13 settembre 1943
Il 13 mattina l’incidente della motozattera mise in moto il meccanismo preparato. Ormai per i tedeschi ogni ora era preziosa e, forti della loro posizione di presunta sicurezza, dato il controllo esercitato sui due capi militari, per affrettare ancora l’esodo commisero l’ennesimo atto di forza allontanando da una motozattera italiana, attraccata in piazza Comando, i marinai e impadronendosene.
L’imbarcazione si diresse verso Palau. Erano le 08.40: la batteria di Punta Tegge, al comando del ten. Giovanni Giacomino, sparò verso la motozattera provocando immediata risposta delle batterie tedesche. Vittorio Longo aveva assistito alla scena del furto della motozattera, poi si era imbarcato su un camion, insieme a dei colleghi, per andare al lavoro a Nido d’Aquila. Erano arrivati appena alla Crocetta, prima di Punta Tegge, quando incominciarono i colpi di cannone: lasciarono il camion e proseguirono a piedi, intimoriti ma curiosi di vedere quello che succedeva. Renato De Stasio era al Puntiglione al riparo di una roccia e guardava affascinato lo spettacolo: i primi colpi provenienti da Palau arrivavano a mare a destra del casotto delle ostruzioni retali, poi diventarono sempre più precisi e colpirono la batteria; i militi scapparono cercando rifugio dietro le rocce a nord verso il mare e contemporaneamente interveniva Nido d’Aquila alla quale rispondevano i tedeschi con i primi colpi che esplodevano sulle pareti rocciose; poi, suscitando meraviglia e ammirazione per la precisione del tiro in alcuni giovani rifugiatisi sotto le rocce, un proiettile micidiale, centrò la bocca di un cannone facendolo esplodere e provocando la morte di un marinaio; i due successivi colpi andarono a segno sulle due centrali di tiro. Anche Nido d’Aquila interruppe il fuoco, ma come in un programma di successioni studiate in crescendo, entrava in campo la terribile batteria Pes di Villamarina di Guardia del Turco che in breve mise a tacere i tedeschi.
Tutti gli altri reparti iniziarono allora l’azione; erano le 09.40.
Il distaccamento di Regina Elena apriva il portone mostrando un buon baluardo di sacchetti di sabbia e la mitragliatrice che incominciava a sparare; “tre soldati che dicevano di sapere qualcosa, uno puntava, uno teneva sulle mani il nastro per accompagnarlo, il terzo con la pompa faceva passare l’acqua nel manicotto per raffreddare la canna. I tedeschi risposero al fuoco che non provocò danno; ma, dopo qualche raffica, la mitragliatrice s’inceppò: in mancanza di altre armi pesanti non restava che ritirarsi e chiudere il portone“. Cosa tutt’altro che facile perché per farlo bisognava uscire allo scoperto sotto il fuoco; aiutandosi con dei pali si riuscì finalmente nell’intento: una ferita leggera ad un braccio provocata da una scheggia fu il solo danno per la sparatoria durata in tutto un quarto d’ora. Chiusi all’interno della caserma senza poter più metter fuori il naso, data l’estrema vicinanza dei nemici, i soldati non capivano più cosa succedeva, ma sentivano i colpi da diverse parti e, dagli spioncini, vedevano, nel corso della giornata, passare le macchine che portavano all’ospedale i feriti e i morti.
A Faravelli intanto (ore 08.50) era arrivato un biglietto diretto al comandante Avegno, dall’aiutante maggiore Bondi che, informando il collega della situazione all’ammiragliato, gli lasciava ogni decisione su eventuali azioni “sconsigliando però in via di massima”. Subito dopo, il cannoneggiamento delle batterie annunciava che l’azione aveva avuto inizio e le compagnie uscirono secondo i piani stabiliti, mentre Forte Camicia incominciava a sparare contro Isola Chiesa aiutato dal rimorchiatore Porto Quieto; (ore 09.05) Le compagnie escono, quella della Base passando a sud di Forte Peticchia con direttrice verso Villa Bianca, quella sommergibili (sic), su tre plotoni, verso il Commissariato passando a nord dell’ospedale (I plotone), forte Camiciotto (II plotone) e rasente al muro nord di Camiciotto (III plotone). Alcuni mortai tedeschi aprono un violento fuoco su Forte Camiciotto ed a levante di esso ostacolando fortemente l’avanzata del I e specialmente del II plotone della compagnia sommergibilisti. Molti colpi di mortaio raggiungono Forte Camiciotto riducendo al silenzio le mitragliere pesanti” e facendo le prime vittime; il sottotenente Veronesi, i carabinieri Giovanni Gallu e Giuseppe Melis e il marinaio Gesuino Corrias, dello sfortunato pattuglione misto rifugiatosi il giorno 9 a Forte Camicia e aggregato alla sua difesa. Gli altri tre componenti del gruppo ebbero maggior fortuna, ma anch’essi riportarono ferite più o meno gravi.
Secondo la relazione del GRUPSOM anche la batteria di Poggio Baccà a Caprera era intervenuta prontamente mentre non si hanno notizie di partecipazione delle altre dislocate nell’isola: solo una testimonianza di un milite di Messa del Cervo, Tore Caria, che conferma l’ordine dato alla postazione di sparare ricevuto dalla postazione, ordine che il centurione Cani tentò di ignorare, il concitato dialogo telefonico con il comandante della batteria di Candeo che chiedeva perentoriamente di ubbidire minacciando di rivolgere contro Messa del Cervo i suoi cannoni e, finalmente, i colpi sparati. Ma la mira era volutamente sbagliata perché Cani non voleva colpire gli alleati del giorno prima e, a conclusione di quella giornata, poteva dichiarare soddisfatto di “avere la coscienza a posto perché, per lui, nessuno era morto”. Per chiarezza di informazione si precisa che Candeo era armata dalla Marina Militare e Messa del Cervo dalla Milizia.
Nel procedere verso Villa Bianca la compagnia del comandante Avegno avanzava quasi completamente allo scoperto per la mancanza di ripari: i colpi dei tedeschi si rivelarono quindi abbastanza precisi: il carabiniere della Marina Giovannino Cotza cadde per primo mortalmente ferito; diverse testimonianze concordano sul fatto che Avegno sia accorso al suo fianco per aiutarlo e in quel frangente sia stato anch’egli colpito. Nella sparatoria qualche marinaio morì, qualche altro, ferito, trovò aiuto e le prime cure in due giovani maddalenini accorsi curiosi al cessate il fuoco: i due, Lino Grondona, studente in medicina, e l’amico Enrichetto Massaro, usarono una vecchia porta come barella e lo trasportarono nella vicina casa di Barabò. La generosa azione del contingente dell’Arsenale suscitò commozione, dolore e rabbia per l’esito drammatico, ma anche critiche e commenti negativi nei confronti della assoluta imprudenza di Avegno nel procedere allo scoperto offrendosi senza difese ai colpi tedeschi.
L’ordine ai reparti dell’arsenale “di sospendere il fuoco rimanendo nelle posizioni occupate” arrivò dal colonnello Ferracciolo a nome dell’ammiraglio alle 12.20, quando Isola Chiesa era già stata occupata da un reparto di sommergibilisti.
Da notare che il cessate il fuoco era stato dato alle 10.26 dal comandante Bondi al comando DICAT perché lo trasmettesse a tutti e a tutti era arrivato, attraverso il telefono per le linee rimaste in mano agli italiani, attraverso porta ordini per Guardia del Turco e Spalmatore, attraverso i segnali Very per tutti gli altri. E mentre a La Maddalena si continuava a combattere ignorando i segnali, alcune batterie ancora in condizioni di agire, la 600 (Monte Altura), la M25 (Santo Stefano) e la Talmone, avevano distrutti i pezzi. Le compagnie del 391° entrarono in azione secondo gli itinerari concordati: ma quella che avrebbe dovuto raggiungere piazza Comando da nord attraverso Punta Villa e Cardaliò, si fermò dietro l’Istituto San Vincenzo, “imboscata” secondo la critica definizione di Pinetto Grondona, e non né usci fino al cessate il fuoco.
Quella del capitano Guiso, proveniente da Punta Villa, scese lungo la vadina di Cala Chiesa e proprio presso la fonte ebbe la sua prima vittima era il caporal maggiore Vittorio Murgia che un destino fatale aveva voluto trattenere qui; infatti, avrebbe dovuto essere in quei giorni a casa sua, ma difficoltà burocratiche l’avevano trattenuto. Pinetto Grondona che, avendo dovuto provvedere a prelevare i viveri da Opera Colmi, non era partito insieme agli altri, raggiungendo la compagnia lo trovò riverso presso la fontana. La vadina era costeggiata da canneti rigogliosi che offrivano la possibilità di imboscate e i tedeschi avevano fortificato la loro posizione nascondendosi dietro la fitta vegetazione. Il combattimento si svolse quindi alla cieca con raffiche e colpi di fucile che si susseguivano.
Intanto il sottotenente Attilio Credidio, del gruppo venuto giù da Vena Longa attraverso Fangotto, arrivato a Due Strade, attaccava la postazione tedesca di via Passino: un leggero dosso non consentiva di vedere la fine della strada con la casa di Fucigna dove i tedeschi con una mitragliatrice controllavano la strada sottostante e la zona delle torpediniere. Si cominciò a sparare mentre alcuni fanti si appostavano dietro gli angoli valutando la situazione. In una casa al primo piano, situata quasi alla fine della strada, un operaio fuochista presso il GRUPNUL stava preparandosi per il suo magro pasto era Serafino Sirigu, egli sapeva bene della presenza dei tedeschi vicinissimi, ma, sentendo i colpi che venivano dall’opposta direzione, all’ingresso della strada, scese per rendersi conto e si affacciò al portoncino. Un soldato italiano, probabilmente proprio della IV compagnia del 391°, vide il movimento, scorgendo una persona; il dosso forse non gli consentì di distinguere; non vide che non aveva divisa, che portava un berretto da operaio, non l’elmo tedesco. Sparò e colpi alla testa l’uomo che cadde, morto. I tedeschi intanto si rendevano conto che la loro posizione, ottima per il controllo della zona verso il mare era in realtà difficilissima da difendere dagli assalitori che venivano da Due Strade; fecero un timido tentativo di resa con un fazzoletto bianco che i fanti italiani, forse sempre a causa del maledetto dosso, non videro e si continuò a sparare. Seguendo i muri delle case si avvicinarono fine a che finalmente arrivarono a capire che i tedeschi si erano arresi. Erano riusciti a distruggere col fuoco dei documenti prima che gli italiani riuscissero ad impedirlo, quindi, piantonati dai soldati, caricarono su un sidecar le apparecchiature radio e le armi e si diressero al primo punto di raccolta dei prigionieri. Intanto Paolino Spano, che abitava anch’egli in via Passino, percorsa la strada per rendersi conto dell’accaduto, entrò nella casa del vicino Sirigu; a terra c’era il berretto da operaio insanguinato, sulla tavola il pasto preparato: pane, formaggio e una bottiglia con un po’ di vino. L’avanzata continua lungo Due Strade fino a Villa Paolina dove un altro scontro con la postazione dei mitraglieri collocata dietro il Palazzone si risolse con la resa dei tedeschi.
Un volontario MILMART (Nino Birardi), assegnato a S. Stefano, si trovava a La Maddalena per caso con il suo comandante Salvatore Sanna. Lasciato da quest’ultimo presso il Commissariato, si era trovato all’improvviso immerso, suo malgrado, nell’azione. Riporto la sua testimonianza per evidenziare, ancora una volta, la confusione e l’approssimazione di quelle ore vissute senza sapere bene cosa succedeva e con ordini a volte contradditori o inascoltati: “Cominciarono gli spari, colpi di mitraglia e di fucile; io non sapevo cosa fare, la confusione era tanta, quando all’improvviso mi trovai davanti un ufficiale. “Che fai qui?”, mi domandò e gli risposi spiegandogli la mia situazione. “Vieni con me!”, disse, ma io ribadii che dovevo aspettare il ritorno del mio comandante. “Vieni con me!”, continuò puntandomi la sua pistola d’ordinanza. Fui costretto a seguirlo, mi fece dare un fucile e delle munizioni, mi piazzò davanti ad un cancello dove c’erano già 5-6 marinai; in postazione sparammo qualche colpo e lì venni a sapere che i tedeschi avevano occupato La Maddalena; poi tutto tacque, i tedeschi si erano arresi. Nessuno si interessava più di me, quindi, essendo affamato, decisi di andare da alcuni conoscenti che abitavano nelle vicinanze, la famiglia Manconi. Qui trovai zia Annetta e mentre le spiegavo ciò che era accaduto irruppe all’improvviso un ufficiale dell’esercito, con 3-4 soldati e si ripeté la stessa scena del commissariato. L’ufficiale mi puntò la sua pistola e mi ordinò di seguirlo. Ci incamminammo verso via Principe Amedeo. A un certo punto, all’altezza dell’attuale caffè Shangai, incontrai un mio amico, Tonino Virdis detto Cusseddu, il quale disse che nella casa del marmista di via Passino c’era una postazione tedesca. L’ufficiale ordinò di recarci immediatamente sul posto; all’imbocco della via, mente si decideva cosa fare arrivò uno dei fratelli Grondona, ufficiale dell’esercito con altri 4-5 soldati; parlò per un po’ con il nostro ufficiale ma poi proseguì per la sua strada. Giunti a una certa distanza dall’abitazione occupata gridammo ai tedeschi di arrendersi: nessuna risposta; quindi l’ufficiale ci ordinò il fuoco. I tedeschi si arresero però nella sparatoria rimase ucciso un civile, un abitante della zona di cui non ho mai saputo il nome. Catturati i prigionieri ci dirigemmo verso l’ammiragliato; all’altezza di Villa Paolina, giù verso il Palazzone, c’erano altri tedeschi; con “l’aiuto” dei due prigionieri che l’ufficiale minacciava con la sua pistola e dopo qualche sparatoria riuscimmo a disarmare un gruppo di tedeschi, tutti ragazzi. A tal proposito ricordo che ad un tratto si presentò un ufficiale superiore della Marina Militare il quale disse di riconsegnare le armi ai prigionieri appena disarmati. L’ufficiale con cui ero si mise sull’attenti e rispose con fermezza: “Mi dispiace ma obbedisco soltanto ai miei superiori”. Radunammo i tedeschi disarmati nella piazzetta di fronte alla Villa Paolina; ormai era sera, l’ufficiale che fino a quel momento ci aveva guidati era scomparso. Non lo rivedrò più e non saprò mai come si chiamasse così come per gli altri soldati a cui ero stato aggregato”.
Ad Abbatoggia, l’azione dei mitraglieri era stata preparata ni giorni immediatamente precedenti. Le donne e i bambini della famiglia Ornano, che abitavano una parte della casa padronale sede del comando di compagnia, erano state allontanate due giorni prima, mandate a Casa del Pastore a qualche decina di metri, ma abbastanza lontane per non essere coinvolte in eventuali azioni di fuoco: anche loro sapevano che qualcosa di drammatico si stava preparando. La sera del 12, sullo spiazzo davanti alla casa si erano piazzate delle armi, “cannoncini” nella memoria di Anna Terrazzoni, e, nella stessa sera, i mitraglieri, che stavano nella casermetta ai piedi della collina, partirono gli ordini del loro capitano Luigi Porcu. Il loro percorso era particolarmente duro e accidentato perché dovevano evitare di passare nei pressi di Guardia Vecchia aggirando da ponente la parte alta dell’isola; quindi seguirono il sentiero di Cala d’Inferno e risalirono, la mattina seguente, il pendio della collina rocciosa che, allungandosi alle spalle di Cala Gavetta, arriva fino alla base meridionale di Guardia Vecchia. Erano circa le 10.00. I giovani mitraglieri si erano appostati dietro le rocce, mentre i tedeschi erano sulla cima della cresta rocciosa, a circa cento metri a nord della collina della Crocetta, in posizione dominante, dalla quale segnalavano alle batterie di Palau. I primi colpi e alcune granate scoppiarono nello stadio comunale e alle spalle del palazzo scolastico, utilizzato come magazzino del Commissariato, dove, vista la possibilità di recuperare qualcosa di vestiario, c’erano anche alcuni civili. Qualche marinaio, pur essendo armato solo di moschetto, probabilmente insufficiente in tali frangenti, si affacciava alle finestre dell’edificio dirigendo i suoi colpi verso l’alto. Sulla cima il fuoco divenne intenso e i tedeschi ebbero la meglio prima di essere circondati e disarmati. Nei racconti di quel giorno, a Vittorio Longo e a Rosario Acciaro che dava una mano a recuperare i corpi, qualcuno spiegò come i tedeschi si fossero avvicinati con l’inganno agli italiani, sbandierando una zanzariera bianca mentre due loro commilitoni, acquattati, aspettavano che gli italiani si alzassero allo scoperto per sparare e uccidere; le cose non erano andate così e altri soldati che avevano partecipato alla spedizione spiegarono che i tedeschi erano bene appostati e facilmente avevano avuto ragione dei nostri soldati che salendo dall’impervio sentiero, si affacciavano sulla cresta senza protezione. Tre ragazzi della compagnia di Abbatoggia caddero: Emanuele Guyon, Pasquale Sassi che, chissà perché, aveva nel taschino della giubba, oltre ai documenti, due corde di chitarra, Giovanni Perotti, che aveva lasciato nella casa di Abbatoggia una ragazza ad attenderlo, un affetto nato in tempi sbagliati.
Un sottufficiale di marina si lamentò per ore nell’avvallamento vicino senza che nessuno dei civili nascosti nel rifugio sotto il palazzo scolastico potesse soccorrerlo.
Due bambini, Alberto e Mario Napoli, di 10 e 8 anni, erano rimasti con la famiglia nella loro casa in mezzo agli ulivi sul pendio della Crocetta, contravvenendo all’obbligatorietà dello sfollamento, e convivevano con la guerra con una naturalezza che solo l’abitudine, anche alle tragedie, sa dare. Uno di loro, il più piccolo, durante i bombardamenti di quell’anno, si nascondeva vicino a casa, non nel rifugio scavato dal padre, ma nello sfiatatoio di un pozzo, a mezza costa, capace appena di contenerlo e, dal suo posto in prima fila, osservava lo spettacolo degli aerei che sganciavano il loro carico mortale. Non aveva paura; e quando il padre riusciva a recarsi in barca la dove le bombe avevano fatto strage di pesci, era piacevole vedere spigole e occhiate fuori programma. Anche quel 13 settembre i bambini erano all’erta, sentivano il crepitio delle mitragliatrici e il lamento del ferito giù nel canalone. Quando il fuoco cessò gli si avvicinarono, ne distinsero la divisa, videro il mitra abbandonato. Poi, quando il silenzio annunciò la fine della lotta, si arrampicarono sul pendio boscato e si affacciarono sulla scena del combattimento i soldati italiani scorsero una testa bionda sbucare e stavano per sparare credendo che si trattasse di un tedesco; poi fortunatamente distinsero anche il resto. I bambini non si erano neanche resi conto del rischio: guardavano tutt’intorno i bossoli sparsi.
Dopo lo scontro, nel pomeriggio, alcuni prigionieri erano ancora nella piazzetta di Due Strade presso Villa Paolina; non avevano mangiato nulla e dei giovani maddalenini recuperarono e offrirono loro un po’ di pane. Altri tre prigionieri tedeschi furono portati ad Abbatoggia e custoditi fino a sera in un magazzino chiuso da un cancello di ferro, prima del loro trasferimento definitivo. Anna Terrazzoni, una delle ragazze rimaste nella casa, ricorda i tre giovani che chiedevano da bere, i racconti dei sopravvissuti, il dolore per i morti. Prima di partire per la missione uno dei soldati aveva affidato alla famiglia Ornano una fede con la preghiera di mandarla ai suoi nel caso non fosse più rientrato; un altro, proprio uno dei caduti, aveva lasciato un’altra ricchezza, un fiasco d’olio che nessuno ebbe il coraggio di adoperare, fu regalato alla chiesa.
Quei giorni duri avevano cementato i rapporti dei soldati di Abbatoggia con i civili che vi abitavano: alcuni di loro rimasero a La Maddalena dopo la fine del conflitto, continuando a frequentare la famiglia Ornano: uno, contadino di professione, divenuto telefonista per esigenze di guerra, ritornò al suo mestiere, fu assunto da Antonuccio Ornano e continuò ad abitare nella Casa del Pastore coltivando quei terreni aspri.
Della colonna di Padule sappiamo ben poco in quanto solo due documenti ne parlano senza dare particolari, il primo é la “Relazione cronologica del mese di settembre 1943” del Comando Militare Marittimo Autonomo in Sardegna che dice: “Le due compagnie dell’esercito e la colonna del Parco Padule giungono a contatto balistico dei tedeschi asserragliati nelle palazzine di piazza Umberto I “; il secondo è il diario MILMART; dice il seniore Zanetti, compilatore del diario “….telefono al seniore Ferrari (ore 10.15) del comando FAM l’ordine del signor ammiraglio di far sospendere il fuoco a Padule (sic) che dovrà mantenersi sulla posizione in attesa di ordini”. Non siamo quindi in grado di precisare quale ruolo abbia avuto quella colonna.
Quel che é certo é che, dopo i primi ordini di cessare il fuoco, la lotta continuò, frammentata in tanti episodi: scontri rapidissimi e cruenti si alternavano a lunghi momenti di silenzio rotti dalle trombe che ribadivano la cessazione delle ostilità e dalle macchine che, con ufficiali sventolanti bandiere bianche, passavano e ripassavano lungo piazza Comando, via Garibaldi e Due Strade.
Un violento scontro avvenne nei pressi del Comune: i marinai italiani (probabilmente proprio quelli provenienti da Parco Padule), appostati in via Italia e in via Regina Margherita, cercavano di eliminare il presidio tedesco operante in via Garibaldi nello slargo presso via Nizza. Il testimone, in questo caso, è don Capula che in quei momenti non solo non scappò, ma fece di tutto per seguire le azioni e accorrere per dare conforto e sacramenti. Egli non poteva in alcun modo sostituirsi al cappellano militare al quale competeva l’assistenza dei militari, ma date le particolari circostanze verificatesi dopo il bombardamento del 10 aprile, aveva chiesto al vescovo la possibilità di intervenire. E il vescovo Morera, raccomandando prudenza perché non si esponesse eccessivamente ai pericoli, aveva consigliato di far allontanare il vecchio e acciaccato don Macciocco, aveva consentito a don Capula di rimanere fino a che ci fosse a La Maddalena “un discreto numero di anime” e lo aveva autorizzato, secondo le norme previste dalla Santa Sede, a offrire la sua cura spirituale ai militari ma solo “durantibus incursionibus” e per coloro che si trovavano in pericolo di morte. Cinquant’anni più tardi, ricordando quei momenti, il parroco scriverà: “Alcuni feriti ebbero le prime cure all’ingresso di questa chiesa. Diversi combattenti italiani fecero breve atto di presenza in questa chiesa raccomandando la loro vita al Signore”. E, ripercorrendo le fasi de combattimento in via Italia, racconterà: “Un ufficiale tira su la testa dall’angolo di via Italia e schiva fortunatamente un proiettile a lui diretto: va subito in chiesa a ringraziare; un marinaio che cercava di attraversare la piazza da via Fabrizi per raggiungere la porta del municipio viene falciato all’angolo di Ferrigno e cade a testa in giù”. Vedendolo don Capula si precipitò per dargli i sacramenti, era già morto.
Un sottufficiale di Porto Torres, capo Bazzoni, fu visto da Paolo Sangaino e Alfio Del Giudice avanzare silenzioso da via Angioi, arrampicarsi sul basso tetto del negozio di Giagnoni, per colpire con bombe a mano i tedeschi che occupavano la via sottostante. Più tardi la lotta si riaccese in un’altra zona di via Garibaldi, presso la scalinata che porta in via Tola; poi ancora più in là verso piazza Comando, presso quello che allora era il negozio Beninati che finì con la porta sfondata e i vetri infranti. Tutti questi scontri disordinati non seguivano più la strategia iniziale, ma dimostravano la volontà, una volta iniziata l’azione, di non interromperla senza aver ottenute il risultato sperato.
L’ammiraglio Brivonesi invece, appena riebbe la possibilità di agire, subito dopo le 10.00, si adoperò in tutti i modi non solo per far cessare le ostilità, ma per restituire ai tedeschi fatti prigionieri libertà e armi, cose che non furono accettate di buon grado. Il senso di inutilità della lotta sostenuta spinse a comportamenti indisciplinati; alcuni fracassarono i fucili sulle rocce prima di restituirli. A conferma della testimonianza già citata di Nino Birardi, altri riferiscono di un ufficiale dell’esercito che aveva risposto cortesemente, ma con fermezza, al suo collega di marina che gli porgeva il non gradito ordine, che avrebbe ubbidito solo ai suoi diretti superiori.
Ancora dopo le 13 si combatteva presso la Trinita e le truppe di fanteria impegnate non volevano saperne di interrompere: era stato inutilmente inviato per questo un ufficiale, lo stesso seniore Zanetti, dall’osservatorio DICAT, mandava segnali VERY; la fanteria rispose anche di aver capito il significato della segnalazione, ma continuò ancora per un po’ a combattere.
Gli ultimi colpi risuonarono verso le 21.50 da S. Stefano: benché fosse stata data dal Comando Marina la comunicazione del transito di una motozattera particolarmente importante perché trasportava un ufficiale, fatta segno ai colpi delle mitragliere di S. Stefano, finì incagliata e dovette essere recuperata da un rimorchiatore.
Malgrado questo ribollire di azioni, scoordinate ma significative, sempre perseguendo l’intento di riportare alla calma la situazione facendo accettare la resa, nel pomeriggio Brivonesi si recò al Deposito Marinai, dove gli animi erano sempre eccitati; ma, ancora una volta, dando l’impressione di una totale subordinazione ai tedeschi; non solo infatti, era accompagnato dal colonnello Almers, ma addirittura su una macchina tedesca. Non può quindi meravigliare il fatto che i marinai, inferociti, circondassero il gruppo “manifestando il proposito di bloccare” l’ammiraglio e arrivassero a vie di fatto squarciando le ruote della macchina. Solo il comandante Bondi riuscì a riportare lentamente la calma dopo aver per prima cosa raggruppato i marinai allontanandoli dai tedeschi, avendo capito almeno tale necessità che a Brivonesi era sfuggita. Questa volta però, probabilmente la prima dal giorno 9, le condizioni dell’accordo erano positive, ma forse proprio perché venivano dalle richieste dei marinai, non dei comandanti: restituire completa libertà agli ufficiali del Comando e sostituire la guardia tedesca all’ammiragliato con una di marinai.
All’arsenale non volevano saperne di liberare i prigionieri tedeschi, ogni sforzo di Brivonesi e di Bondi risultò inutile e si dovette accettare di rimandare all’indomani l’opera di persuasione.
Ma la giornata non era ancora finita e Brivonesi doveva ricevere un’altra spiacevole sorpresa. Il messaggio di Lungerhausen, arrivato, come si sa, a notte, chiedeva perentoriamente, entro la mezzanotte, “la consegna di tutti gli otturatori di sette batterie” alle quali avrebbe posto un presidio tedesco e l’assicurazione formale da dare entro le ore 2:00 successive, che “queste misure erano già state prese”. Il tono della richiesta era quello di un ultimatum, dato da una posizione di forza, minacciosa e sicura di sé. Colpisce la risposta di Brivonesi che, forse solo per prendere tempo, obiettava che la decisione doveva essere presa da Basso e che “il termine di due ore fra l’accettazione dell’ultimatum e la sua esecuzione materiale non poteva essere accettato perché …. non potevano occorrere meno di cinque ore per la messa in opera delle disposizioni domandate dal comando tedesco.
Cosa rendeva tanto forte il generale tedesco dopo un’apparente sconfitta che, se pure non aveva portato molte vittime fra i suoi pure era Costata 250 prigionieri, ancora in mano italiana, che il personale della Base rifiutava ostinatamente di consegnare? Lungerhausen sapeva che, nonostante il valore dimostrato da molti reparti italiani nei combattimenti della giornata, la situazione era per loro tutt’altro che rosea poiché altre due batterie della costa sarda, fra le più importanti, erano state abbandonate o rese inutilizzabili: quella di Monte Altura, che nel pomeriggio “aveva ceduto alle ingiunzioni dei tedeschi che l’avevano circondata con alcuni carri armati e la M 785 (Capo d’Orso) che era stata minacciata da alcuni gruppi di paracadutisti della nostra divisione Nembo”. Le sole batterie della costa rimaste in mano italiana erano la Cappellini, la M 105 (Tre Monti) e la M 333 (Battistoni) “che non avrebbero potuto intervenire in una’azione di fuoco contro mezzi navali che attraversavano lo stretto di Bonifacio a ponente dell’Estuario”.
Inoltre la confusione generale e i disordini al commissariato non erano sfuggiti ai tedeschi (che anzi, accusati di avervi preso parte, avevano potuto dimostrare la loro estraneità), così come le fughe del personale incominciate il giorno 12 e da loro facilitate.
Per tutti questi motivi Lungerhausen aveva buon gioco e poteva alzare la posta. A Brivonesi non restò che avvertire in piena notte (ore 23:30) tutti i comandi di compagine che “complicazioni” sorte in quelle ore facevano temere un attacco tedesco nelle primissime ore della mattina.
L’ultimatum di Lungerhausen infatti scadeva a mezzanotte.
Ma, almeno da quanto risulta nei documenti consultati, Brivonesi non ordinò la consegna degli otturatori come richiesto dal generale tedesco, anche se appare strano il fatto che, per ammissione dello stesso Brivonesi non ordinò la consegna degli otturatori come richiesto dal generale tedesco, anche se appare strano il fatto che, per ammissione dello stesso Brivonesi, quelli di Talmone erano stati già inutilizzati da alcuni ufficiali di Marina prima dell’abbandono della batteria.
Da questo momento nessuno parlò più degli otturatori né Brivonesi, né Basso; ma un documento del 4 ottobre 1945 getta un po’ di luce sulla questione: un verbale di dismissioni di materiali tratta di “tre otturatori da 76/40”. Recita il verbale. “Durante i fatti d’arme avvenuti dall’8 al 13 settembre 1943 mentre la batteria M 809 eseguiva azione di cannoneggiamento contro unità da sbarco tedesca in procinto di evacuare la piazzaforte profilandosi un eventuale accerchiamento e conseguente occupazione dell’opera stessa da parte di truppe tedesche operanti nell’isola, venne dato ordine verbale da Marisardegna Sede di inutilizzare gli otturatori dei pezzi, scalpellandoli, e gettarli in mare. Ciò risulta nella relazione scritta dall’allora comandante di batteria ten. art. Giovanni Giacomino datata 15-9-43, prot. NIO/S e di cui si trascrive qui appresso il periodo relativo all’accaduto: “Omissis …. gli otturatori, scalpellati, venivano gettati a mare. La perdita non era grave perché, come aveva constatato anche il ten. A.N. sig. Gilardi presente all’azione del giorno 10 specie il tiro navale si faceva in precarissime condizioni di precisione per i laschi dei congegni di punteria, laschi che erano stati fatti presenti fin dal marzo scorso; “La relazione é sottoscritta da una commissione ad hoc, controfirmata dal comandante dell’arsenale.” Se gli otturatori sono stati scalpellati e gettati a mare il giorno 13, è possibile che ciò sia avvenuto a seguito dell’ultimatum di Lungershausen e dei successivi ordini emanati da Brivonesi? Il dubbio è legittimo perché, se è vero che non se ne trova traccia nei fonogrammi di quel giorno alle batterie, è vero pure che Giacomino parla di “ordine verbale”.
Giovanna Sotgiu – Co.Ri.S.Ma
- Premessa di Settembre 1943 a La Maddalena
- I maddalenini
- I tedeschi
- Gli italiani
- Prospetto illustrativo delle batterie dell’estuario all’8 settembre 1943
- Il 1943, l’anno della fame e della paura
- 9 settembre 1943
- 10 settembre 1943
- 11 settembre 1943
- 12 settembre 1943
- 13 settembre 1943
- 14 settembre 1943
- 15 settembre 1943
- 17 settembre 1943
- Elenco dei caduti dal 9 al 13 settembre 1943