Cosa fare delle isole adiacenti
La pressione sui pastori isolani, avviata col pasticcio della contemporaneità degli atti di polizia sanitaria sardi e genovesi per la peste di Zante, si esaurì nel giugno 1730, con l’ultimo tentativo del luogotenente tempiese di impegnarli a prendere la licenza e l’ennesimo rinvio furbesco da parte loro. Le famiglie isolane rientrarono per i mesi estivi nei loro alberghi del distretto di Bonifacio o ai margini di quella cittadella, portando con sé la piccola eccedenza delle loro povere produzioni. Portarono anche a battezzare i loro nati: Maria Angela, nata a metà novembre del 1729 da genitori di Quenza, e Maria Caterina, nata il febbraio dello stesso 1730 da genitori di Sorbollà. Andavano a riprendere le relazioni con le loro famiglie d’origine, sempre più allargate con il passare delle generazioni, a rimotivare i loro sentimenti di appartenenza, a partecipare alle lavorazioni stagionali, in particolare la vendemmia, ed eventualmente anche a riproporre diritti patrimoniali e/o di possesso su beni lasciati in Corsica.
Per qualche anno quei pastori non ebbero problemi con i funzionari del governo sardo, finché nella prima estate del 1736 non videro staccarsi dalla galera battente bandiera sarda ancorata in rada una scialuppa che si diresse alla Maddalena. Ne sbarcò un ufficiale e lo scrivano di bordo, inviati per “riconoscere le isole della Cabrera, Maddalena e Sparti”. La galera era comandata dal commendatore Della Chiusa, che a sua volta aveva ricevuto ordini diretti dal viceré, marchese di Rivarolo: “habbiamo stimato per ora d’incaricarla solamente di prender cognizione se tuttavia vi abitino detti pastori Corsi, et in qual numero si trovino, e che quantità d’armenti vi abbino, per farcene al suo ritorno una distinta relazione”. La ricognizione eseguita dalla inerme delegazione non dovette turbare più di tanto i pastori isolani che, avvertiti dagli interventi ultimativi degli anni precedenti, si potevano addirittura attendere quell’azione di forza minacciata da parte sarda proprio con le armi della galera. Alcuni documenti successivi hanno riferito di colpi di arma da fuoco esplosi contro la galera sarda da parte dei pastori isolani, altri lo hanno giustamente smentito, in quanto la stessa relazione di Della Chiusa non ne faceva menzione. I pastori capirono subito che le pretese sarde di esercizio di dominio sulle isole erano state ridotte a rango di ulteriore ricerca sui titoli di dominio e di conoscenza dello stato di fatto, e accolsero quindi i funzionari militari facendosi contare e dando le informazioni richieste.
La ricognizione era inserita nel noto attivismo dell’azione di governo del viceré Rivarolo che, trovata questa pratica inevasa da qualche anno, la riattivò inviando a Torino la relazione di Della Chiusa. Nel dispaccio di trasmissione, datato 19 luglio 1736, fece notare alla corte che il lungo possesso delle isole da parte dei corsi avrebbe potuto pregiudicare gli interessi del sovrano, per cui chiese di conoscere gli ordini del re al proposito. Dovette, quindi, mettere a freno la sua indole decisionista e, rendendosi conto che l’affare poteva essere spinoso per le relazioni con la Serenissima, concluse precisando che: “Je n’innoverai rien sur cette matiere avant que d’avoire recu les ordres precis”. Invece di ordini precisi, a Cagliari giunsero i ragionamenti di un “congresso”, ovvero di un gruppo di lavoro, istituito per esprimere un “Parere sulle avvertenze da aversi nel prendere possesso delle isole Intermedie e de’ mezzi da adoperarsi per non lasciar pregiudicare i diritti di sovranità su di esse dal possesso presone da’ pastori corsi”. Il documento, datato 16 agosto 1736, ripercorreva le vicende del periodo 1728/30 e riportava la relazione del comandante Della Chiusa, concludendo che: “in questo stato di cose non si può per ora formare un giudizio più accertato del dominio e proprietà dell’isole delle quali si tratta a favore della Sardegna”. Gli estensori del parere non andarono oltre il consiglio al re di far proseguire le ricerche al viceré ed eventualmente: “all’occasione che le galere di S. M. si trattengono in quelle marine si potrebbero in esse isole fare atti possessori e dimostrativi dell’esercizio di giurisdizione e sovranità con obbligar li pastori colà abitanti a riconoscere per sovrano di quelle isole il Re di Sardegna ed in conseguenza di tal ricognizione prender la licenza di pascolar in esse i loro bestiami da un subdelegato della Real Intendenza colla sottomissione di pagar per essi il solito deghino”. Ma un simile atto di forza per essere utile e risolutivo nel tempo avrebbe dovuto, secondo gli stessi proponenti, essere sostenuto da un’azione continua di atti possessori che le condizioni di spopolamento delle coste galluresi e la mancanza di villaggi vicini non rendevano possibili. La situazione sconsigliava, quindi, l’azione di forza, perché la mancanza di un presidio militare stabile avrebbe reso vana la pratica del principio di sovranità, con un contraccolpo negativo alla autorità del governo sardo, “ed anche di pregiudizio alla ragione di dominio che si ha giusto fondamento di creder competer alla Sardegna”.
Tutto tacque per trent’anni in cui però la vita nelle isole, i traffici nelle Bocche e le relazioni tra le due sponde erano normalmente intensi. Il caso Rubiano ci ha raccontato della conoscenza reciproca e della frequentazione tra marinai del piccolo armamento navale militare sardo in servizio nei Carruggi e i pastori delle isole, e tra questi e i pastori dei rebagni delle “cussorgie” di Surrau, del Liscia e di Arzachena. Il gruppo dei caprerini che aveva rivendicato l’uccisione del comandante Rubiano, una volta soddisfatto il credito d’onore nei confronti dell’offensore, si intrattenne con il resto dell’equipaggio e lo invitò a mantenere i buoni rapporti di sempre e ad andare a ospiti a Caprera. D’altronde le occasioni di contatto dovevano essere frequenti, secondo le cronache dei diari di bordo dello sciabecco sardo e delle sue galeotte armate in corso contro gli sfrosi e per la salvaguardia della sanità.
Salvatore Sanna – Co.Ri.S.Ma