegnarono le casse con le armi e le munizioni ed i giovani caricarono tutto ma poi, al momento di imbarcarsi, si scoprì che uno si era allontanato mentre l’altro si rifiutò di salire sulle barche. Visto che le suppliche non lo smuovevano si provò con le minacce ma costui saltò in un leggerissimo canotto a due remi e si allontanò da riva, gridando che lo seguissero alla luce del fanale che stava accendendo sulla sua poppa. Fu giocoforza seguirlo ma dopo una ventina di minuti la luce si spense e quell’uomo sparì nel buio e non si fece più vivo. Allora i rematori, che erano tutti di Cornegliano, vogarono al largo verso ponente dicendo di aver avuto l’ordine di andar allo scoglio di Sant’Andrea presso Sestri Ponente dove ci sarebbero stati i vapori. In realtà, così facendo, passarono al largo di dove si trovavano i due vapori e si diressero verso la parte opposta rispetto a Genova. Dopo varie ore i volontari costrinsero i barcaioli a tornare verso levante ma ormai era tardi e solo all’alba, videro, da molto lontano, due vapori che viaggiavano verso Portofino. Secondo alcuni il motivo di questo tradimento era dovuto a mene di Cavour ma mi sembra probabile che sia giusto quanto scrive Cesare Abba che pensa che costoro, che erano due contrabbandieri, volessero approfittare dell’occasione per fare un buon colpo. Scrive infatti: Intanto i due uomini, i due traditori che gli avevano ingannati, erano stati tutta la notte a scaricare mercanzie di contrabbando, sete e coloniali; certo approfittando del fatto che i doganieri lungo le rive o non v’erano o facevano cattiva guardia, per ordini avuti di non disturbar nessuno quella notte di misteriosa faccenda. Garibaldi riuscì a rimediare alla meglio fermandosi a Talamone dove poté avere parte di quello che gli serviva ma a Genova era rimasto Agostino Bertani, organizzatore della spedizione, che voleva rimediare al contrattempo. Il Bertani, con il concorso di La Farina, noleggiò il vapore Utile, che era della società Queirolo, e che faceva servizio di rimorchiatore e lo fece partire al più presto con alcune migliaia di fucili ed un milione di cartucce. Come scorta sul vapore si imbarcò un gruppo di volontari scelti da Medici e da La Farina. La notte del 25 maggio, alle 23, l’Utile levava l’ancora. I suoi documenti dicevano che era diretto ad Atene. L’Utile era un vapore a ruote di sole sessantanove tonnellate di stazza e fino ad allora era stato usato come rimorchiatore del porto. Era stracarico e viaggiava ad appena quattro nodi. A bordo c’erano 69 persone, una delle quali però non faceva parte dei volontari scelti da Medici e da La Farina. Si trattava di Giulio Adamoli, un giovane di vent’anni che l’anno precedente si era arruolato volontario nell’esercito piemontese ed aveva combattuto a San Martino. L’Adamoli era giunto a Genova quella mattina stessa ma il Bertani non aveva voluto dirgli della spedizione che doveva partire alla sera ma accadde che Adamoli incontrasse per caso uno degli uomini che dovevano partire sull’Utile. Si trattava di Francesco Fera, un calabrese che aveva combattuto come volontario nei Cacciatori delle Alpi e che Giulio Adamoli conosceva molto bene perché Francesco Fera era rimasto ferito a Varese ed era stato curato nella casa di Adamoli stesso. Il Fera, saputo che Adamoli aspettava d’imbarcarsi per la Sicilia, gli confidò che lui doveva partire la sera stessa e gli raccontò della spedizione. Adamoli non ci pensò su un attimo, lo accompagnò al molo e salì con lui a bordo del vapore. La partecipazione di Giulio Adamoli alla spedizione dell’Utile è stata per noi una grande fortuna perché poi Adamoli pubblicò un libro di memorie che è estremamente interessante e ricco di notizie ma soprattutto è scritto molto bene per cui è piacevolissimo da leggere e consiglio a tutti la sua lettura. Da questo libro apprendiamo anche come mai il Bertani avesse voluto tenere nascosta all’Adamoli la notizia della spedizione dell’Utile. Dopo la fine della II Guerra d’Indipendenza Adamoli era rimasto nell’esercito piemontese frequentando un corso per diventare ufficiale. Appena seppe della partenza della spedizione di Garibaldi volle seguirlo per cui, il 10 maggio, presentò le sue dimissioni dall’esercito che il suo colonnello inviò il giorno successivo al Ministero ed, in attesa della risposta, gli accordò una licenza di tre giorni per andare a casa sua a Varese. Quando Adamoli tornò a Milano trovò che il suo reggimento era partito per Livorno e lo seguì. Passando per Genova però andò a parlare col Bertani e con Medici che gli confidarono che si stava preparando una prossima spedizione ma piccola alla quale avrebbero partecipato pochi volontari. Si trattava certamente della spedizione dell’Utile. Il 20 maggio furono accettate le dimissioni per cui Giulio Adamoli era libero di partire ma a questo punto Bertani gli disse che per il momento non partivano spedizioni e gli consigliò di tornare provvisoriamente a casa sua a Varese. Adamoli tornò a Genova alla mattina del 25 ed era d’accordo che Felice Origoni lo raggiungesse alla sera per poi partecipare assieme alla futura spedizione. Giunto a Genova sentì delle voci sulla partenza di una spedizione per la Sicilia alla sera stessa ma sia Bertani che Medici gli dissero che si trattava di fandonie. Il caso però volle diversamente e Giulio Adamoli, incontrando Francesco Fera, seppe della spedizione e decise su due piedi di partire senza nemmeno tornare all’albergo per lasciare un biglietto per Origoni. Il motivo dello strano comportamento di Bertani e di Medici che lo spiega Adamoli stesso: Medici stava preparando la sua spedizione che sarebbe stata molto grossa ed aveva bisogno di persone esperte per i posti di comando e quindi l’Adamoli, come ex-ufficiale dell’esercito piemontese, gli avrebbe fatto molto comodo. Seguiamo ora il viaggio dell’Utile che, come scrive Adamoli, immerso fino ai tamburi per il grave carico delle armi e delle munizioni, navigava pesantemente, filando in media quattro sole miglia per ora. Il capitano del battello era Francesco Lavarello di Livorno e l’equipaggio era formato da marinai genovesi. A bordo c’erano sessantanove persone. La maggior parte dei volontari era formata da siciliani di Palermo e di Trapani, c’erano parecchi genovesi ed anche tre stranieri (due ungheresi ed un polacco). Capo della spedizione era Carmelo Agnetta, siciliano, che era stato imprigionato nel 1848 e poi era emigrato vivendo prima in Oriente e poi a Parigi. Però uno dei siciliani, Enrico Faldella di Trapani, che era stato ufficiale della marina britannica (Adamoli precisa di non essere certo di questa notizia), dichiarò di voler essere indipendente. L’Utile costeggiò la Corsica e poi dovette far rotta sull’isola della Maddalena perché, essendo stracarico di casse, aveva imbarcato solo il combustibile per due giorni di navigazione. Il 27 maggio l’Utile, con un certo rischio perché privo di pilota e col vento che aveva rinforzato, attraccava a La Maddalena. Dapprima le autorità del luogo non volevano rifornire la nave ma poi, dopo uno scambio di telegrammi con il ministero, fornirono il carbone che serviva. Qui uno dei volontari, impaurito più dalle condizioni della nave che dalle future battaglie, volle sbarcare e tornò a Genova da dove però partì successivamente con una delle altre spedizioni per la Sicilia. A La Maddalena, oltre al carbone, si imbarcò un pilota del luogo che li condusse fino a Cagliari dove arrivarono alla mattina del 29 maggio e dove dovevano nuovamente procurarsi del carbone. A Cagliari però trovarono una nave da guerra sarda, l’Authion che era comandata dal tenente di vascello Piola Caselli. Vi era un forte timore che la nave da guerra potesse interferire con la spedizione e l’Agnetta decise di andare subito a bordo dell’altra nave per vedere la situazione e se necessario, cercare di far credere che l’Utile fosse solo una nave mercantile diretta ad Atene, come dichiarava la patente. Ben presto Agnetta tornò tutto contento perché, non solo aveva scoperto che l’Authion non aveva nessuna intenzione di fermare l’Utile ma anche che l’Authion era venuto a Cagliari da Palermo per trasmettere al governo sardo la notizia che Garibaldi era entrato a Palermo la mattina del 27 dove aveva combattuto ed era rimasto. Mentre si caricava il carbone, il comandante dell’Authion, il tenente di vascello Piola Caselli, dava ad Agnetta alcune importanti informazioni dicendogli di non dirigersi su Palermo dato che il porto era occupato dalle navi da guerra borboniche e di stare attento alle numerose navi da guerra che pattugliavano la costa per impedire altri sbarchi. Il comandante dell’Authion però non si limitò ai consigli ma, dato che la sua nave doveva tornare subito a Palermo, prese una lettera, da consegnare a Garibaldi, nella quale Agnetta lo avvisava dell’arrivo dell’Utile e gli chiedeva di mandare una barca vicino ad Ustica per sapere dove dovevano sbarcare. Il 30 maggio, l’Utile lasciava Cagliari diretto in Sicilia.

5 giugno

Alessandro Dumas, che a Palermo ha già contattato Garibaldi, arriva a Caprera col suo panfilo “Emma”, comandato – scriverà Montanelli – “da una ragazza di sedici anni vestita da ammiraglio”. Lui è “vestito di bianco come un gelataio e con una paglietta decorata di piume bianche, rosse e azzurre”. Che ci fa a Caprera, mentre il padrone di casa è a Palermo? Forse si tratta di qualcosa che ha a che vedere con la rapida puntata che ci farà il Generale verso ferragosto. Lo stesso giorno, un tale De Vezzani (pseudonimo di Giacomo Griscelli, cosiddetto barone di Rimini) che aveva presentato ai due governi un piano per portare a termine l’assassinio di Garibaldi che doveva essere attuato con la complicità di un generale “…che chiede di vendersi. se Sua Santità gli dona 200.000 libbre e il grado di Comandante in capo a Roma”, del cuoco di Garibaldi “…che per denaro avvelenerebbe Gesù Cristo”, o del suo aiutante di campo Cenni anche lui disposto a tradire l’Eroe per trenta denari. La proposta del De Vezzani, ritenuto un esaltato, non fu presa in considerazione, anche se lo stesso, alcuni anni dopo, sia pure senza far precisi nomi, ebbe a scrivere in un memoriale che numerosi furono gli alti prelati e i politici che lo avevano finanziato per portare a termine l’impresa. Di ben altra portata, invece, le intenzioni borboniche dopo lo sbarco dei Mille e la presa di Palermo. Ferdinando II di Borbone, qualche anno prima, aveva relegato a Ischia il famoso bandito calabrese Giosafatte Tallarico che per anni aveva imperversato nella Sila e che si era alla fine arreso a seguito di una “componenda” in base alla quale era stato esiliato con una rendita annua a condizioni che non si allontanasse dall’isola e che non commettesse più atti contro la legge. Questi però, annoiato dalla tranquilla vita isolana, aveva più volte manifestato la sua disponibilità a mettersi al servizio del Re per combattere i banditi della Sila, terra della quale conosceva ogni anfratto. Ferdinando II, ritenendo poco dignitoso avvalersi dell’opera di un pentito, aveva sempre rifiutato le proposte del Tallarico, ma suo figlio Francesco II che, come dice il d’Ambra “…andava più per le spicce”, dopo aver rifiutato l’offerta del caporale Valentini, che voleva infiltrarsi fra le camicie rosse, decise di avvalersi dell’opera di un vero professionista qual era stato il “Re della Sila”. Il Valentini, comunque, partì di sua iniziativa per la Sicilia. Il 5 giugno 1860. il marchese di Villamarina, ambasciatore Piemontese a Napoli, scriveva al marchese d’Aste, comandante della pirofregata Governolo a Palermo: “Certo Luigi Galvani, veneziano, dimorante da più anni a Napoli, si è recato presso di me onde farmi avvertito, essere partito alla volta di Palermo un tale Valentini, caporale di marina, giovane di alta statura, il quale si sarebbe volontariamente offerto per attentare alla vita del generale Garibaldi. Benché io non faccia generalmente gran caso di tali asserzioni, credo nondimeno, nell’attuale situazione delle cose, doverla pregare di farne parola, se ciò è possibile, a chi di ragione, affinché qualora un individuo di simil nome si presentasse, sia convenevolmente sorvegliato”.

8 giugno

Tre giorni dopo, il Villamarina comunicava ancora: “Col mezzo dell’avv. Galvani già menzionato nella mia precedente, mi pervennero nuovi ragguagli intorno al caporale Valentini; è uomo di circa 30 anni, alto e magro nella persona, pallido in viso, con occhi celesti. Da sorgenti diverse, e non indegne di fede, mi risulta inoltre essere stato inviato allo stesso fine tale Giosafatte Tallarico; già celeberrimo bandito calabrese. Egli imbarcavasi il 6 corrente su legno mercantile alla volta di Palermo. Dicesi accompagnato da 10 o 11 individui per assecondarlo”.

9 giugno

Il 9 giugno, Carlo di Persano, contrammiraglio comandante la squadra passato poi alla storia per l’infausta sconfitta di Lissa, sollecitato da Cavour, avvertiva Garibaldi: “Caro Generale, Ora che sono le 11 di sera, un ufficiale della marina napoletana, condotto da altri suoi compagni, quali remiganti, è venuto per confermarmi quanto scrisse Villamarina. La cosa parrebbe dunque assai più vera che non ci sembrava. State quindi sulle vostre guardie e fate le ricerche necessarie: lo dovete all’Italia”. Il giorno dopo il Persano annotava sul suo diario: “…corro io stesso ad informare il Generale. Ma se egli si dimostra riconoscente dell’avviso e a chi glielo manda, altrettanto è noncurante del pericolo che lo minaccia. Fu solo per compiacermi, giusta le mie reiterate istanze, che, sorridendo, ne fece parola a un suo aiutante di campo”. Del Valentini, che probabilmente non riuscì ad infiltrarsi fra le camicie rosse, si perse ogni traccia; Tallarico giunse invece a Palermo con i suoi undici compagni, ma travolto dall’entusiasmo popolare per l’Eroe non solo rifiutò di portare a termine la sua nefanda impresa, ma denunciò la congiura al tribunale di guerra offrendosi di servire nelle fila garibaldine. Garibaldi lo accolse fra le camice rosse e Tallarico, unitamente all’altro famoso bandito calabrese Gasparone, combatté in Sicilia e nella Calabria.
Ma i pericoli per il Generale non erano cessati; nel maggio del 1861, quand’egli, conclusa l’impresa dei Mille, si era ritirato a Caprera con il suo mai sopito progetto di vedere Roma capitale d’Italia, qualcuno tramava ancora per eliminarlo.

20 giugno

Garibaldi assume il pieno controllo di Palermo e si trasferisce a Palazzo reale.

20 luglio

Battaglia di Milazzo. Viene ferito, appena sedicenne, Pompeo Susini, figlio di Pietro, forse il più caro degli amici maddalenini di Garibaldi.

22 luglio

Comincia a circolare un ‘‘trattato segreto’’ per la cessione della Sardegna alla Francia: il testo del documento, apocrifo, opera forse di agenti austriaci e napoletani, è inviato da Cavour a Costantino Nigra.

15 agosto

Il governo sardo inoltre doveva permettere che la spedizione si riunisse sulla costa settentrionale dell’ isola di Sardegna nel golfo degli Aranci, e nella baia di Terranova, dove altresì sarebbesi proceduto all’armamento; ed è di colà che la spedizione prese il nome, non senza un’allusione al luogo cui volgeva, che non era la Sicilia, ma una terra nuova. Il Bertani sapeva essere il Garibaldi pienamente d’accordo intorno al progetto di Spedizione nel territorio romano; e ch’ei perfino avvierebbe le operazioni affinché non cadesse dubbio del suo operare di concerto con lui. Laonde ei recavasi in Sicilia ai primi di agosto per meglio intendersi. Questa sua andata insieme alla risposta del Garibaldi alla lettera del re fece dubitare della sua parola. Laonde il governo piemontese mandò di stazione l’avviso Gulnara nel porto di Terranova, commettendo al capitano adoprasse minacce ordini lusinghe coi comandanti delle diverse frazioni della spedizione a mano mano giungessero nel golfo degli Aranci a continuare immediatamente per Palermo. Correva voce essersi il Bertani recato in Sicilia per ottenere un ordine del dittatore di sbarcare direttamente nello Stato romano il governo piemontese dichiarò riconoscere in quelle Sollecitudini la violazione della convenzione; e vi rispose violandola egli stesso col ricusare il conceduto luogo di convegno sulla costa della Sardegna. Ma volle il caso che invece di riuscire ostile, aiuto alle brame del Garibaldi; giacche questi essendo pienamente conscio della forza reale del proprio esercito, e trovatala scarsa al bisogno, aveva risoluto di avvantaggiarsi quest’uopo della spedizione che a Terranova si andava apparecchiando. Giova conoscere le cagioni che fecero differire la spedizione del principal corpo contro la Calabria. Il Garibaldi risolveva rendersi personalmente nel golfo degli Aranci per condurre seco la spedizione di Terranova. E ciò parevagli necessario, essendosi divulgato non voler quelle genti intendere di altra destinazione che non fosse la manifestata in principio, cioè per gli Stati del papa. Il 12 agosto ei rimetteva al generale Sirtori, suo capo di Stato Maggiore, il comando supremo al Faro, commettendogli d’affrettarsi a raccozzare tutte le barche in prossimità di Torre del Faro e far compiere la costruzione delle batterie. Egli s’imbarcava poscia sul Washington. Correva pel campo la voce, non però verosimile dopo la lettera del re Vittorio Emanuele e della risposta del Garibaldi, che egli fosse chiamato a Torino, per rendervi conto dell’opera sua, e che in quel momento aderiva al fattogli invito. Ma invece nella notte del 13 al 14 il Washington gittavasi nel porto di Castellamare, presso Napoli, dove il Garibaldi tentava un ardito colpo sul vascello di linea napoletano il Monarca. Non riuscì; ma il solo fatto dell’ apparizione del Garibaldi in quel porto, bastò a mettere i regi nella maggior incertezza riguardo a suoi progetti; e cominciarono a temere che ei tenterebbe uno sbarco nella stessa Napoli, o quivi intorno. Ma il Washington volse la prora al golfo degli Aranci, dove giungeva innanzi al mezzogiorno del di 14. Colà non rinvenne se non che la maggior parte della 3^ e 4^ brigata. Già la 1^ e la 2^ eran partite dal golfo alla volta di Palermo, non pur aspettando il rimanente della spedizione, come era loro commesso, a ciò raggirati e indotti dalla Gulnara. Il restante della 3^ e 4^ brigata, com’anche lo Stato maggiore generale, giunti non erano ancora. Arrivata la 1^ brigata Eberhard a Palermo, ebbe ordine di fare il giro dell’isola da ponente a mezzodì, e alcune centinaia d’uomini furono aggiunti ai suoi, condotti dal Franklin. Doveva cotesto corpo raggiungere il Bixio, pervenuto ormai sulla costa orientale, dove era ancora il di 13, intento a reprimere una sollevazione in Bronte nel distretto dell’Etna. Unitisi cotesti due corpi a Taormina, la Divisione del Bixio raggiunse il numero di 4500 uomini in circa. La brigata 2^ essendo trattenuta in Palermo, era in preda a qualche agitazione. Il Bizantino, in cui era imbarcata la rimanenza della 3^ e 4^ brigata insieme allo Stato maggiore, non poté partire da Genova innanzi al mezzogiorno del 13, avendo il governo piemontese con meschini pretesti fermato il danaro della spedizione o ritardatone il versamento. Perciò il Bizantino non giunse che dopo il mezzodì del 14 nella baia di Terranova. Il Garibaldi in quella stessa mattina non avendovi dunque trovato che il grosso delle brigate 3^ e 4^ le aveva condotte con se a Cagliari; dove le seguiva il Bizantino, non avendo il Pianciani potuto raccogliere indicazioni, sebbene confuse, sul vero stato delle cose. Il di 15 dopo il mezzogiorno il Bizantino entrava nella rada di Cagliari, e il Garibaldi ordinava al Pianciani si rendesse immediatamente a Palermo, dove il seguirebbero gli altri legni, non appena avessero provveduto carbone. La sera del 16 il Bizantino stava nel porto di Palermo.

19 agosto

Garibaldi sbarca in Calabria e muovendosi molto rapidamente, getta lo scompiglio nelle file borboniche, conquista Reggio Calabria, Cosenza e Salerno; il 7 settembre entra a Napoli, abbandonata dal re Francesco I ed infine sconfigge definitivamente i borbonici sul Volturno. Nel capoluogo campano, ordina che sia istituita una scuola per i poveri che erano fino ad allora esclusi dalla istruzione – E una scuola laica , non gestita dal clero e accogli tutti fino ai 18 anni. Con queste iniziative l’Eroe dei Due Mondi si guadagnò l’eterno rancore dei circoli clericali e borbonici che sulla ignoranza e sulla superstizione del popolo fondavano il loro potere

29 settembre

Durante l’assedio di Ancona, il maddalenino Lorenzo Zicavo, che già si era distinto nella guerra di Crimea a Balaklava, salva la nave Carlo Alberto, sulla quale è imbarcato, buttando coraggiosamente in mare una granata nemica che sta per esplodere sul ponte. Avrà un riconoscimento al valore e una piazzetta dietro la chiesa parrocchiale, intitolata al suo nome di guerra “Zebù”.

26 ottobre

Garibaldi si incontra a Vairano con Vittorio Emanuele e depone nelle sue mani i territori conquistati: si ritira quindi nuovamente a Caprera, sempre pronto per combattere per gli ideali nazionali.

9 novembre

Con la medesima modestia con cui era partito due anni prima dall’isola per la campagna iniziata a Quarto, l’uomo di Caprera si imbarcò a Napoli per ritornarvi, il 9 novembre 1860. Di tanta gloria, portava con se un pacco di merluzzo, un sacchetti di semi di fave e uno di fagioli, più tre cavalli: la sua valorosa Marsala, Borbone, che aveva tolto a un suo nemico a Reggio, Said, donatogli dal Pascià d’Egitto. In tasca aveva duemila lire. Garibaldi, sbarca a La Maddalena al ritorno, tra il tripudio degli isolani e della gente di Gallura venuta a salutarlo. Il giorno dopo era sui campi di Caprera a lavorare e riprendeva ad annotare i suoi Quaderni Agricoli. Intorno a lui pascolavano liberi, tre cavalli che d’ora in poi non avrebbero più conosciuto il morso e le redini né la stalla, tranne quando vi si rifugiavano spontaneamente. Ma a Caprera non conobbe mai più la quiete dei primi due anni: “la famiglia” crebbe di numero per la presenza di un gruppo sostenuto dei più vicini tra le “camicie rosse”, di cui parleremo in seguito. Inoltre ora ospitava il vate d’Italia. Non è affatto azzardato ne retorico affermare che l’isola rocciosa divenne il il centro morale d’Europa; fu meta di migliaia di persone di ogni ceto sociale e i più vi andavano per chiedere a Garibaldi un consiglio, un adesione, un patrocinio; oppure per sondarne le idee. Partigiani suoi oppure avversari o loro emissari, non intraprendevano alcunché, senza aver sentito prima lui, il suo orientamento, le sue possibili reazioni. Innanzitutto vi erano gli emissari del re, di Cavour, di Mazzini; il re gli era legato, oltre che dalla comprensibile riconoscenza, anche da una profonda simpatia ed amicizia. Cavour e Mazzini invece furono, per ragioni diverse, spesso ostili o perlomeno diffidenti nei suoi riguardi, ostilità e diffidenza ricambiate da Garibaldi, che non perdonò mai al primo la cessione della “sua” Nizza alla Francia, mentre del secondo lo innervosiva la sua continua insistenza per riportarlo all’idea e alla forma repubblicana che a Garibaldi continuava ad apparire irrealizzabile nel presente momento storico. Si recavano anche a trovarlo i rappresentanti di tutti i movimenti indipendentistici o rivoluzionari europei, dai polacchi agli ungheresi, ai russi, ai greci, agli spagnoli e per tutti egli aveva consigli e incoraggiamenti, Oltre che concreti interventi: non dimentichiamo che spedizioni di garibaldini andarono a combattere e a morire in Polonia, in Grecia, a Creta. torno alla figura del Vate di Caprera fiorino in Italia in quegli anni le associazioni operaie di mutuo soccorso di tutti i tipi e ne ricevette le delegazioni anche numerose. Poi vi era lo stuolo degli intellettuali, scrittori, giornalisti, pittori, poeti, che volevano vederlo per scriverne, per ritrarlo, per strappargli dichiarazioni esclusive: ed egli tutti riceveva con immutabile semplicità e cortesia. A tale enorme movimento, deve aggiungersi la mole davvero impressionante della corrispondenza. Lettere e plichi giungevano a migliaia da ogni parte del mondo; fu necessario dover potenziare l’Ufficio Postale di La Maddalena, mentre Garibaldi che a tutti voleva rispondere, fu costretto a farsi aiutare da Menotti, Basso ed altri, riservandosi però sempre la firma. Nella loro santa e sconsiderata ingenuità: “Giuseppe Garibaldi – Caprera -” senza neppure affrancare, ritenendo che quel destinatario dovesse essere al di sopra e al di fuori di ogni obbligo amministrativo e che, come i bimbi che scrivono a Babbo Natale, dovesse valere di un’ovvia franchigia postale. Ma le lettere giungevano regolarmente a Caprera gravate da multe che il Generale doveva pagare. Quindi dovette chiedere ai giornali di pubblicare un trafiletto in cui si diceva che, essendo egli povero, pregava chi gli scriveva di affrancare la corrispondenza, evitandogli le multe.

9 novembre

Troviamo le prime osservazioni sulla parlata isolana che abbiano un carattere sistematico, grazie a Luigi Luciano Bonaparte, il quale, in una lettera da Londra indirizzata al canonico Spano, insigne studioso sardo e suo referente per la lingua sarda, scriveva: “…Se non mi fosse nota tutta la premura che ella si è data per illustrare qualunque soggetto che abbia rapporto a cotesta interessantissima Isola esiterei a domandarle un favore, ma mi determino a ciò, pensando a tutto ciò che la filologia sarda le deve. Io gradirei dunque se fosse possibile, la Parabola del seminatore (Matteo, 13, 3-9. Luigi Bonaparte, infatti, raccolse un gran numero di traduzioni di questa parabola evangelica in varie lingue e dialetti) cosa ben breve, nella varietà catalana di Alghero, nella còrsa dell’isola della Maddalena e nella varietà genovese dell’isola di San Pietro, onde avere un saggio di questi idiomi” (purtroppo non conosciamo il nome del traduttore isolano). Infine con una lettera da Parigi datata 6 gennaio 1867 comunicava al canonico Spano le conclusioni di un approfondito studio comparativo sul dialetto maddalenino, sull’algherese e sul tabarchino, non solo sotto l’aspetto lessicale, ma nella molteplicità dei suoi elementi fonetici, morfologici e sintattici: “….ma debbo però farle sapere che il catalano di Alghero, il Còrso della Maddalena, e il Genovese di San Pietro non differiscono sufficientemente dal Còrso meridionale, dal Genovese continentale e dal Catalano di Catalogna per formare dialetti, né tampoco suddialetti distinti” riconoscendo pienamente al dialetto isulanu il carattere tipicamente còrso oltremontano.

17 novembre

Esattamente quattro mesi prima del Regio Decreto 17 marzo 1861 n. 4671 di assunzione del titolo di Re d’Italia da parte di Vittorio Emanuele II, con R. D. n. 4419, fu sancita la nascita della Marina Militare italiana. Per poter conseguire questo importante risultato, il 18 marzo 1860 (con R.D. n. 4671), Cavour aveva già distaccato il Ministero della Marina da quello della Guerra, unendolo alla sua Presidenza del Consiglio per seguirne personalmente gli affari e lo sviluppo. “Il sottoscritto preposto all’amministrazione delle cose di mare di uno Stato collocato in mezzo al Mediterraneo, ricco di invidiabile estensione di coste e di una numerosa popolazione marittima, sente il dovere di dare il più ampio sviluppo alle risorse navali del Paese valendosi degli elementi di forza che ha trovato nelle nuove province” Così scriveva lungimirante il Cavour nella nota preliminare al bilancio della Marina Militare del 1860. Precedentemente agli interventi di Cavour, la Marina non aveva mai goduto di primaria attenzione nel Regno di Sardegna, essendo lo Stato sabaudo all’epoca orientato politicamente e strategicamente verso il continente, e conseguentemente il suo Ministero fu in origine unito alla Segreteria della Guerra, il cui Ministro si chiamava “Primo Segretario di Guerra e Marina”. Nacque così, con largo anticipo sul Regno d’Italia, la Marina Militare italiana, dalla fusione della Marina Sardo/Piemontese e della Marina Borbonica, essendo il Cavour ben conscio dell’importanza politica e militare di una efficiente marineria per lo sviluppo dell’Italia, e dei tempi e delle difficoltà necessari per la sua piena realizzazione. Promosse, infatti, grandi cambiamenti, sia sotto il profilo tecnico, quale la trasformazione della flotta da navi a vela a navi a vapore incitando alla costruzione di navi di maggiori dimensioni, sia sotto quello umano e professionale, cambiando persino i programmi scolastici per favorire lo studio della matematica nelle scuole secondarie, fondamentale materia per la formazione dei nuovi ufficiali di Marina, sia sotto il profilo infrastrutturale, pianificando la realizzazione di un porto interamente dedicato alla Marina Militare, quale fu quello di La Spezia.

30 novembre

Giuseppina Raimondi, ancora moglie legittima di Garibaldi, si presenta a Caprera, ma lui si rifiuta di vederla.

30 dicembre

Un regio decreto cancella Cagliari dal novero delle piazze fortificate, aprendo la strada alla sua espansione urbanistica.