Correva l’anno 1868
Tomaso Volpe è sindaco di La Maddalena. Ricoprirà l’incarico fino al 1870.
Atto di acquisto, da parte del comune, del forte Sant’Andrea, destinato a divenire carcere mandamentale.
Giovanni Lamberti è nuovamente eletto sindaco di Santa Teresa.
Troviamo tra i Consiglieri Comunali di La Maddalena, Menotti Garibaldi che però risulterà sempre assente alle riunioni.
Francesco Aventi, un esperto di agricoltura che visitò Caprera nel 1868 (il Generale ci abitava soltanto da dodici anni) rimase colpito dalla quantità di lavoro che Garibaldi e la sua gente avevano riversato su quella terra. “Nelle altre isole dell’arcipelago, notava Aventi, ci sono poche piante, soltanto qualche sparuto olivastro piegato e attorcigliato dal vento. Qui invece ci sono i pini, i cipressi, gli olivi domestici e perfino i pioppi e i salici, “i maddalenesi – così li chiama Aventi – ritengono che gli alberi non allignino a causa dei forti venti di maestrale e di levante. E’ una scusa, che serve a giustificare la loro incapacità e indolenza, perché oltre l’esempio di Caprera Maddalena stessa ha il bellissimo e folto parco tutt’intorno alla villa del signor Webber, che pure è costruita in un punto fortemente battuto dai venti dominanti”. Ancora oggi villa Webber, divenuta quasi un monumento storico perché Mussolini vi fu prigioniero per una ventina di giorni nell’agosto del 1943, spicca da lontano per il verde cupo delle sue grandi piante sull’arida terra tutt’intorno. Ma non erano soltanto gli alberi che Garibaldi aveva piantato nell’isola. Tutta Caprera era stata assoggettata alla forza dominatrice del lavoro umano. Aventi restò colpito soprattutto dal vigneto, che aveva 14 mila ceppi e un vivaio con oltre 8 mila viti. Dava un vino così buono ma anche così forte che per berlo senza danni Aventi, invitato alla mensa del Generale, dovette annacquarlo abbondantemente: “Se il Generale – diceva – volesse decidersi a imbottigliarlo e a venderlo con la sua etichetta, potrebbe essere usato per brindare a lui come si fa in tante parti del mondo: e sarebbe difficile brindare con un vino migliore”. Accanto alla vigna, il frutteto: c’erano peschi, (che crescevano a fatica), ciliegi e castagni (che erano venuti male), melograni, peri e susini, tutti bellissimi. Bellissimo era soprattutto l’oliveto di cento piante che Garibaldi aveva piantato a “Funtanaccia”, e dal quale si faceva, con un frantoio piccolo ma razionale (secondo il gusto di Garibaldi, amante di quella vita da Cincinnato ma sempre attento ai progressi della tecnica, anche in agricoltura), l’olio d’oliva che veniva usato a tavola e in cucina. Nell’orto accanto Garibaldi coltivava carciofi, patate, pomodori. I carciofi erano moltissimi, tanto che costituivano uno dei piatti forti del menù di Caprera; le patate erano di varie specie; il raccolto di pomodori ogni tanto andava a male, soprattutto quando l’annata secca negava l’acqua alla terra. La terra piantata a grano ne dava 60 quintali all’anno. In uno spazio vicino c’erano l’erba medica e il granturco che servivano per gli animali di quella affollata “fazenda”. Nella fattoria (le cifre sono quelle che ci ha lasciato Achille Cagnoni, un giornalista-scrittore che ci fu nel 1866) c’erano 150 bovini, 214 capre, 25 capretti, 400 polli, 50 maiali, 60 asinelli. Niente pecore, all’uso dei pastori galluresi che ritengono la pecora tanto inadatta ai loro terreni rocciosi quanto vi è (vi era) di casa, invece, la capra. Si arrivava alla Casa Bianca, che Garibaldi e i suoi amici continuamente aggiustavano e ogni tanto anche ampliavano, attraverso sentieri bordeggianti di alberi e di fiori. Nel cortile c’era u bosco di mimose, un’enorme palma di dattero svettava sin oltre il tetto (il generale diceva che era nata da sola, da qualche nocciolo che aveva buttato dalla finestra dopo aver mangiato il frutto); intorno, ancora, un altro boschetto di acacie, molti carrubi e perfino 200 frassini, di quelli che in Sicilia danno la manna. Quando il 16 febbraio 1867 nacque l’ultima figlia, Clelia, (Garibaldi la chiamò così dal nome dell’eroina del romanzo che aveva cominciato a scrivere poco tempo prima della sua nascita), il generale piantò proprio al centro del cortile un pino che ancora oggi lo domina tutto. A Caprera Garibaldi non era mai solo. Aveva intorno a sé una piccola corte stabile, e in più circolavano sempre conoscenti ed ospiti, spesso anche inaspettati, che approdavano nell’isola da ogni parte del mondo. Nel 1866 Cagnoni vi trovò, insieme al padrone di casa, i figli Menotti e Ricciotti, la loro antica governante nizzarda signora Deideri (presso la quale Garibaldi aveva lasciato i suoi figlioletti perché venissero allevati mentre lui correva per il mondo per le sue straordinarie imprese), cinque ex garibaldini che svolgevano le diverse funzioni richieste dalla vita della casa: da Froscianti, un ex maggiore dei Mille che fungeva da maggiordomo a Giovanni Basso, che lo aveva seguito in capo al mondo (perfino a Canton) e che fungeva da primo segretario, a Lauro, Pastori, e Faseri che aiutavano Basso a rispondere alle centinaia di lettere che arrivavano ogni giorno. E ancora c’erano due camerieri, uno di Milano e uno di Varese, due domestiche e perfino un mezzadro, l’unico sardo, che viveva a Caprera con la moglie e sei figlie. A questi si aggiungevano, durante il periodo dei lavori della terra, alcuni contadini che venivano a lavorare a giornata. Della piccola corte di Caprera facevano parte anche due cavalle: Marsala, che lo aveva portato a Calatafimi, e che ora riposa in una tomba speciale nell’isola, e un’altra che si chiamava Caprera. C’erano poi quattro cani, quasi tutti da Caccia, che si Chiamavano Aspromonte, Bixio, Foin e Tho. Qualche altro biografo ci ha lasciato anche il nome di quattro asinelli che Garibaldi s’era preso il gusto (e anche se vogliamo il cattivo gusto) di chiamare Napoleone III, Pio IX, Oudinot, e Immacolata Concezione. La giornata di Garibaldi era molto ordinata e molto semplice. Si svegliava alle tre del mattino, dopo cinque ore di sonno, e per due ore leggeva la posta. Poi chiamava Basso e gli dettava le risposte. Quindi si alzava, faceva un lungo bagno di vapore con cui cercava di alleviare i dolori reumatici che lo tormentavano fin dall’America, poi usciva a lavorare, con la camicia rossa – ne aveva moltissime e le cambiava tre, quatto volte al giorno, un abitudine che aveva preso in America. A pranzo si mangiava tutti insieme, al grande tavolo comune, dove sedevano anche i domestici: il Generale si serviva per primo, serviva le signore che gli sedevano al fianco, poi faceva girare il piatto. Nel menù c’erano sempre pasta, carne, cacciagione (nell’isola c’erano quaglie, pernici, beccacce, capre selvatiche e Garibaldi vi aveva introdotto anche i fagiani e il cinghiale: il grande cacciatore di casa era il maggiore Basso) oppure pesce, molta insalata, la frutta di Caprera. Lui personalmente mangiava molto poco, beveva solo acqua fresca a pranzo e latte freddo a cena. Dopo cena si fumava, si beveva il the o il caffè, si suonava il piano, (lo stesso Garibaldi ne aveva uno anche nella sua stanza, si dilettava a suonarci), qualche volta si ballava. Una sera del gennaio 1861 Vecchi (che ci ha lasciato uno dei tanti “quadretti” della vita di Caprera) cantò accompagnato al piano da Teresita, la figlia di Garibaldi, che aveva allora sedici anni: lo stesso Generale intonò poi un’aria dei Puritani e dei vecchi inni patriottici, per finire, tutti in coro, con la marsigliese. Alle dieci in punto, con precisione cronometrica, Garibaldi augurava rapidamente la buonanotte a tutti e se ne andava a letto”.
9 maggio
Il comune di Santa Teresa rifiuta di aderire a un consorzio di comuni per la distruzione delle cavallette, asserendo che gli abitanti provvedono in modo efficace “col lenzuolo” che ne elimina gran parte. Anche a Bonifacio si combatte l’invasione con lo stesso sistema.
25 maggio
Il Consiglio comunale concede ai fratelli Orecchia un terreno per l’impianto di un mulino a vapore, malgrado la forte opposizione di alcuni consiglieri per la presenza nel sito prescelto di una fonte d’acqua che, con la concessione, viene sottratta all’uso pubblico.
20 giugno
La Camera elegge una Commissione parlamentare d’inchiesta sulle condizioni economiche della Sardegna, presieduta dall’on. Agostino Depretis.
9 agosto
Mentre Antonio Susini Millelire era in Argentina, lo raggiunsero anche alcuni cugini tra cui Antonio Susini Origoni, capitano di lungo corso, giunto nel Plata nel 1855, all’età di 27 anni. Nel 1858 entrò a far parte della squadra navale di Buenos Aires. È autore di un inedito diario, titolato Mi vida, Capitan A. Susini, Buenos Aires 1915, Documentos para el Dr. Dn Dardo Rocha, año 1858 á 186849. Rientrò a La Maddalena intorno al 1875 per poi trasferirsi definitivamente in Argentina. Anche altri parenti del Millelire, sono i fratelli Giovanni Susini Franchini, comandante del vapore argentino General Pinto; Antonio Susini Franchini, morto in un carcere del Paraguay, a causa di una malattia, il 28 luglio del 1868, dopo essere stato arrestato durante la dittatura di Francisco Solano Lopez, per aver partecipato a un moto rivoluzionario ad Asunción, capitale del Paraguay; Nicolò, fucilato il 9 agosto del 1868, per aver svolto, anche lui, attività rivoluzionaria contro il regime di Solano Lopez.
Una lettera, rivela la triste storia dei due fratelli maddalenini vittime in Paraguay nella sanguinosa repressione che fece seguito alle congiure contro Francisco Solano Lopez. La lettera proviene da uno dei più interessanti archivi privati maddalenini, quello di Pietro Susini, che comprendeva anche l’archivio e la biblioteca a lui lasciati in eredità da Daniel Roberts, il tutto purtroppo andato disperso. Apprendiamo da essa come due dei fratelli di Pietro, Antonio e Nicolò, rimasero vittime dell’ambizioso Lopez che, dal 1864 al 1870, coinvolse il proprio paese in una crudele guerra che si concluse con la completa disfatta del Paraguay. Il conflitto era scoppiato per due ordini di motivi: da un lato stavano le oscure manovre dei governi argentino e brasiliano di far cadere nella loro sfera di influenza il tormentato Paraguay; dall’altro si contrapponevano i propositi di Solano Lopez di dare al Paraguay uno sbocco sull’oceano atlantico. Questi aveva stretto alleanza con i gruppi conservatori dell’Uruguay e si era fatto chiamare per garantire la libertà e l’indipendenza alla repubblica di Montevideo. Ma i governanti argentini e brasiliani, in unione con i liberali e legittimi reggitori della repubblica uruguayana, compreso il pericolo che si nascondeva dietro il passo di Solano Lopez, strinsero tra loro una triplice alleanza e si opposero con la forza al loro ambizioso vicino. Numerose furono le congiure contro Lopez; quasi tutte però si conclusero con cruenti bagni di sangue per l’infida opera di delatori e traditori allettati dai lauti compensi che venivano offerti dal dittatore. Vittime di una di queste congiure furono appunto i due Susini. Ed ecco come Pietro annota la triste vicenda dei suoi due fratelli: “Morte delli miei due fratelli, Antonio è morto in carcere essendo ammalato morì il giorno 28 luglio 1868 che fu arrestato per ordine di Lopez per essere complice di una rivoluzione nel Asuncion del Paraguay, America del Sud. Nicolò ha avuto anch’esso la medesima sorte che fu fucilato il 9 di agosto 1868. Nella medesima condanna furono esecutati 588 fra uomini e donne. Tale notizia venne ricevuta dal cugino Antonio Susini che si dice che il sassino (sic) dei due fratelli sia egli stesso per impossessarsi dei loro rintuzzi”. Queste poche ma significative parole ci fanno rivivere in tutta la loro cruda drammaticità la sorte dei due fratelli traditi dal cugino resosi delatore per entrare in possesso degli averi delle vittime, cioè, in un maddalenino ormai scomparso, dei loro “rintuzzi”. Tragica fine doveva poi fare il dittatore Lopez: nel 1870, conclusasi la guerra con la completa disfatta del Paraguay, fuggi da Asuncion inseguito dagli eserciti vittoriosi e raggiunto nelle paludi a nord della capitale fu massacrato. E’ probabile che neppure il cugino traditore, che certamente non è quell’Antonio della Legione Italiana divenuto poi ammiraglio, si sia salvato. Alla fine della guerra, infatti, la popolazione del Paraguay, che nel 1865 contava 525.000 unità, si era ridotta nel 1871 a 221.000 abitanti di cui appena 28.000 uomini.
22 novembre
‘‘Paci’’ solenni ad Aggius fra due gruppi di famiglie dilaniate da decenni da una sanguinosa faida. Contristato il comune di Aggius dalle vendette di sangue per parte, specialmente, delle potenti famiglie dei Muzzeddu e dei Cossu da una parte; dei Chilgoni, dei Malu, dei Luzzu e dei Vasa dall’altra, mediante la potente voce delle autorità ecclesiastiche e civili si pone termine a tanta iattura, ed il 22 novembre 1868 presenti le stesse autorità quegli implacabili nemici, deposto ogni rancore, si stringono fraternamente la mano, si danno il bacio del perdono, e giurano solennemente di riamarsi vicendevolmente.
24 novembre
Ozieri offrì con entusiasmo la candidatura al Generale Garibaldi nel proprio collegio; egli vinse con schiacciante successo (636 voti su 971); amareggiato dall’inutilità del suo impegno parlamentare presentò l’anno successivo all’elezione le proprie dimissioni, che furono accettate dalla Camera il 24 novembre 1868. Il popolo gallurese ed ozierese, speranzoso nel carisma e nell’importanza di un tale rappresentante, ripropose a Garibaldi la candidatura nelle elezioni suppletive del 13 dicembre 1868 ridandogli fiducia; il seguente 24 dicembre, con una lettera, il Generale, pur esprimendo rammarico per la politica governativa, attestò commosso la simpatia e l’amore verso i galluresi che lo avevano indotto ad accettare il secondo mandato parlamentare. In particolare scrisse: “questo simpatico popolo, che vuol contentarsi della mia pochezza e che io servirò molto male, ma con tutta l’anima mia”. Cfr. P. Lisca, cit., p. 28.
27 dicembre
Muore a 41 anni alla Maddalena, Nicolò Susini Millelire; fratello di citato Pietro e di Antonio Susini Millelire al cui ultimo Garibaldi lasciò il comando della Legione Italiana in Montevideo. Volontario nelle campagne garibaldine del 1848/1849, inizialmente presente nel corpo della Cavalleria garibaldina, fu promosso Sottotenente per i fatti d’armi di Luino del 15 agosto 1848 contro l’esercito austriaco, al Comando della formazione degli studenti di Pavia (Luino fu la prima battaglia vinta da Garibaldi in Italia dopo il suo rientro dal sud America); conclusasi la prima Guerra d’indipendenza sceglie di continuare il suo impegno per la causa italiana accorrendo alla difesa della Repubblica Romana nel 1849, con il grado di Capitano, ammalandosi di febbri e venendo fatto prigioniero dalle truppe francesi occorse in aiuto dello Stato Pontificio; dopo un periodo passato in servizio presso le Strade Ferrate a Genova ove ottiene per il suo comportamento la promozione a Capostazione, dà le dimissioni dall’impiego stesso arruolandosi, conservando il grado di capitano, nel Corpo dei Cacciatori delle Alpi, per la Seconda Guerra d’Indipendenza nel 1859, distinguendosi e ricevendo la medaglia d’argento al valor militare per il valore dimostrato nel combattimento di Varese del 26 maggio 1859, nonché il giorno successivo, valoroso nel combattimento di San Fermo, nelle file del 2° Reggimento, guidando la 1a compagnia del 2° battaglione, sotto il comando del tenente colonnello Giacomo Medici (Il Corpo dei Cacciatori delle Alpi venne strutturato su tre reggimenti), sopraggiunto l’armistizio di Villafranca (8 luglio 1859) decide, sempre nel grado di Capitano, di rimanere nell’esercito regolare nelle file del 51° Reggimento fanteria – Brigata Alpi. Ritornato infine all’isola, essendo in aspettativa per “infermità temporanea non proveniente dal servizio”, vi muore alla giovane età di 41 anni.
28 dicembre
Rimostranze della giunta per l’abitudine dei cussorgiali di San Pasquale, Liscia, Pozzo, Curichena e Lettu di Ita di denunciare nascite e morti al parroco della chiesa di San Pasquale Baylon che li trascrive nei registri del comune di Tempio. Ciò comporta uno spostamento di fatto di popolazione dipendente da Santa Teresa verso Tempio.