Garibaldi isolano
Questo è il periodo in cui Garibaldi stanzia a Caprera fino alla morte, avvenuta nel 1882. A Caprera il Generale ci arrivò per caso, giacché una volta giunto a Chiavari nel Regno di Sardegna, fu arrestato per l’ingresso illegale nel paese e imbarcato, dopo aver ottenuto di far visita alla madre e ai figli a Nizza, sul vapore Tripoli. La nave fece rotta su Tripoli ma il Bey era amico della Francia, e non voleva fastidi. Tornarono a Cagliari e in attesa di una destinazione definitiva il comandante, il maddaleninio Francesco Millelire convinse le autorità piemontesi a trasferire Garibaldi nella sua isola. Assieme al Generale c’erano anche Luigi Cuccelli e Maggior Leggero. Il 25 settembre 1849 sbarcarono a Cala Gavetta e ne giovarono tutti, Garibaldi mise le radici per il futuro ritorno, mentre Maggior Leggero e Francesco Millelire ne approfittarono per rientrare in casa. Il Generale fu ospitato in casa del governatore dell’isola, il tenente colonnello Falqui Pes, che lo trattò con ogni riguardo. Nell’isola, oltre i parenti di Leggero c’erano anche gli amici della famiglia Susini con i quali Garibaldi strinse da subito profondi legami. Ritornò poi in Gallura solo nel 1855 assieme ad un gruppo di amici italiani ed inglesi
A Caprera, quando meno si parlava di lui nel mondo, egli ebbe attraverso l’agricoltura l’iniziazione alla maturità e sua grande maestra fu la natura; l’ascoltava ogni giorno, annotandone scrupolosamente la lezione di esperienza in quei Quaderni agricoli, che rappresentano, sotto la loro apparente elementarità, una delle chiavi per comprendere l’uomo Garibaldi. Ed ecco segnati con diligenza il numero delle bestie, i contratti con i pastori, i conti correnti coi contadini dai quali si faceva aiutare, l’acquisto di nuovo bestiame e le morti a causa della “ferula” velenosa, le semine di patate, di fave, le regole per trapiantare, innestare e seminare. Negli anni seguenti scoprì il mondo straordinario delle api e divenne apicoltore, inaugurando un nuovo apposito Quaderno su cui segnava il numero delle arnie, la temperatura, il tipo di fiori da cui gli insetti raccoglievano il polline, la data; e poi a lato, con la sua ordinata grafia, annotava le operazioni fatte: ” Si ammazzano formiche – si mette acqua nelle api – 26 sciami a fine giugno – pochi fiori – una cassetta trovata vuota – si svuota l’apiario ogni giorno e si trovano sempre tarme e formiche – si continua ad alimentare le api con miele e si visitano le arnie povere – le api non trovano alcun polline – api al pascolo – api dentro per il freddo, la guerra mortale tra le api continua forse per essere le arnie troppo vicine…” e così via. Annotazioni attraverso le quali si vede come l’uomo entrasse gradatamente dentro i segreti della natura, passando da un generico amore quasi mistico, a una conoscenza delle leggi intrinseche di nascita e morte, dei processi di sviluppo, delle lotte di sopravvivenza,dei ritmi di crescita.
Oltre a questa disciplina “scientifica” dell’osservare, trattenere, dedurre, Garibaldi si sottopose a quell’altra, altrettanto plasmante, della fatica del lavoro: dall’alba al tramonto, insieme con i suoi, combatté la lunga battaglia di trar fuori campi dal granito, di vedersela con veli di terreno alti pochi centimetri sopra la roccia più dura e incoltivabile che esista, e zappando, sarchiando, lavorando spesso con le sole mani, riuscì ad averla vinta sull’impossibile, fino a ricavarne quel tanto che bastasse a sfamare le non poche bocche che vivevano con lui.
Egli apprese così la legge della mediazione, dove la conoscenza dei limiti è più importante di quella delle certezze, dove gli obbiettivi da raggiungere sono fatti in egual misura di mete ideali e di bisogni concreti, dove una battaglia si vince con qualità che ben poco hanno a che vedere con la giovanile e impetuosa baldanza dell’adolescente, quali la tenacia, la capacità di assecondare la natura e di durata dello sforzo.
Passava d gioia infantile dai violenti sforzi dello spaccare i massi granitici con la mazza, alla delicatezza con cui le sue mani sapevano posare nel terreno gli esili virgulti degli olivi, delle viti, delle fave; e un giorno riuscì ad ottenere uno spazio di Humus sufficientemente ampio per seminarvi il grano: il grano, il pane! E lo si vide percorrere avanti e indietro quel campo nuovo, compiendo il vasto gesto del seminatore con una luce sacerdotale negli occhi; aveva riposseduto in se quella millenaria dimensione del coltivatore che sola giustifica e spiega la necessità e la laicità del governare.
Prima di Caprera, Garibaldi non possedeva tale maturità. Aiutandoci con un’immagine classica, possiamo dire che nell’epopea brasiliana egli aveva vissuto la tappa dell’eroe puro, di Achille; nel successivo lungo esilio per mare aveva dovuto come Ulisse, passare attraverso l’iniziazione dei distacchi e, solo, senza compagni, povero e nudo, tornare in patria e trovarvi un regno occupato dallo straniero e diviso dalle avidità e dalle lotte intestine. Ora, attraverso l’agricoltura, egli viveva la tappa di Esiodo, conoscendo come la sofferenza sia mediatrice nell’uomo tra gli ideali astratti e la dura natura dentro e fuori di lui, per poter costruire un mondo a misura d’uomo governato più dalle leggi che dall’istinto epico, più dalla giustizia che dall’eroicità.
E che Garibaldi intendesse perfettamente tale unità tra il lavoro della terra e i suo ufficio d’uomo, è provato dal fatto che nei Quaderni agricoli egli annotava senza soluzione di continuità, anche le proprie idee e osservazioni politiche relative all’indipendenza e l’unità d’Italia. Così, ad esempio, alla fine del 1856, dopo annotazioni contabili sulle patate, sugli agnelli e sui fagioli, scrive addirittura il suo “programma italiano“:
“Bisogna fare un’Italia avanti tutto. L’Italia è oggi composta dagli elementi seguenti: Piemonte, repubblicani, murattisti, borbonici, papisti, toscani e altri piccoli elementi, che benché vicini al nulla non mancano di nuocere all’unificazione nazionale. Tutti questi elementi devono amalgamarsi al più forte o essere distrutti; non c’è via di mezzo! Il più forte degli elementi italiani io credo che sia il Piemonte, e consiglio di amalgamarsi a lui. Il potere, che deve dirigere l’Italia nell’ardua emancipazione dal giogo straniero, deve essere rigorosamente dittatorio. Poi ricomincia tranquillamente a segnare: “Gennaio 16 – una coppa di fave: £ 5,94…“.
Il “Programma Italiano” pare una trasposizione su scala politica della sua dura esperienza caprerina: scelta della soluzione più realizzabile (monarchia sabauda) al di sopra di ogni astrazione idealistica; eliminazione degli elementi nocivi (dissodamento del terreno da coltivare); visione unitaria del fine sulla base dell’elemento più saldamente costituito (il Piemonte come la coltivazione più compatibile); il potere deve essere rigorosamente dittatorio (conoscenza della tenacia e delle energie necessarie).
Con l’unico cenno di senso dell’umorismo che si conosca in Garibaldi, egli amava battezzare gli asini con i nomi dei suoi avversari politici; così si legge nei quaderni: “Un asino donatomi dal signor Collins: viene chiamato Pio IX… un altro asino donatomi dal signor Collins: viene chiamato Don Chico (Francesco Giuseppe)… due altri asini comperati da susini: vengono chiamati Oudinot e Napoleone III… etc.“
Durante il ritiro iniziatico di quegli anni, l’uomo di Caprera maturò anche il suo rapporto con gli altri uomini, che si sviluppò dalla cameratesca fratellanza dell’epoca brasiliana, così simile al sentimento unitivo delle “bande” degli adolescenti, al più elevato senso religioso della comunione umana. Ebbe l’intuizione dell’unità della vita: “L’anima mia è un atomo dell’unità dell’universo”, scrive nei Ricordi e Pensieri. Vide un unico Filum esistenziale percorrere i rosei graniti di Caprera, la trionfante vitalità della macchia, gli animali e se stesso; quindi gli uomini tutti. L’uguaglianza tra gli uomini prima di essere un diritto, fu per lui la propria individuale conquista d’esser uomo; infatti non era intesa come promiscuità, ma come individuazione, identificazione; non dava confidenza ad alcuno, neppure ai più intimi: li amava e quindi li eleggeva al loro ruolo civile; con pochissime persone arrivò al “tu”, donne o uomini che fossero. Ma chiunque venisse a contatto con lui aveva l’ineguagliabile emozione di essere l’agente di se stesso.
Non a caso tra i primi ad accogliere Garibaldi nell’intimo della loro riservata e selezionatrice realtà sociale, vi furono i pastori di Gallura; egli si recava spesso a caccia sulla costa sarda accompagnato dai Susini, da Menotti e da alcuni dei suoi compagni e visitava ogni volta gli stazzi.
Suo grande amico fu, fin dal tempo in cui il Generale stava scegliendo il luogo ove vivere, Ignazio Sanna, un agiato pastore che aveva il proprio regno a “Li Muri”, presso Arzachena. Li presentò Pietro Susini e subito tra loro si stabilì la corrente di un’intesa profonda, che durò poi tutta una vita e che si espresse nel rituale antichissimo dei re – pastori: si scambiarono i doni delle rispettive terre, si offrirono a vicenda di essere padrini e testimoni di nozze. Quando l’uomo di Caprera arrivava a “Li Muri”, la moglie di Ignazio, Maria Prunedda, gli faceva gran festa, come la regina del clan all’ospite venuto dal mare: faceva uccidere il migliore agnello e, aiutata dalle donne, lo cucinava con ogni cura, usando i legni odorosi del ginepro e del lentischio, e insaporendone le carni con le più buone essenze della macchia. Poi gli venivano offerti i prodotti migliori dello stazzo: i formaggi e le ricotte di pecora e capra, il latte appena munto, le prelibate conserve dei frutti di quelle benedette terre selvatiche.
E mangiavano intorno al camino, su panche coperte da pelli di capra, dialogando delle cure dei campi e della pastorizia, di caccia, ma anche delle famiglie loro e di quella più grande famiglia, l’Italia, che prima o poi bisognava pur fare. Da quell’incontro, altri seguirono e si è perso il conto di quanti pastori pastori di Gallura Garibaldi sia stato “compare”.
A poco a poco la fama delle gesta d’America e della difesa di Roma si stemperò e si fuse nei sardi con l’evidenza quotidiana che essi avevano della bontà e della semplicità dell’uomo di Caprera. Adesso, quando andava a La Maddalena o in Gallura non v’erano dimostrazioni clamorose di giubilo, ma reverente familiarità, il rispetto che si deve a un patriarca buono. I suoi atti compiuti a Caprera si dilatavano subito nella dimensione dell’aneddoto mitico e come tali si divulgavano nel popolo: è uscito di notte per cercare un agnello sperduto e poi lo ha riscaldato nel proprio letto…! Ha sgridato i bambini perché strapazzavano una pianta…! non vuole che si tengano gli animali legati o in gabbia…! E’ estremamente parco a tavola…! Ha vestito un ignudo…! E’ povero…!
Queste testimonianze evangeliche si fondevano con l’immediato e irresistibile fascino che emanava dalla sua persona quando lo si avvicinava. non’era alto ed era piuttosto tozzo, le gambe un pò arcuate tipiche dell’uomo di mare e di chi ha molto cavalcato, il torace robusto e muscoloso sul quale si innestava il collo corto ma non grosso e la stupenda testa . Barba e capelli biondo – rame, nobili e fini i lineamenti, ampia la fronte; e poi gli occhi: marrone, vivacissimi e profondi, nei quali v’erano una determinazione e una concentrazione palesi, scoperte, dirette all’animo dell’interlocutore. Nel suo sguardo non v’era mai alcunché di sottinteso, di ambiguo, di non detto: dolcissimo sempre, se doveva esprimere collera era collera, dolore era dolore, gioia era gioia piena, comando era comando, amore era amore senza condizione. La sua voce era armoniosa, dolce, profonda; cantava spesso con bella intonazione baritonale e recitava poesie con tanto sentimento che anche gli incolti lo ascoltavano affascinati. Aveva mani molto belle, nobili, forti, che nel discorrere muoveva poco e lentamente. Vestiva sempre nella stessa guisa: calzoni grigi legati in vita con una cinghia, camicia rossa, il poncho o una giacca da caccia, cappello a larghe tese oppure la tipica papalina con la quale fu poi ritratto in tanti quadri, stivali ferrati.
Ma non è sufficiente il tratto della sua persona o il suo abbigliamento per spiegare il fascino di Garibaldi sui singoli e più ancora sulle masse; esso doveva consistere in un fluido complesso di purezza, di lealtà e semplicità, di cosciente volontà e determinazione che, nella misura in cui progrediva il suo sviluppo interiore, ne faceva l’uomo in cui credere, l’uomo in cui affidarsi, l’uomo del destino, il “mandato”. Stando alle innumerevoli testimonianze, chi lo incontrava aveva la sensazione di trovarsi in presenza di un essere lungamente atteso, già conosciuto “dentro”.
Quel che in America fu l’estro di una comunicativa immediata, a Caprera in pura conoscenza e accettazione di una missione da compiere, e quindi il suo sguardo era cosciente del dolore di tutti, della fatica, di limiti, ma anche dei funi cui tendere, delle possibilità, delle qualità.
Alla morte del fratello Felice, Garibaldi poté disporre di una quantità di denaro sufficiente ad acquistare del terreno e Pietro Susini lo convinse a comprare un pezzo di terra nell’isola di Caprera. L’idea fu così bene accolta che Garibaldi oltre a comprare dai coniugi Collins, per ingrandire la proprietà, acquistò subito un apprezzamento di terra anche dai Susini e dai Ferracciuolo, i quali possedevano una casa-ovile che finì per costituire la prima dimora del Generale. Fu dopo la morte dei coniugi Collins, proprietari della metà dell’isola, che i suoi amici Inglesi, attraverso una sottoscrizione bandita sul Times, ne acquistarono per lui il resto. A Caprera Garibaldi fu agricoltore e allevatore, ma rimase comunque al centro di una fitta rete di rapporti a livello nazionale, europeo e mondiale con personalità di rilievo, statisti, uomini politici ed intellettuali illustri. Fu nell’isola di Caprera che sposerà Francesca Armosino una popolana giunta nell’isola per accudire i figli di Teresita Canzio, figlia di Garibaldi e Anita. In virtù delle sue qualità di brava massaia e di donna amorevole e premurosa, Francesca seppe subito rendersi utile ed indispensabile all’eroe, ormai malato e costretto su una sedia a rotelle dall’artrite reumatoide che lo affliggeva. Francesca fu altrettanto importante dal momento che partorì 3 figli: Clelia, Rosa e Manlio ai quali Garibaldi fu, come per tutti i suoi figli, particolarmente devoto. A Caprera Garibaldi muore il 2 giugno 1882, si racconta che dalla finestra aperta entrarono due capinere e il Generale non volle scacciarle pensando che fossero le anime delle sue due figlie venute a prenderlo. Il corpo non fu bruciato sotto la macchia tipica di Caprera secondo la volontà di Garibaldi, ma fu imbalsamato e il funerale dell’eroe anziché riservato e umile così come da lui richiesto, fu fastoso e autorevole. ..Forse è per questo che un forte vento e un mare in burrasca imperversarono sugli accorsi, costringendoli ad una fuga frettolosa o a pernottare in giacigli d’occasione…
L’insolito vestiario di Giuseppe Garibaldi ha certamente segnato un’epoca; caratterizzato da uno stile originale, ricco di contaminazioni leggendarie e senza dubbio molto pittoresco, ha ispirato, con i suoi colori vivaci, una vastissima produzione iconografica. Dalla testa ai piedi, l’Eroe ha sempre selezionato con cura ogni singolo capo: in America del Sud il Generale subì il fascino romantico dei gauchos, facendo suo il loro tipico abbigliamento: poncho bicolore e fazzoletto al collo. E poi ancora, la leggendaria camicia rossa!!! Si narra che Garibaldi, a corto di denaro, abbia approfittato dell’occasione che gli offriva una locale ditta manifatturiera di acquistare a basso costo una fornitura di camicie destinate ai macellai di un mattatoio argentino, i cosiddetti saladeros. Nata per caso, la camicia rossa, diventerà in seguito uno dei simboli più riconoscibili del #Risorgimento e dell’Italia unita. Non tutti sanno però che il nostro eroe la indossava anche a casa, a Caprera durante il duro lavoro nei campi.