Correva l’anno 1886
Nasce il piccolo centro costiero di Palau e alla Maddalena infieriva un’epidemia di colera; Dal momento della sua prima comparsa in Europa, nel 1830, la Sardegna ha conosciuto sette ondate epidemiche di colera di diversa gravità` e diffusione: 1854-55; 1866-67; 1884-87; 1893; 1911-12; 1973; 1979. A parte va invece considerata l’epidemia che provocò, nel 1915, 4.574 morti tra i prigionieri austro-ungarici in quarantena nell’isola dell’Asinara. La più distruttiva, per numero di colpiti e di vittime, fu quella del 1855, che fece registrare circa 6.000 morti in tutta l’isola. Particolarmente colpite furono Sassari (4.784) e Ozieri (653), dove i veicoli della malattia furono cittadini sassaresi in fuga. Per la capitale del Capo di sopra la terrificante vampata epidemica fu una vera e propria catastrofe demografica: in poche settimane, da fine luglio a fine agosto, perse circa un quinto della sua popolazione. A poco più di dieci anni di distanza – 1867 – una nuova ondata epidemica lambì l’isola. La prima città colpita, a partire dal quartiere di Stampace, fu Cagliari. Le rigorose e tempestive misure igienico sanitarie riuscirono a limitare i danni (176 colpiti e 160 morti). Nell’ottobre il colera arrivò nel distretto minerario dell’Iglesiente, portatovi, pare, da un minatore proveniente dal Piemonte. Anche qui l’isolamento dei colpiti e le misure di prevenzione subito adottate dalle autorità locali e dai direttori delle miniere valsero a circoscrivere l’epidemia, che a Iglesias (8.000 ab. ca.) provocò 133 decessi. La successiva ondata epidemica – quella del 1884-87 – sfiorò soltanto la Sardegna (65 morti), mentre nel continente italiano, e in particolare a Napoli, faceva strage: a salvare l’isola fu anche la decisa presa di posizione delle rappresentanze politiche sulle misure di difesa sanitaria da adottare. Furono assoggettate a una contumacia d’osservazione tutte le provenienze del litorale francese mediterraneo e del continente italiano. Anche se riluttante, il Ministero dell’Interno emanò due ordinanze di sanità marittima che stabilivano norme rigidissime: prima di essere ammesse a libera pratica le provenienze dalla Francia, dall’Algeria e dalla Tunisia dovevano scontare la quarantena. Inoltre, i piroscafi che trasportavano passeggeri dal continente non potevano esservi ammessi se non dopo una regolare contumacia d’osservazione nel porto di Santo Stefano. L’anno successivo un nuovo allarme e il diffondersi dell’epidemia in Spagna e, quindi, a Marsiglia, fecero di nuovo scattare l’apparato di difesa, rinforzato dal fatto che, intanto, l’isola dell’Asinara, nel golfo omonimo, era diventata Stazione quarantenaria, cosa che suscitava grande preoccupazione della vicina città di Sassari. Un’ordinanza di sanità marittima del 5 agosto stabilì che le provenienze spagnole, algerine e corse (e successivamente tunisine) scontassero in quell’isoletta, vicinissima alla costa nord-occidentale, le contumacie d’osservazione (i piroscafi) e di rigore (gli altri tipi d’imbarcazione). Essendo però ancora in corso i lavori di costruzione del lazzaretto e dei locali di segregazione, i quarantenati dovevano restare a bordo, mentre una nave da guerra fu adibita a ospedale galleggiante. Un’altra nave impediva ogni contatto tra la stazione sanitaria e la Sardegna, mentre Carabinieri e guardie di finanza a bordo di 13 barche vigilavano sulle coste. Nel nuovo secolo – quando ormai è ben noto l’agente patogeno, il vibrione – il colera. avrebbe visitato esclusivamente Cagliari. Importante scalo commerciale, frequentato da mercantili provenienti dai pericolosi paesi africani e mediorientali, la città ha conosciuto incursioni del colera nel 1911 (37 morti), nel 1912 (36), nel 1973. Durante quest’ultima ondata epidemica si escluse l’origine idrica della malattia e si appurò che il veicolo dei vibrioni era costituito da cozze e molluschi. Un’indagine epidemiologica sistematica rivelò, infatti, che i 14 casi di colera accertati erano collegabili al consumo di arselle pescate nello stagno di Santa Gilla, alle porte di Cagliari. La Sardegna, una delle regioni italiane meno colpite dal colera nel corso dell’Ottocento, è stata quella in cui si è verificato l’ultimo caso di colera (1979). Ne parlò la grande stampa internazionale, anche per l’importante acquisizione scientifica che ne derivo`: il vibrione poteva adattarsi a una lunga sopravvivenza nell’ambiente, conservando il suo potere patogeno, anche indipendentemente dal serbatoio umano.
Ormai il nostro granito si era affermato: al sindaco arrivavano continua mente richieste di informazioni di imprenditori esterni che si sarebbero volentieri accordati con i locali, se questi avessero garantito una base operativa, un minimo di strutture e di lavoratori in loco: una rete completamente assente che, di volta in volta, bisognava creare daccapo con comprensibili aggravi. Nel 1886 fu la volta della società Bonafè & C di Roma che si sottopose alle spese di impianto per poi fornire colonne, pile di ponti, blocchi lavorati per la sistemazione delle rive del Tevere e di lastre per molte strade della capitale. Nei primi mesi di attività della ditta Bonafè arrivarono 19 operai continentali (dei quali 12 scalpellini, 4 minatori, 3 manovali) il cui nome veniva debita mente comunicato dal responsabile amministrativo al sindaco nell’ambito degli abituali controlli per l’ordine pubblico richiesti dal prefetto.8 Nei momenti di più intenso lavoro si arrivò ad occuparne cento. In questo periodo emersero le ostilità fra Bargone e Susini sui confini delle due proprietà che correvano lungo la collina granitica in direzione nord-sud, sulle quali non erano mai stati apposti segnali di delimitazione: fino a qualche anno prima divergenze di questo tipo si potevano verificare per i pochi terreni agricoli o per quelli adatti o adattabili al bestiame, mai per terreni di nuda e inospitale roccia, che invece, in quel momento, rappresentava prospettive di arricchimento. La commissione censuaria notava che “le altissime rocce che dividono la proprietà sono in contestazione”, certificando anche la consistenza dei beni immobili presenti: “un fabbricato civile ad un piano e due fabbricati rustici ad un piano”, due piccoli pozzi nella parte bassa (proprietà Bargone) e un pozzo (“una fontana d’acqua potabile perenne” ) nella parte più lontana dal mare (di proprietà Susini). Fu solo molto più tardi, nel 1897, che gli eredi sistemarono la questione con una transazione. Non si trattava solo di definire chiaramente l’entità della proprietà, ma anche di regolare le servitù da parte di entrambi: da un lato il diritto di passaggio, di trasporto dei materiali e di uso dell’approdo da parte dei Susini, che costituiva una servitù per i Bargone, e dall’altra l’utilizzo del pozzo appartenente ai Susini, che garantiva la provvista d’acqua per tutta la cava.
La ricomparsa del colera provoca tre decessi a La Maddalena.
A Santa Teresa il parroco è Alessandro Lucchini. Ricoprirà l’ufficio fino al 1898. Suoi vice sono Angelo Cinti e Giovanni Battista Mura.
Bonifacio conta 3357 abitanti.
Prendono avvio i lavori per la realizzazione della fortificazione di Punta Tegge. Il forte era costituito da quattro edifici principali adibiti a magazzini, cucine e lavatoi e latrine, le cui fondazioni poggiavano sulla nuda roccia di granito. inoltre erano presenti due batterie per cannoni e due pozzi a scomparsa per cannoni. attigue alle batterie vi erano delle riservette. Era costruita al riparo da uno scoglio, in posizione nascosta dal lato verso il mare. Le murature sono in blocchi non squadrati di granito, mentre il loro coronamento è composto di lastre, sempre di granito, ma perfettamente squadrate, così come i cantoni. Le aperture, sono anch’esse in granito, con cornici squadrate. Le piazzole sono in cemento armato e collegate al terreno con delle scale in granito. La copertura degli edifici principali è a due falde, presumibilmente con struttura in legno e manto di copertura in coppi. Presentemente questa consta di una batteria costruita dietro uno scoglio che la copre dal largo, di quota 4,41 capace di 6 cannoni da 57 mm. a tiro rapido, che si trovano nei magazzini della batteria stessa. Attigua alla batteria vi é una riservetta in muratura alla prova capace di 924 colpi per pezzo; e verso la gola dell’opera e precisamente fra due scogli si é costruita una casermetta ad un solo piano, con locali per 26 uomini oltre i sottufficiali, con un magazzino ed una cisterna. L’opera é chiusa alla gola con un muro a feritoie ed ha uno sbarcatoio al quale manca soltanto la testata in muratura. Presentemente in detta opera sono in costruzione due pozzi per cannoni da 149 mm. a scomparsa e per questo aumento di bocche da fuoco occorre aggiungere una la casermetta e due riservette. In 18 mesi per la batteria, riservette, caserma, muro di cinta, cisterne, e sbarcatoio, si sono spese Lit. 41.250
10 febbraio
Relazione della Commissione per la difesa di La Maddalena e Taranto; Sbarramenti subacquei. Ammessa la necessita di impedire alla flotta nemica l’ingresso all’ancoraggio le più solide costruzioni sono certamente le dighe, ma le condizioni locali non permettono assolutamente di adattare un tale mezzo atteso che nei due passi navigabili che converrebbe ostruire, la profondità dell’acqua raggiunge dai 40 ai 50 metri. E’ necessario quindi ricorrere agli sbarramenti di mine subacquee. L’ubicazione degli sbarramenti subacquei, già studiata dalla commissione per la difesa ravvicinata delle coste istituita presso il Ministero della Marina, ed a cui si associa la commissione, e la seguente:
1. sbarramento esterno di levante in triplo ordine di mine, da Punta Rossa a punta Tre Monti; appoggiandosi alla secca Tre Monti;
2. sbarramento esterno di ponente in triplo ordine di mine fra Punta Sardegna, la secca di Mezzo Passo e lo Scoglio Bianco;
3. sbarramento interno di levante in quadruplo ordine di mine, fra Capo d’Orso e Punta Fico;
4. sbarramento interno di ponente, in quadruplo ordine di mine fra Punta Villamarina e la costa di Sardegna.
Inoltre la Commissione propone che gli sbarramenti dei passi minori, cioè S. Stefano e Moneta che, secondo gli studi fatti dalla Regia Marina dovevano consistere in sbarramenti galleggianti di zattere, siano invece sostituiti con dighe fisse visto che il fondo massimo supera di poco i tre metri e che il materiale si trova sopra luogo. E bene inteso che queste dighe dovranno avere aperture per le sortite offensive delle nostre squadriglie torpediniere. Inoltre tali dighe, e principalmente quella che verrebbe a congiungere le isole Maddalena e Caprera, dovrebbero essere fatte in modo da permettere il passaggio da un’isola all’altra. Con ciò si raggiunge il vantaggio di facilitarne la difesa mobile. Sara poi mestieri che la diga del passo della Moneta, dal lato settentrionale, venga munita di conveniente parapetto per defilare le truppe che dovrebbero transitarla, dai tiri che da tal parte potrebbero arrivare. Per la difesa immediata degli sbarramenti, la Commissione propone la costruzione di batterie basse, tipo A, opportunamente situate alla testata degli sbarramenti all’atto che questi saranno attaccati da imbarcazioni nemiche. Stazioni lanciasiluri.
Allo scopo di contribuire alla difesa dei passi che conducono all’ancoraggio, soprattutto dove gli sbarramenti subacquei saranno costruiti di mine profonde per lasciar libero il transito alle nostre navi, nel progetto della Regia Marina sono contemplate 5 stazioni lanciasiluri fisse o galleggianti. La Commissione ritiene pero che non si possa precisare nulla senza prima eseguire concretamente i progetti di costruzione; e ciò per la mancanza di dati sufficienti sull’entità del lavoro richiesto e per la novità di tal genere di opere. Punti prescelti dalla Regia Marina ai quali la Commissione si associa sono: Punta Rossa – Caprera; Capo d’Orso – Sardegna; Punta Fico – Caprera; Punta Sudovest – Santo Stefano; Punta Tegge – Maddalena.
A questa potrebbe molto utilmente aggiungersi una stazione lanciasiluri a Punta Sardegna tralasciata dalla Regia Marina, soltanto perché i suoi studi partivano dall’ipotesi che la costa sarda fosse lasciata indifesa e completamente in balia del nemico.
6 marzo
Troviamo il primo atto legislativo relativo alla costruzione dei lavori per il forte di Arbuticci, è il decreto reale del 3 novembre 1886 a seguito del decreto reale del 6 marzo 1887 che crea il comando della difesa marittima dell’estuario della Maddalena.
In questi anni, circa quindici batterie fortificate sono state costruite sulle due isole principali dell’arcipelago e sulla costa sarda che, secondo la tipologia, si distinguevano per lavori bassi e alti.
I lavori inferiori sono stati posizionati per mantenere i punti di accesso delle zone umide, mentre i lavori superiori erano destinati a divieti a distanza e tentativi di atterraggio contrastanti.
L’elemento caratteristico delle opere inferiori doveva essere ben nascosto nel terreno per evitare di essere localizzato dal mare; l’armamento costituito da cannoni retrattili seguiva la stessa logica.
La fortezza di Arbuticci fa parte delle grandi opere; erano configurate come edifici fuori terra di notevoli dimensioni, su piano poligonale, chiusi alla gola da un muro a fessura. Il corpo della batteria caratterizzava la facciata principale, realizzata in cemento e muratura e sviluppata su due livelli: Il tetto ospitava l’artiglieria e la parte inferiore i serbatoi di munizioni.
29 aprile
Traslate a Cagliari da Pisa le ossa di Sant’Efisio: il quindicesimo centenario del suo martirio è celebrato solennemente nella prima settimana di maggio.
30 maggio
Muore il maddalenino Paolo Bertoleoni, passato alla storia come “il Re di Tavolara”, il “sovrano del regno più piccolo del mondo”. “E’ morto il Re! Questa la nota dolorosa che corre oggi in Terranova sulle labbra di tutti. E’ morto il Re! La campana annuncia la sciagura coi suoi funebri rintocchi, e vecchi e giovani versano una lacrima in memoria del defunto monarca. Egli morì in piedi come un antico imperatore romano.” Comincia con queste accorate parole, un articolo apparso l’8 giugno 1886, nella prima pagina del quotidiano di Sassari “La Sardegna ” e che occupa, quasi per intero tre delle sue quattro colonne. Non era morto il re d’Italia, non era morto il re di Inghilterra e neppure quello del Portogallo. Il sovrano deceduto era più semplicemente il re di Tavolara. Paolo, noto come Paolo I monarca, più discusso che indiscusso, di quell’isola stupenda, e per molti versi misteriosa, che è per l’appunto Tavolara. Ma chi era Paolo? E perché re di un’isola che, sebbene separata da 4 miglia di mare, faceva pur sempre parte del Regno di Sardegna? Com’era possibile? Su questa possibilità o impossibilità si discusso a lungo; giornali di tutto il mondo ne hanno scritto in passato e continuano a scriverne in bene e in male. Di Paolo I e del suo regno di Tavolara si sono interessati, a vario titolo, La Marmora, Valery, Bellieni, De Felice, Furreddu, Maxia, Lilliu, Pintor, Segre, Spano, Tola, ecc.. Paolo Bertoleoni, dunque. Se non ci fossero articoli e testimonianze di figli e nipoti, e se nel cimitero di Tavolara non ci fosse quella tomba sovrastata da una rudimentale corona a cinque punte simile ad un comignolo, si potrebbe supporre che Paolo non sia mai esistito ed il suo sia soltanto un personaggio da favola. Ma la tomba è là, nel piccolo cimitero all’estremo sud dell’isola, battuto dal vento che impedisce la crescita di piante non spontanee. Il sepolcro di Paolo I è al centro e intorno, col passare del tempo, son cresciute le tombe dei discendenti, compresa quella del nipote Paolo II morto nel 1962 e… ultimo re dell’isola. Si è, invece, perduta traccia della tomba di Giuseppe, padre di Paolo, che fu il primo abitante di Tavolara dove si stabilì nel 1807. Giuseppe è il personaggio chiave di questa vicenda e fu lui e non Paolo, come molti hanno scritto, il primo re. Alberto La Marmora nel suo “Itinerario dell’isola di Sardegna” edito a Torino nel 1860, non ha dubbi: parla del ‘famoso Giuseppino, della Maddalena”. «Quest’uomo – scrive La Marmora – morto era son pochi anni, avendo avuto dei contrasti colla giustizia per motivi di bigamia, prese il partito di lasciare una delle sue mogli (ch’erano sorelle) nell’isolotto di S. Maria di cui egli s’impossessò, e l’altra nell’isola di Tavolara che riguardava parimente come sua proprietà, e così le visitava a turno; e per ciò fu chiamato il re di Tavolara: così pure lo chiamava compiacendosene, il fu re Carlo Alberto, quando fece l’ultima corsa in Sardegna. Giuseppino allora gli fu molto utile, specialmente per la caccia alle capre che vi fece il figlio del re, il fu duca di Genova.» Questo scrive La Marmora nel 1860 e nel 1868, quando il libro viene tradotto in italiano, lo Spano annota a piè pagina: «Ora vi stanno i figli e i nipoti, ed il Bertoleoni conserva sempre il titolo di Re di Tavolara. Sebbene la roccia sia nuda, pure ai piedi è coltivata dal proprietario, e vi ha una bella tenuta con casa e tanca, ne vi manca l’acqua potabile in due fontane». Il Valery, che pubblicò il suo “Viaggio regna e Corsica ” nel 1837, parlando di Tavolara dice: «essa fu in un certo modo offerta dal re di Sardegna ad un pastore corso sovrano generato da quest’isola, il solo essere umano che, con la sua famiglia, abita questo deserto. Questo pastore re, che ha per sudditi le sue pecore e le capre della montagna, porta il titolo onorifico di intendente di Sanità dell’arcipelago vicino. Coltiva il grano sulle coste della sua isola, e gode certa agiatezza». Il Valery non fa nomi ma la data in cui il libro fu stampato indica chiaramente che lo scrittore francese si riferisce a Giuseppe o meglio Giuseppino come lo chiama La Marmora. I due autori fanno, dunque, intendere che il primo re fu Giuseppino. Ma in che modo lo divenne? Stando alle parole del La Marmora sarebbe stato l’indubbio fascino del personaggio, con quel suo viaggiare da un’isola all’altra e da una moglie all’altra, a farne un mito per la gente che, ad un certo punto, comincio’ a chiamarlo re di Tavolara. Successivamente Carlo Alberto, conosciutolo, avrebbe approvato l’attribuzione del titolo “compiacendosene”. La leggenda tramandata dai racconti dei discendenti dà una versione simile e forse affascinante ma che, comunque, non cambia la sostanza. Giuseppe Bertoleoni, di origine corsa, viveva a La Maddalena. E’ un bell’uomo, alto quasi due metri, magro, robusto e forte. Possiede greggi e si sposta in continuazione nell’arcipelago maddalenino. Prende possesso di alcune isole: S. Maria, Sconfitti e, poi, spingendosi più lontano, Tavolara. Pastore, ma anche marinaio. Piace alle donne e si procura le prime inimicizie proprio per questo. Gli dicono di mettere la testa a posto, di sposarsi. E lui capitola e si sposa. Ma quasi subito, in qualche modo, sposa anche la sorella della moglie. E’ scandalo e lo sarebbe anche oggi, la giustizia lo cerca. Giuseppino non si spaventa. Ha le sue isole e pone rimedio alla giustizia e al cuore. Una moglie a Tavolara, l’altra a S. Maria. Precedentemente aveva portato sementi e armenti nelle due isole; il pane era assicurato ed anche il companatico. Siamo nel 1807. Per un certo periodo fa la spola, ma cinquanta miglia in barca a vela, specie quando il mare è brutto, non sono uno scherzo anche per un uomo forte come lui. Intanto a Tavolara la famiglia cresce; Giuseppino rallenta il ritmo, si ferma sempre di più. L’isola è ricca di selvaggina, le greggi rendono bene con buoni pascoli, ci sono cave di calce, il pesce è abbondante, la casetta viene ingrandita. Anche la sua fama cresce a tal punto da giungere alle orecchie di Carlo Alberto che un giorno del 1836 si reca a Tavolara accompagnato dal figlio, il duca di Genova, e da numerosi ufficiali. Vuol conoscere Giuseppino, vuol vedere le capre dai denti d’oro che, secondo il Valery, avevano «i mustacchi dorati». Molto più semplicemente, la doratura trova origine dalle piante dell’isola di cui quegli animali si cibavano. Carlo Alberto e Giuseppino simpatizzano, il duca di Genova è affascinato da questo gigante forte come un toro che ha la battuta pronta e tratta il re con deferenza, ma senza i salamelecchi dei cortigiani. Paolo, figlio di Giuseppino, ha 24 anni. E’ l’immagine del padre, forte come lui, bello altrettanto e altrettanto intelligente. Re e principe fanno buona caccia, sono entusiasti; Carlo Alberto si diverte. Quando parte vuole dimostrare la sua riconoscenza; regala a Giuseppe il suo orologio d’oro e più o meno gli dice cosi’: “Tu qui sei il re di quest’isola; d’ora in poi lo sarai a tutti gli effetti !” Uno scherzo? Certamente. Anche un sovrano schivo come Carlo Alberto talvolta si abbandona alla celia! Qualche giorno dopo, così si apprende dalla tradizione orale, nell’isola arriverà una pergamena in cui si attesta che Giuseppino Bertoleoni viene nominato… re di Tavolara. Purtroppo la preziosa carta non è stata mai trovata. L’attestato di Carlo Alberto è solo qualcosa di più. Chi, invece, alla cosa diede peso fu Paolo. Quando il padre morì si preoccupo’ di scrivere a Carlo Alberto per farsi mandare un altro attestato e, ottenutolo (Giuseppino, pare avesse perso la prima pergamena), fece le cose in grande. Disegnò una corona sulla facciata della casa e si procuro’ una bandiera con tanto di corona. Nonostante il passare del tempo, le intemperie, le “esercitazioni” dei tantissimi cacciatori che vi hanno scaricato centinaia di pallini, la corona è ancora ben visibile sulla facciata di casa Bertoleoni. I giornali divulgarono la storia e la notizia della fondazione del regno di Tavolara fece il giro del mondo. Paolo I stava al gioco, anzi lo conduceva allacciando rapporti con le più alte personalità dell’epoca e facendosi stimare. Tavolara divenne mèta di visite importanti.
24 giugno
Nasce a Nuoro da una famiglia originaria di La Maddalena, Giovanni Antonio Pirari Varriani aveva studiato a Sassari, diplomandosi all’Istituto Tecnico, negli anni in cui il padre lavorava in città in qualità di giudice ispettore presso il Tribunale. Nel capoluogo turritano si era legato in amicizia con lo scrittore Enrico Costa e, particolarmente, con il pittore Giovanni Marghinotti, al quale si rivolgeva, avido di consigli, nel dare vita ai primi bozzetti. La sua passione per l’arte, che cominciò a coltivare come ogni vero autodidatta – e dunque con un sincero accanimento circa la lettura di riviste e la frequentazione di Musei, Gallerie e Pinacoteche – era destinata a proseguire per tutta la vita, favorita anche da uno status sociale ed economico slegato da contingenze materiali. Tornato a Nuoro, era entrato a far parte, per così dire di diritto, di quel circolo di intellettuali e artisti che cominciava ad animare la città e che le sarebbe valso presto l’appellativo di “Atene della Sardegna”: figure come quelle di Sebastiano Satta, Francesco Ciusa, Antonio Ballero e Giacinto Satta erano delle habitué della sua casa, dove, da bravo amante della musica, si dilettava a suonare (pare anche molto bene) il pianoforte; un clima sereno e vivace, ricco di stimoli, che avrebbe influenzato in questa direzione anche le scelte dei figli Piero e Antonio. Pirari Varriani ricercava, soprattutto, la compagnia degli amici pittori, interessato a tutte le novità tecniche e stilistiche che il contatto diretto con il loro esercizio poteva fargli conoscere. Con Ballero, che nella prima metà degli anni Dieci produceva i suoi capolavori divisionisti, trascorreva lunghe giornate nell’oliveto-frutteto nelle campagne di Badde Manna, poco fuori Nuoro; da Giacinto Satta, giramondo che aveva conosciuto e frequentato gli Impressionisti e le altre avanguardie parigine, carpiva le intuizioni più moderne della pittura europea. Restava, però, fedele a se stesso e alla sua idea di un’estetica tradizionale dal punto di vista dello stile e, da autentico amatore (esterno dunque al sistema dell’arte) la intendeva assolutamente libera da commissioni e indifferente ai riconoscimenti. La Sardegna di Pirari Varriani, certamente trasfigurata in senso sentimentale come nei quadri di Ballero, avrebbe sempre mantenuto, così come accade nella produzione a tematica regionale di Satta, un piglio ottocentesco, più meramente descrittivo, quasi etnografico: quel mondo agro pastorale, conosciuto anche nei suoi aspetti più tragici e neri, meritava di essere fermato per darne una testimonianza che non fosse fuorviata da un eccessivo (e pur presente) lirismo. A dispetto di questo suo “aristocratico” distacco, Pirari Varriani non mancò di farsi coinvolgere nella vita pubblica nuorese, culturale e finanche politica (per un periodo fu Assessore Comunale alla Pubblica Istruzione). Quanto alla sua partecipazione agli eventi artistici, se si eccettua la mostra allestita a Sassari nel 1892 (che gli valse l’acquisto del suo quaderno di disegni sardi da parte del Ministero della Pubblica Istruzione), sono note le sue decorazioni per due manifestazioni particolari svoltesi a Nuoro presso il salone del vecchio Convento: nel 1901 lo decorò con dei pannelli a tempera in vista del congresso degli studenti universitari di Cagliari e Sassari (per il quale Sebastiano Satta scrisse l’ode Saluto ai goliardi di Sardegna), mentre nel 1908 lo abbellì per l’importante convegno dell’ordine dei medici sul tema della zanzara e della malaria. Tuttavia, l’occasione più nota della sua partecipazione pubblica in quanto artista resta forse la candidatura (peraltro fallimentare) al concorso bandito dal Comune di Nuoro a metà degli anni Venti per la realizzazione di un quadro storico e la decorazione della Sala Consiliare (che sarebbe poi stato vinto dall’oranese Mario Delitala). Ai suoi bozzetti il pittore aveva allegato una sorta di testamento poetico, nel quale dichiarava quelli che sarebbero sempre stati i capisaldi della sua produzione: libertà d’espressione e assenza di vincoli politici e ideologici. In una parola: un inno all’indipendenza. Di Pirari Varriani restano oggi due immagini parimenti significative, che lo mostrano nella sua accezione mondana e di artista-pater familias: nella prima, una caricatura fattagli dall’amico Ballero nel 1890, appare con gli occhiali, il cappello a tesa larga calato sulla testa, il cappotto mantellato sulle spalle, una mano in tasca e un’altra a reggere un bicchiere di vino, magari in un contesto come quello del Caffè Tettamanzi; nella seconda, la tempera Mio padre nello studio a firma del figlio Antonio, è mostrato in una dimensione più intima, evidentemente anziano e canuto ma ancora impegnato a disegnare, solo apparentemente ignaro di essere osservato dall’erede, intento a carpirne il “mestiere”.
26 giugno
Problema alaggio e varo, infatti erano ormai scomparsi quasi tutti i piccoli scali naturali esistenti, sia quelli di Cala Gavetta, lungo le banchine di ponente, adatti per canotti e battelli, sia quelli occupati oggi dalla banchina commerciale, dei quali il più importante nonché il più contestato per essere troppo vicino alle case era lo Scalo degli Olmi (attuale palazzo comunale e in parte hotel Excelsior); il proprietario di una di esse, Sebastiano Alibertini, lamentava il 26 giugno 1886, “il gettito fra le barche tirate a terra di ogni immondezza, che si tolga da le casa e dalle persone ….. e il rischio di incendio quando per la riparazione si dà fuoco alle barche“.
1 novembre
Viene istituito a Maddalena un Ufficio del Genio Militare dipendente dalla direzione dei lavori della regia Marina in La Spezia, con l’incarico di procedere all’esegui mento di opere di difesa e di fabbricati per l’impianto di una stazione navale. Le opere di difesa da eseguirsi consistevano in; batterie basse per fiancheggiamento degli sbarramenti di levante e di ponente, ed in batterie alte con lo scopo di battere la bocca del canale Moneta, di concorrere specialmente alla difesa degli sbarramenti e di mantenere il possesso degli ancoraggi interni. I fabbricati per la stazione navale dovevano consistere oltre il cantiere del Genio ed il baraccamento per 500 condannati in magazzini ed officine, per impianto di stazione torpediniere, in magazzini di rifornimento ed inoltre nell’impianto di due distillatori con attiguo rifornitore, in una caserma per 200 uomini, in un’infermeria, ed un gran piazzale per deposito di oltre 15.000 tonnellate di carbone. L’ufficio del Genio soltanto sulla fine del Novembre 1886 poté venire regolarmente impiantato: ed i lavori, avendo dovuto attendere dal continente gli attrezzi ed i materiali, si poterono iniziare sul principio del Dicembre e soltanto nel Gennaio 1887 poterono prendere un discreto sviluppo contandosi una forza giornaliera di 300 borghesi e circa 60 condannati”.
3 novembre
Viene emanato il Regio Decreto (primo atto legislativo in ordine alla costruzione delle nuove opere di fortificazione dell’arcipelago); Il R. Decreto dichiarava di pubblica utilità le opere da eseguirsi per la difesa e la sistemazione dei servizi militari marittimi nell’arcipelago di La Maddalena. Con successivo Regio Decreto del 6.3.1887 si istituiva il Comando di Difesa Marittima dell’estuario della Maddalena e finalmente, con la legge del 10.7.1887, furono autorizzate nuove spese militari per la parte straordinaria del bilancio del Ministero della Marina per le fortificazioni dell’arcipelago di La Maddalena e per il loro armamento.
9 novembre
Gli abitanti di La Maddalena sono 1895, di cui 132 iscritti come elettori.
4 dicembre
L’isola di Caprera venne espropriata (G.U.R. n°283) per cause di pubblica utilità. Nel 1890, la tomba di Garibaldi venne dichiarata Monumento Nazionale. Più tardi, con la legge n° 503 del 14 luglio 1907, anche la casa, i terreni e gli altri fabbricati furono dichiarati Monumento Nazionale. Nel 1892, l’isola di Caprera passò al Demanio Militare perché giudicata indispensabile per la difesa dell’arcipelago. Nel 1916 la famiglia Garibaldi cedette all’amministrazione della Marina tutti i propri beni, sia mobili che immobili, siti a Caprera, riservandosi, vita natural durante, l’uso dei locali per l’abitazione, il giardino ed il forno.