24 Giugno 1952: dopo i tre suoni di sirena
All’inizio degli anni cinquanta a La Maddalena, come detto, il livello dello scontro si elevò. Il fronte sindacale si era diviso: da una parte la CGIL, dall’altra i cosiddetti sindacati ‘Liberi’.
Entrambi pretendevano di misurare la loro forza attraverso le manifestazioni di piazza, di carattere molto intransigente per il primo, più conciliante per il secondo.
Il confronto reale, tuttavia, si viveva all’interno dell’Arsenale militare di Moneta. I dirigenti militari del cantiere navale non sempre si rivelarono all’altezza del compito gravoso che era loro affidato. Alcuni di essi non seppero, con la risolutezza dovuta, ricondurre la protesta diffusa delle maestranze, in un ambiente dominato dalle sinistre – padroni della Commissione Interna – nell’alveo della dialettica aziendale dentro lo stabilimento. Il comportamento intollerante di alcuni direttori non ebbe altro risultato che quello di alimentare un fuoco già acceso.
“Molti direttori si avvicendarono alla guida dell’Arsenale, alcuni, di fronte alla determinazione degli operai, finirono per perdere la dignità. All’interno si era creato un clima di vessazione continuo e sistematico, i componenti dei sindacati liberi si trovavano immersi in un’ondata di oppressione. Al culmine di questo periodo, alla fine di giugno del 1952, la direzione decise, inaspettatamente di procedere a sedici licenziamenti. L’indignazione e la protesta furono unanimi tanto più che i criteri usati per compilare la lista dei licenziamenti non riguardavano né le singole capacità, né l’esperienza di servizio, né tanto meno le condizioni economiche dei singoli lavoratori e i bisogni delle rispettive famiglie. Fu una decisione, cinica, spietata e provocatoria: perdere il posto di lavoro è, di per sé una grande sventura, ci si chiedeva il perché di tanta crudeltà e per quale motivo non avessero usato un poco di umanità nelle maniere”. [1]
Dal punto di vista tecnico il licenziamento degli operai arsenalotti fu attuato con la modalità del ‘non rinnovo ’ del contratto di lavoro, che a quel tempo aveva durata semestrale ed era tacitamente prorogato di semestre in semestre.
La prima ondata di lettere giunse a destinazione il 24 giugno del 1952, otto giorni prima della scadenza del rinnovo, alle ore 16 circa.
Alla fine di quella giornata, monsignor Salvatore Capula annotava nella sua agenda:
“Colloquio con il Comandante Berengan (del Comar La Maddalena n.d.a.) – che mi viene a trovare alle 16.30 e mi comunica che in quel momento 16 operai stanno per essere licenziati per motivi vari. Mi prega di fare opera di persuasione presso Pedroni perché non prevalesse l’argomento pietà e si comprendessero le ragioni del provvedimento irrevocabile. Gli domandai i nomi. Mi fece alcuni nomi di licenziati comunisti, causa di tutto il provvedimento. Seppi poi da Campus Giovannino i nomi: Cossu Egidio, Filinesi, Morelli Augusto, Cappadonna Giuseppe, Bruschi Sergio, Carta Antonio, Del Giudice Pietro, Secchi Francesco, Amato Elio, Rinaldi Silvio, Virgona Antonio, Mureddu Michelino, Carta Mario e forse altri ancora, Deleuchi, Acciaro, D’Oriano. Sul tardi vivace reazione per il fatto. La sede del Sindacato Marina rigurgita. Pedroni D. e Campus G. resistono alla domanda di sciopero, si vuole paralizzare tutto. Si ottiene di domandare agli operai” [2] [2bis].
Pochi giorni dopo altri ventitrè operai ricevettero le lettere di diffida per un presunto “scarso attaccamento e scarsa diligenza negli incarichi” che erano stati loro affidati sia dai capi officina che direttamente dalla direzione.
Il 3 luglio successivo, il parroco annotava: “Pedroni Donato, e Impagliazzo Cesiro [3], vanno a Roma per definire i licenziamenti del cantiere. [4]
L’11 luglio: “Rientrano da Roma Pedroni D. e Impagliazzo C., portano la notizia che cinque dei 16 operai licenziati saranno riassunti – Carta Mario, Mureddu Michelino, D’Oriano Giovanni, Rinaldi Silvio e Deleuchi Paolo” [5].
All’inizio di settembre furono fatte recapitare a quattordici operai altrettante lettere di diffida.
Sul ruolo svolto dalla sacrestia e dal parroco nei licenziamenti degli operai comunisti dall’Arsenale Militare, Gian Carlo Tusceri, che ha raccolto in un volume le memorie del parroco, morto a 96 anni, così scrive:
“Il 1950 si apre con una serie di lacerazioni all’interno del sindacato. Si costituisce la CISL e l’UIL accanto alla CGIL. Le tensioni e le paure di un’imminente riduzione delle maestranze dell’Arsenale militare fanno sì che inizino i tumulti all’interno della struttura militare. Cerco di fare del mio meglio per evitare che scoppino incidenti, ma l’irrefrenabile voglia della sinistra di mettersi in evidenza per capeggiare il legittimo malcontento, da una parte e dall’altra l’ottusità di certi dirigenti militari, che pretendono di guidare l’arsenale con lo stesso pugno di ferro e la stessa arroganza ereditata dagli anni del fascismo, provocano – scrive il parroco in alcuni appunti stilati di suo pugno – più di una ribellione con prove generali di occupazione. Sperimento, purtroppo, che mentre i miei parrocchiani mi stanno seriamente ad ascoltare quando parlo di fede, di ideologie e di azioni astratte, difficilmente mi lasciano altrettanto spazio nelle loro teste, quando si tratta del loro lavoro: soprattutto quando questo si presenta incastonato in ingranaggi e in rapporti interpersonali, condizionati da situazioni estemporanee imprevedibili e da cause scatenanti riconducibili a fattori di solidarietà sociale sul posto di lavoro. Ritengono che io non ne capisca granché e che ne devo rimanere fuori” [6].
Che don Capula abbia esercitato un ruolo, da protagonista o da semplice comparsa, in tutta la vicenda lo confermano le testimonianze di alcune delle persone che, in quei tempi, gli erano prossime.
Don Nanni Columbano Rum, viceparroco a La Maddalena negli anni cinquanta, ad esempio, ha scritto di quei momenti: “E’ certo che la Marina militare disponeva in proprio di informatori fidati e di spie professionali per fotografare la posizione politica e l’eventuale pericolosità dei dipendenti civili, senza aver bisogno per questo dei suggerimenti del parroco. E poi, le infiltrazioni massoniche, non rare in quel ceto di militari, creavano distacco, se non diffidenza nei confronti del clero. Persistevano comunque i forti addentellati politici che imponevano anche ai militari di usare considerazione per un prete così potente. Forse don Capula non provvide a sconfessare quanto si andava affermando da molti, che cioè il suo intervento fosse stato determinante nei licenziamenti, perché anche in questo delicato settore poteva risultargli utile il perdurare di una sua posizione ambigua e reticente, consolidatasi presso l’opinione pubblica.
Solo alla fine della vita assicurò di aver aiutato tante persone, senza negare di averne danneggiate alcune altre” [6bis]. L’ex viceparroco continua: “Quello che invece lo ha letteralmente travolto e soggiogato è stato il demone del potere, la ’libido potestatis’. Con una grossa fetta di potere si può fare tanto male, ma don Capula […]. voleva ottenere il bene più grande possibile. Si sa però che, chi lo esercita finisce per esserne avviluppato ed irretito in spire sempre più strette, e chi ha preso gusto al giuoco non riesce più a svincolarsi.
Il salottino con tutti quei volti simbolo della superpotenza era il luogo in cui poteva architettare e sognare […]. Ma il luogo dove ha potuto toccare con mano cosa è realmente il potere è stato il Pentagono. Lo ha visitato nelle parti consentite […] certo di poter controllare da quella potentissima struttura strategica il mondo intero […] per intervenire, qualora occorresse, in difesa propria e degli amici, e per incutere rispetto, se non terrore, in chi amico non è. E’ facile pensare che mai come durante quella visita e in quella struttura egli abbia provato tutta l’ebbrezza del potere” [6ter].
Nel clima di continua tensione e d’estrema precarietà in cui viaggiava l’economia italiana, l’Arsenale vide un frettoloso passaggio di diversi direttori “nessuno dei quali – ripete insistentemente il parroco – effettivamente in grado di governare gli operai”.
La pressione militare nei confronti dei sindacalisti creava, in ogni modo, un clima di paura. [7]
“I militari, facendosi un’arma di certe piccole irregolarità riscontrate nella vita amministrativa dello stabilimento, paventando qualche licenziamento – confidò il parroco – riescono a conquistare anche all’interno delle maestranze (ma soprattutto tra gli impiegati) una serie di delatori. Qualche impiegato più debole degli altri, pur di sentirsi maggiormente tutelato, fa dei nomi scelti accuratamente tra quelli dei sindacalisti che ingenuamente si mettono in maggiore evidenza, ma che non fanno paura a nessuno perché, in fondo, di indole sostanzialmente buona”. [8]
Indole sostanzialmente buona. Aveva ragione il parroco: l’indole di coloro che all’interno della Commissione Interna agitavano la massa operaia contro dirigenti poco sensibili alle esigenze reali dei lavoratori e che per intimidirli suscitavano lo spettro di scioperi o altro, era sostanzialmente buona. Ma lo stato, il governo, non erano tenuti a giudicare sull’indole dei personaggi che, almeno, don Salvatore Capula conosceva bene come concittadini, di cui sapeva vita morte e miracoli, di cui poteva disapprovare – e disapprovava platealmente – le idee politiche. Lo stato aveva la possibilità di attuare una decimazione, finalizzata a tarpare le ali alle estreme sinistre, e la discriminante per quest’incombenza non era certamente la bontà d’indole. Era semmai prevista la rispondenza o meno alle direttive, severissime, contenute nei regolamenti della disciplina – l’ultimo emanato nel 1926 e mai aggiornato [8bis] – ed è assolutamente probabile che le famose liste di proscrizione, redatte chissà da chi e chissà dove, scaturirono inizialmente da episodi che rientravano nella casistica disciplinare. Anche se, è giusto dirlo, la Commissione Interna dominata dagli elementi di sinistra, trovava anche nel fatto più banale un motivo per attaccare la direzione arsenalizia o per organizzare manifestazioni. Il clima in cui si viveva allora è stato ben descritto da Giuseppe Deligia: “eravamo arrivati al punto che si dichiarava sciopero anche se si veniva a sapere che era passato un aeroplano americano” [9].
La delazione fu il mezzo subdolo, adoperato da alcuni dipendenti pavidi o, soltanto deboli caratterialmente, opportunisti e incapaci di tenere testa ai militari, per destreggiarsi in una situazione difficile. Gli informatori segreti, così facendo, si mettevano al riparo dalle intemperie e verso di loro era posto un occhio di riguardo, da parte dei superiori, per eventuali avanzamenti di carriera.
Alcuni appartenevano alla categoria dei sindacalisti, perciò facevano il doppio gioco, o fingevano di solidarizzare con i colleghi, di appoggiare le loro rivendicazioni salariali, mentre, di fatto cercavano di carpire le informazioni preziose a beneficio del SIFAR o del SIOS. [10]
Il parroco nei suoi appunti insistette nel sottolineare la mancanza di sensibilità umana dei dirigenti militari (proprio quella sensibilità che il comandante Emilio Berengan aveva raccomandato di evitare alle organizzazioni sindacali) che avevano licenziato ‘a casaccio’, senza stimare le conseguenze della loro decisione.
“La propaganda sovversiva non si limitò a scagliarsi contro la direzione dell’Arsenale – spiegò don Capula – ma ne approfitto per diffondere voci false e denigratorie nei confronti degli attivisti cattolici e dello stesso parroco. Volevano far credere che i motivi dei licenziamenti fossero di tipo politico, per colpire gli esponenti dei sindacati di sinistra, ma si dimenticavano che cinque dei licenziati appartenevano alle nostre organizzazioni e altri ancora non erano attivisti di nessuno schieramento. Alla fine, l’episodio non fece altro che generare sconcerto, turbamento, amarezza nell’animo degli operai. Conoscevano il proprio lavoro, avevano dato prova delle loro capacità e ora vedevano ingiustamente colpiti i compagni migliori, quelli che riscuotevano la stima di tutti, che avevano svolto incarichi di responsabilità, che si erano dimostrati assidui nel compiere il proprio dovere. Per costoro nessun elogio o premio; tutt’altro, come unico compenso ebbero il licenziamento o la diffida. La lezione che ne hanno ricavato é che sotto una direzione ispirata dal capriccio o dall’abuso di potere non hanno valore né le capacità, né il senso della disciplina” [11].
Abuso di potere. Il parroco aveva colpito ancora nel segno: quello che era accaduto a La Maddalena il 24 giugno 1952 e in altri stabilimenti di lavoro e aziende statali in Italia, era un autentico abuso di potere perpetrato dall’amministrazione pubblica. Abusando delle proprie disponibilità, abusando di una legislazione sul lavoro ancorata a norme e principi di ispirazione fascista, abusando di una disciplina sul diritto di sciopero – sancito dall’articolo 39 della Costituzione – ancora vaga e indecisa (lo ‘Statuto dei Lavoratori’ sarà legge solo nel 1970), abusando del timore ingenerato in tutti i dipendenti di ‘finire in mezzo a una strada ’ se non si fossero adeguati alle direttive dei superiori, abusando delle difficoltà palesi per i comandi periferici di gestire situazioni di concreto malcontento, abusando dei servizi di informazione istituiti a sola ed unica difesa dello stato, l’amministrazione era in grado di pilotare con la formula-capestro del rinnovo del contratto di lavoro semestrale qualsiasi situazione e di poter, senza eccessive difficoltà, decidere del destino di quello o di quell’altro dipendente, creare a tutto scapito del diritto di eguaglianza dei cittadini fra loro una discriminazione che era anche un precedente extragiuridico tale da pesare enormemente sui futuri comportamenti dei dipendenti non toccati direttamente dalla vicenda.
Il Ministero della Difesa, attraverso i suoi organi di controllo, cercò con ogni mezzo di carpire ogni informazione necessaria a neutralizzare il ‘pericolo rosso’. Gli interventi sui dirigenti militari divennero sempre più assillanti ogni giorno che passava, al limite della prevaricazione. Le ingerenze politiche, nella gestione delle strutture della Marina Militare, o delle altre armi dove operava il personale civile, impedirono agli ufficiali manager di svolgere in maniera corretta i loro compiti di istituto.
Giunsero, da Roma alla periferia, note informative e circolari dai contenuti sconvolgenti.
In una direttiva impartita – poco meno di quattro mesi prima del giorno in cui furono consegnate le lettere di licenziamento – dal segretario generale dello Stato Maggiore della Difesa, tale Zannoni, “ai Comandi e ai Direttori degli enti dipendenti” e redatta a seguito a informazioni assunte dagli agenti del SIFAR e del SIOS, fu posta in chiara evidenza la necessità di segnalare gli operai sindacalizzati, aderenti alla CGIL, che organizzavano scioperi o assemblee, o gli iscritti ai partiti di sinistra, che dovevano essere rigidamente sorvegliati, ammoniti severamente e, al limite licenziati [12].
Nel documento era scritto che, da qualche tempo, era stata rilevata un’intensificata attività da parte dei sindacati del personale civile dipendente del Ministero della Difesa e, in particolare di quelli che rappresentavano gli interessi dei salariati in servizio presso gli stabilimenti militari. [13]
“Tali sindacati si starebbero riunendo in un unico ente nazionale aderente alla CGIL – si leggeva nella circolare – E’ da prevedere che tale unione possa avere delle ripercussioni sulla disciplina delle maestranze e non è da escludere che possano manifestarsi azioni di sabotaggio” [14].
I sindacati, che operavano attraverso le commissioni interne, a detta del segretario generale dello Stato Maggiore della Difesa, convocavano “riunioni prestabilite, traendo spunto da questioni d’ordine vario, quali le rivendicazioni economiche o i licenziamenti” [15] per fomentare la rivolta operaia.
I comandi militari a cui fu indirizzata la direttiva – tra questi vi erano il Comando Marina de La Maddalena e la direzione di Marimist (l’Arsenale di Moneta) erano pregati di: “richiamare l’attenzione dei comandanti e dei direttori degli enti dipendenti sulla necessità di adottare tutte le misure cautelative che saranno loro suggerite dalla particolare situazione di ogni singolo ente (strette vigilanze sul personale civile, segnalazioni, eventuali proposte di licenziamenti); seguire da vicino l’attività dei vari sindacati locali richiedendo la collaborazione dell’Arma dei Carabinieri anche per ciò che riguarda i contatti e l’azione degli elementi maggiormente indiziati, al di fuori degli stabilimenti”.
Un’analoga azione di vigilanza e di repressione sarebbe stata condotta dai nuclei di Polizia Militare “ai quali sono stati impartite dirette disposizioni da parte di Maristat/SIOS” [16].
Non si può negare che gli organi di controinformazione delle Forze Armate non facessero il loro dovere, almeno per quanto riguarda l’attenzione alla filosofia politica che, secondo loro, guidava gli interessi strategici dei sindacati della sinistra.
Ecco, su quel triste pomeriggio del 24 giugno 1952, il racconto di Augusto Morelli: “Poco prima dell’ora dell’uscita pomeridiana dall’Arsenale ricevemmo una telefonata ed ognuno di noi fu invitato a recarsi in direzione dove ci attendevano il direttore, colonnello Giuseppe Bianca e il vicedirettore Ugo Prati. Ci fecero attendere sino al suono della sirena che annunciava l’arrivo del rimorchiatore addetto al trasporto degli operai. A quel punto capii che stava succedendo qualcosa di grave o di strano. Chiesi spiegazioni. Il direttore ci disse che aveva ricevuto, tramite un messaggero del Ministero della Difesa, un plico sigillato con le nostre lettere di licenziamento. Chiesi la motivazione di questo licenziamento, ma non mi fu data. Mi fu detto che non ci sarebbe stato rinnovato il contratto di lavoro che aveva scadenza semestrale. Però questo fatto non era mai accaduto prima d’allora, perché i contratti erano stati rinnovati automaticamente” [17].
I licenziati, dopo aver firmato la ricevuta di consegna del plico, dovettero attendere che tutti i compagni di lavoro avessero lasciato lo stabilimento, poi furono accompagnati alla porta di ponente dai carabinieri in assetto antisommossa e di qui in città con un pullman. Fu loro vietato di rientrare negli spogliatoi per recuperare gli effetti personali, che furono fatti pervenire ai titolari alcuni giorni dopo, insieme all’assegno di liquidazione del salario.
I racconti dei testimoni, sostanzialmente coincidono. Pietrino Del Giudice, l’unico comunista licenziato che apparteneva alla categoria degli impiegati afferma: “[…] dopo che hai udito il terzo sibilo della sirena, presentati dal Direttore, mi fu spiegato. Quando vi giunsi, vi trovai anche quindici operai. Ci fu consegnata la tanto temuta ‘busta gialla ’, quella che avevano ricevuto in precedenza, sei mesi prima, altri lavoratori dello Stato, sospettati di simpatie comuniste o socialiste, in altri enti militari, a Taranto, a La Spezia…. Avevo parlato con alcuni colleghi, che erano ‘compagni’, di questa famigerata ‘busta gialla ’ che conteneva una sgradita sorpresa. Preparatevi a riceverla, avevo detto loro. Non mi avevano creduto. Fatto sta… . Il colonnello Giuseppe Bianca, nel momento in cui ci consegnava le lettere di licenziamento – o di mancato rinnovo del contratto di lavoro – si scusò, sostenendo che stava trascorrendo il giorno più brutto della sua vita e che non si sarebbe mai voluto trovare in quella situazione. Ma doveva eseguire degli ordini impartiti direttamente dal Ministro della Difesa. Mi feci avanti, tra i colleghi in procinto di essere esonerati e cercai di sostenere le mie ragioni. Sono un invalido di guerra, gridai. Ho conseguito la pleurite mentre combattevo per la Patria, sul Da Noli. Ho navigato in tutto il Mediterraneo sulle unità da guerra. Sono stato a Tobruk, a Tunisi, a Biserta, nella tana del lupo, di fronte al nemico. Le mie parole se le portò via il vento!” [18].
Due carabinieri scortarono Del Giudice fino a Porta Nord (gli operai uscivano da Porta Ponente N.d.a.), lo fecero salire sul pullman per farlo ritornare a casa.
Naturalmente, sin dal giorno dopo, scattò l’organizzazione del partito comunista che investì ai vari livelli i propri rappresentanti provinciali, regionali e nazionali e i parlamentari comunisti sardi chiesero spiegazioni urgenti al ministro della Difesa, il repubblicano Randolfo Pacciardi [19]. La requisitoria di Luigi Polano, giudicata anche da monsignor Salvatore Capula “una perla di saggezza politica” [20] fu letta al Senato il giorno 12 luglio successivo, nel pomeriggio, e riporta passi di alto significato morale e politico. “Come si può vedere non tira in ballo fantomatiche responsabilità della Chiesa” – commentò Capula [21].
Polano svolse un corretto e appassionato discorso, senza cadere nella retorica o soffermarsi sull’aspetto meramente politico-ideologico della decisione che, in sintesi, era stata assunta direttamente dal Ministro della Difesa, per dimostrare la fedeltà dell’alleato italiano agli Stati Uniti d’America e per disobbligarsi verso un governo amico che aveva aiutato il nostro paese a rinascere con le risorse fornite attraverso il Piano Marshall e che tentava di esportare anche da noi la sua politica anticomunista (22).
Il Pane del Governo di Salvatore Abate e Francesco Nardini – Paolo Sorba Editore – La Maddalena
NOTE:
[1] S. CAPULA. Come gli alberi. Op. Cit., pagg. 83/84.
[2] Cfr. Diari manoscritti di monsignor Salvatore Capula, Archivio della Parrocchia di Santa Maria Maddalena, (d’ora in poi ‘Diari’). Anno 1952.
[2bis] Emilio Berengan. Capitano di vascello, nel 1952 prestava servizio al Comando Marina. Fu imbarcato sul sommergibile ‘Topazio’ con il quale, il 9 ottobre 1941, nelle acque davanti a Beirut, aveva affondato il trasporto inglese ‘Murefte’ di 691 tonnellate.
[3] Cesiro Impagliazzo era consigliere comunale DC e sindacalista del ‘Sindacato Libero’ (CISL), in rappresentanza delle maestranze dell’Arsenale Militare. Lo affiancavano, anche in seno al nuovo sindacato filodemocristiano, il giovane Donato Pedroni e Giovanni Campus.
[4] S. CAPULA. Diari, cit.
[5] Ibidem.
[6] G.C. TUSCERI: Il Governatore, cit.
[6bis] Cfr. N. COLUMBANO RUM, Preti di
Gallura. Sette ritratti di sacerdoti indimenticabili. Cagliari, 2001, Pag.
127.
[6ter] Ibidem. Pag. 107.
[7] G.C. TUSCERI: Il Governatore, cit.
[8] Ibidem
[8bis] Cfr. ‘Disposizioni generali per il servizio del Cantiere e dipendenze’. Edito dal Comando Base Navale. La Maddalena 1° giugno 1926.
[9] Testimonianza orale di Giuseppe Deligia. Sull’argomento della sudditanza del sindacato CGIL alle direttive del PCI cfr. anche: I. MONTANELLI – A. CERVI, l’Italia … cit. Pagg. 353 e ss.: “Nella CGIL il più accentuato dominio comunista comportava anche una più sfacciata adesione alle tesi politiche del PCI. Venivano indetti, se possibile con maggiore frequenza, scioperi troppo palesemente antigovernativi e antiamericani, si lottava contro ‘l’Europa marshallizzata’” (Pag. 355).
[10] Cfr, CAPO DI STATO MAGGIORE MARINA MILITARE (CSMM). Direttiva del 9 dicembre 1953.
[11] S. CAPULA. Come gli alberi, cit. Pag. 85
[12] Cfr. CSMM. Circolare del 19 Febbraio 1952.
[13] Ibidem
[14] Ibidem. A proposito delle eventuali azioni di sabotaggio va detto che il segretario del PCI Palmiro Togliatti, in un discorso tenuto alla Camera in data 10 luglio 1948 contro il Piano Marshall (quattro giorni prima dell’attentato alla sua vita), aveva pronunciato parole gravi che instillarono negli avversari l’idea che i comunisti sarebbero stati pronti ad una vasta azione di ribellione organizzata: “(…) Desidero dirvi, però, un’altra cosa: ed è che se il nostro Paese dovesse essere trascinato davvero per la strada che lo portasse alla guerra, (…) in questo caso noi conosciamo qual è il nostro dovere. Alla guerra imperialista si risponde oggi con la rivolta, con l’insurrezione per la difesa della pace, dell’indipendenza, dell’avvenire del proprio Paese! Sono convinto che nella classe operaia, nei contadini, nei lavoratori di tutte le categorie, negli intellettuali italiani, vi sono uomini che saprebbero comprendere, nel momento giusto, anche questo dovere”. Cfr. Atti parlamentari. Seduta del 10 luglio 1948 e I. MONTANELLI – A. CERVI, L’Italia …, supra. Pagg. 347-348.
[15] Ibidem
[16] Ibidem
[17] Testimonianza orale di Augusto Morelli. La lettera consegnata ai dipendenti diceva: “Notifica – Si comunica che è stato determinato di non rinnovare nei riguardi della S.V. il contratto semestrale di lavoro. Pertanto la S.V. cesserà dal giorno 1° Luglio 1952 dal prestare servizio alle dipendenze dell’Amministrazione M.M. (Firmato: Ten. Colonnello G.N. Direttore Giuseppe Bianca). La lettera per Morelli, datata 24 giugno, aveva il protocollo n. 13613. Identico tenore fu usato presso altri stabilimenti di lavoro, quale, ad esempio, l’Officina Riparazioni Automobilistiche di Genova. In questo caso il licenziato si chiamava Domenico Malerba (Cfr. Protocollo n. 8/R.P. del 24 giugno 1952). Da notare che le lettere inviate ai licenziandi del dicembre 1956 a La Maddalena avevano tutte la stessa dicitura (a parte la data della cessazione del servizio che era fissata al 1° gennaio 1957. Cfr. Protocollo n. 17080 del 22 dicembre 1956 diretta al dipendente Virgilio Licheri).
[18] Testimonianza orale di Pietrino Del Giudice.
[19] Cfr. N. KOGAN, Storia dell’Italia Repubblicana. Ed. Laterza, Bari 1990. Pag. 148: “Un pittoresco dirigente del piccolo partito repubblicano”. Cfr. Anche E. ORTONA, Anni d’America. La ricostruzione. Vol I, Bologna 1984. Pagg. 333-416. “Pacciardi si batte per il riarmo dell’Italia con gli aiuti americani”.
[20] S. CAPULA. Come gli alberi. Cit., Pagg. 83/84.
[21] G.C. TUSCERI, Il Governatore, cit, Pag. 110.
[22]L’UNRRA (United Nations Relief and Rehabilitation Administration) fu l’organo che distribuì gli aiuti americani. Alla presidenza dell’attività italiana di assistenza (A.A.I.) fu posto Ludovico Montini, fratello del futuro papa Paolo VI, che restò in carica sino al 1976. L’ente fu soppresso con D.P.R. del 24 luglio 1977 n. 617.
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