Delfino – U fironu
Una delle presenze meno gradite ai pescatori era quella dei delfini, fino a qualche decennio fa molto più numerosi di oggi nelle acque dell’arcipelago; a noi è gradito il comportamento socievole di questi animali, che non hanno nessuna paura dell’uomo e giocano saltando intorno alla barca o la seguono a lungo senza alcun apparente motivo.
Per i pescatori invece l’arrivo del delfino era quanto di più dannoso potesse capitare perciò, per scaramanzia, non lo nominavano mai se non con la definizione di “malu pesciu”, illudendosi di allontanarlo dai loro mestieri come dalle loro menti: provocava infatti grossi danni sfondando con la sua mole le reti di cotone, distruggendo a morsi o testate le nasse; aveva inoltre la cattiva abitudine di ritornare alla stessa ora, con straordinaria precisione, per parecchi giorni, dove aveva trovato nutrimento, perciò al pescatore avvilito non restava in questi casi altro da fare che cambiare zona maledicendo impotente la causa dei suoi mali.
Intorno al 1930 la Società dei Pescatori stipulò un accordo con la Capitaneria per combattere gli odiati delfini e ai pescatori vennero assegnati munizioni e fucili (moschetti 91) e promessa una ricompensa per ogni delfino ucciso. Per fortuna la mancanza di dimestichezza con le armi e il movimento continuo della barca che non consentiva una mira precisa provocarono poche vittime. Raccontava Raffaele Maddaluno che a Punta Galera (Caprera) dopo aver cercato inutilmente di sparare, ostacolato dall’ondeggiamento continuo, contro il bersaglio mobilissimo, nervoso e scontento lasciò cadere il fucile dal quale partì un colpo che forò la prua della barca.
Malgrado questo comprensibile sentimento di odio e il tentativo di difendere a tutti i costi il frutto del lavoro, i pescatori, attenti osservatori della vita del mare, notavano i comportamenti intelligenti dei delfini, meravigliati da certi episodi della loro vita sociale. Ne riportiamo uno emblematico riportatoci dal signor Maddaluno: una mattina, avvicinandosi ala secca di Spargi per salpare le reti, i pescatori videro da lontano con rabbia e preoccupazione i delfini che saltavano e sembravano giocare: iniziarono a salpare con cuore stretto, pensando di trovare le reti distrutte; ma, con loro grande meraviglia, tutto era a posto. Solo quando, impigliato per la coda nel cordone trovarono un delfino, capirono che gli altri facevano quella specie di danza intorno al compagno imprigionato, senza più preoccuparsi di nutrirsi e senza allontanarsi lasciandolo al proprio destino.
Ma c’era anche chi sapeva ricavare dal delfino l’apprezzato musciame che veniva in grande quantità inviato a Genova: uno dei confezionatori di musciame universalmente ricordato era Matteo Federico, “Canta-Canta”. Togliendo la colonna vertebrale all’animale si ricavavano quattro grossi filetti, due superiori e due inferiori che venivano tagliati longitudinalmente e dimensionati come grossi salsicciotti, dopo averne estratto, sfilandoli, i nervetti esterni. I pezzi venivano quindi posti, sotto sale grosso tritato, in cassette di legno, “baiette”, pressati per 48 ore per farne scolare il sangue, lavati in acqua di mare e poi appesi ad asciugare all’ombra in ambiente ventilato. Comunemente si consumava il musciame tagliato a fettine sottili e unto d’olio, ma i Genovesi lo preferivano adagiato su gallette, olio, pomodoro, acciughe e peperoncino.
Parzialmente tratto da “Il mondo della pesca” – Co.Ri.S.Ma – Giovanna Sotgiu
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