Bonifacio e la fame di terra
Da tutto questo movimento rimase separata Bonifacio, per quanto separati e diversi dai corsi si sentivano ed erano i bonifacini. Ma la enclave genovese non poteva restare indifferente ai fenomeni che impegnavano il suo retroterra, da cui ricavava grandissima parte della propria sussistenza alimentare. La ridiscesa dei muntagnoli alla piana fu, infatti, per Bonifacio un fatto problematico, determinando un rinnovato acuirsi dei rapporti della colonia genovese con i corsi ed esasperando la crisi di terra che da tempo aveva iniziato a soffrire.
Questi due elementi critici vanno intesi intrecciati tra di essi ma non interdipendenti, giacché non è stato l’uno conseguenza e/o causa dell’altro. La difficoltà dei rapporti dei bonifacini con gli altri corsi è un elemento classico delle analisi sulla società e la cultura della Corsica. Basta ricordare un documento che dava notizia del sergente maggiore Buttafuoco che nel 1685 “stava alla difesa de’ bonifacini contro i corsi”. La tensione si fece acuta sopratutto nella fase finale della dominazione genovese, quando la fedeltà a Genova, seppur affievolita, risultò antagonista del movimento antigenovese, che negli anni 1729-1769 si espresse anche con violenza di scontri armati. Non si trattava solo di indipendentismo, ma a questo sentimento si accompagnava un rivendicazionismo sociale, quasi tribale, sull’utilizzo del territorio, che si manifestò non solo nei confronti di Bonifacio. Non favorirono il rasserenamento degli animi molte decisioni del senato della Serenissima sull’assetto del territorio. In particolare, per esempio, quello ampio e di gran pregio come il feudo di Porto Vecchio, che nel 1640 viene trasformato in enfiteusi, che nel 1665 fu attribuito in feudo perpetuo al patrizio genovese Andrea Sauli, e che nel 1729 subì un ulteriore programma di infeudazione. Non a caso nello stesso periodo il villaggio soffriva il suo minimo storico demografico con 200 abitanti, mentre Bonifacio ne contava 2.400 e Levie 900.
Oltre le contingenti occasioni politiche di contrapposizione, la separazione tra bonifacini e corsi era, per così dire, strutturale. Quella bonifacina era una comunità chiusa anche per statuto, superba ed elitaria per cultura, arrogante per necessità. La non contaminazione era affidata fisicamente al divieto ai corsi di stabilirsi all’interno del presidio. Gli statuti civili e penali che hanno regolato la vita della colonia bonifacina lo hanno definito esplicitamente in tutte le edizioni che nel tempo sono state pubblicate dal senato genovese fin dal 1300. E anche nel ‘700 si sono registrate espulsioni di chi aveva violato la norma. La vita sociale, i matrimoni e le relazioni d’affari erano rigorosamente circoscritte al proprio interno e quando si aprivano all’esterno mai con i corsi. Le eccezioni erano rare e sempre oggetto di stigmatizzazione.
La rioccupazione della piana e della costa impegnò anche i territori su cui Bonifacio aveva ancora dominio. Sempre più ridotti per i vari interventi di Genova di spoliazione dell’immensa area che la Serenissima aveva dato in dotazione alla colonia al suo nascere, e che nella sua massima espansione andava dalla costa di Cilacia, ad ovest, sino alla pieve di Sacri, ad est. La riduzione dello spazio agricolo di Bonifacio avveniva a favore di nuove infeudazioni od enfiteusi, secondo la politica clientelare della Repubblica. Anche qualche notabile bonifacino, intuendo il valore sempre più strategico della proprietà della terra agricola, aveva chiesto e ottenuto il beneficio di privatizzazioni di aree demaniali a suo favore in quello stesso territorio, contro l’interesse comunitario. Quel che rimaneva dello spazio agricolo fu poi fatto oggetto di continue scorrerie da parte dei “discoli e malviventi”, che devastavano e depredavano, rendendo invivibile il territorio. La ristrettezza del territorio residuo e le difficoltà del suo uso ordinario spinsero i maggiorenti bonifacini, che da tempo avevano affiancato alla classica attività mercantile e armatoriale quella di allevatori e di produttori cerealicoli, a trovare altre terre utili per il pascolo delle loro bestie e la semina. Spinti da terra verso il mare, iniziarono a guardare alle isole delle Bocche, a partire dalle più vicine. Chiesero ed ebbero in affitto e in enfiteusi le isole di Cavallo e Lavezzi, e anche il piccolo scoglio di Rattino, più prossime all’estrema punta Sperono, dando seguito ai tentativi avanzati già negli anni ’30 del XVII secolo da altri due bonifacini, certi Oggiani e Viale, Non si conoscono tentativi di acquisire in affitto od in enfiteusi le altre isole, quasi a dimostrazione che non erano ritenute di dominio genovese. Nonostante ciò anche queste, le più meridionali delle Bocche e adiacenti alla Sardegna, furono utilizzate nella espansione alla ricerca di terra, e nacque la colonia maddalenina.
Oltre questo flusso migratorio verso le isole governato da Bonifacio, nello stesso periodo dalla Corsica sottana si spostò nella Gallura costiera, con movimenti spontanei, una buona quantità di pastori dell’Alta Rocca che non trovavano sistemazione nella piaghja, o che da essa dovevano comunque andar via. Per questo movimento, oltre la fame di terra di Bonifacio, vengono indicate cause sociali (faide familiari) ed economiche più complessive. In particolare si considera determinante il fenomeno dell’espansione dell’agricoltura, con la classica contrapposizione tra recinzioni per le coltivazioni e pascolo brado del bestiame. I pastori corsi parteciparono alla ripopolazione della costa gallurese, ritornando nei luoghi da cui i loro antenati erano stati cacciati dagli aragonesi oltre due secoli prima. Successivamente, alla migrazione pastorale si aggiunse una migrazione politica, determinata dagli eventi legati ai 40 anni della cosiddetta “rivoluzione corsa”, per cui gruppi appartenenti alle diverse fazioni, di volta in volta a seconda dei vari cambi di fronti, prendevano la via dell’esilio. Nella massa documentaria esaminata abbiamo trovato molti riferimenti a questo fenomeno. Il più significativo è senz’altro quello che si ritrova in un dispaccio da Cagliari al ministro Bogino dell’aprile 1767. Il delegato di Tempio aveva riferito già da un mese che molti bonifacini si erano rifugiati nei litorali galluresi per sfuggire all’attacco del partito dei paolisti. Lo stesso funzionario paventava, inoltre, che ne sarebbero arrivati molti altri e forse anche intere famiglie. Il riferimento appare particolarmente importante anche per il fatto che il viceré suggeriva alla corte torinese la possibilità di collocarli nelle isole, piuttosto che averli “errabondi e pericolosi” nell’interno del regno. L’operazione non fu attuata e le isole evitarono una immissione dagli esiti imprevedibili. Alla colonia di pastori corsi insediata da Bonifacio da quasi un secolo, ormai consolidata nelle relazioni e nelle regole organizzative e di vita, si sarebbe aggiunto, infatti, un forte gruppo di corsi fuoriusciti politici insediati dal regno sardo-piemontese, rompendo la omogeneità preesistente nelle isole.
Salvatore Sanna – Co.Ri.S.Ma