La Maddalena AnticaStorie e Memorie

Gianni Cesaraccio

Così ho conosciuto Giovanni Cesaraccio

A quel tempo, i primi anni ’70, l’avevo infilata con l’archeologia: mi incuriosiva troppo.

Era successo che un mio vecchio compagno di liceo si era iscritto all’Università di Cagliari, al corso di Antichità sarde di Giovanni Lilliu, e, quando lo andavo a trovare, a Bassacutena, mi passava appunti e dispense, e piano piano m’era presa la fissazione di saperne di più.

Così, tra un rilievo e l’altro, tra una misurazione e l’altra, nell’alta e nella bassa Gallura, di circoli, mura fortificate, dolmen, nuraghi, m’ero fatto quasi una cultura. E m’azzardavo persino a discutere del vaso campaniforme, della cultura di Ozieri, dei circoli galluresi, di scarnificazione e di sepoltura, della valenza vivificante dell’ocra rossa!

Poi, in aggiunta, come se non bastasse, io e il mio vecchio compagno di liceo, avevamo deciso di avviare nostre campagne di scavo, assolutamente abusive e illegittime, roba da galera, tra tafoni e ripari sotto roccia.

Insomma, ci eravamo fatti tombaroli.

Ma per sete di cultura, si capisce!

Di questo parlavo appunto con un altro amico a Maddalena, che si era mostrato assai incuriosito: lì per lì non capivo.

Io ci ho un amico che si occupa di queste cose, gli interessano molto, magari dovresti incontrarlo.

Ah, sì?, e chi è? Lo conosco?

Difficile che lo conosca…

E perché? A Maddalena io conosco tutti!

Sì, ma lui non scende mai giù.

E perché?

Perché se ne va in giro in campagna, a Maddalena, a Caprera, nelle isole. E giù non cala mai.

Ah? e come si chiama?

Giovanni Cesaraccio.

Cesaraccio? Ma io al liceo ci avevo un Cesaraccio, un anno avanti a me…

Il fratello. Questo è Giovanni.

Beh, fammelo conoscere, no?

Non è così semplice, è uno che sta molto per conto suo, non frequenta nessuno, non si fida tanto se non è bene sicuro.

Boh, vedi tu. Diglielo magari…

Per dirglielo glielo dico, ma non so come la piglia.

Eh, come la piglia la piglia!

E così, una mattina tiepida, sarà stato maggio, chissà adesso, da Maddalena siamo partiti in macchina, con la mia vecchia 500, io, Tonino e Gianni, Gianni Cesaraccio, si capisce, e chi se no?, direzione: le campagne tra Bassacutena e Luogosanto.

Gianni, nascosto dietro la sua barba ispida, fulva, aveva uno sguardo tenero che lo tradiva, un sorriso dolce che diceva più di ogni parola.

E’ vero: discorsi pochi, molto pochi, però ascoltava tutto, pure le mie cazzate. Intanto aveva un’attenzione animalesca per tutto quello c’era intorno, dalle rocce alle piante, ai segni per terra, ai muschi, ai licheni.

Respirava la natura, il paesaggio, ne era permeato, erano una cosa sola, e la sensazione precisa, netta, l’ho avuta quando si è chinato a raccogliere un sasso che io non avevo neppure visto.

Lo ha sfregato tra il pollice e l’indice, l’ha guardato appena.

E’ una punta di freccia.

Questa?

Sì, vedi la forma lanceolata? Guarda i bordi scheggiati.

Bella, accidenti!

Tieni, prendila.

La prendo io? Ma se l’hai trovata tu! E’ tua!

No, a me gli oggetti non mi interessano: prendila tu, se ti piace.

Ecco, Gianni era così: gli interessava sapere.

Gli oggetti, i reperti, il loro valore veniale, non erano cosa sua, non gliene importava niente, non glien’è mai importato niente.

Perciò quella punta di freccia adesso ce l’ho io, da qualche parte, insieme a corniole, paste di vetro, ametiste, che mi regalava sempre.

Gianni, ma sei matto?

Piglia, piglia! Cosa vuoi che me ne freghi a me?
Sono pietre, solo pietre.

Quella spedizione archeologica si concluse infine al ristorante della Capannaccia.

E lì, un santo che no!, pagava lui per tutti, e basta!

Allora ho imparato a conoscere Gianni e ad amare la splendida creatura che era, e lì è nata la nostra grande amicizia, forte, sincera, che è durata fino a quando non se n’è andato.

Eh, sì, perché Gianni se n’è andato, noi non sappiamo dove, ma certo dove sognava lui.

E io pure sogno che lui ora sia, lì dove lui sognava.

La nostra amicizia, di randagi che si annusano per strada, via via è cresciuta, si era fatta frequentazione clandestina, confidenza intima.

Abbiamo cominciato anche a scriverci, io studiavo a Roma, e lui, con il suo solito garbo, mi chiedeva fotocopie di articoli e relazioni su minerali dai nomi astrusi e impossibili, ancora mi ricordo i feldspati, e altri nomi impronunciabili.

Ma cosa ci farai, cosa ne capirai di tutte queste cose strane, Gianni?

mi chiedevo tra me e me, entrando con la sua lettera in mano all’Istituto di Geologia de La Sapienza, a Roma.

Ma poi la sua felicità, la sua gioia per quelle che per me erano solo pagine incomprensibili, quando gliele portavo a casa sua, d’estate, diventavano le mie, e allora eravamo solo due bambini contenti.

Poi sono cominciate le frequentazioni, rigorosamente notturne, perché Gianni era un mangone, come me, solo che lui non usciva mai di casa.

Prima di salire da lui, dopo cena, a ogni modo dovevo fargli una telefonata, perché magari, all’ultimo momento, poteva essere piombato un rompiballe di qualche Università, cosa che lui detestava.

L’incognita più grande però era un’altra, e molto seria: le coliche renali, di cui soffriva.

E tante e tante volte abbiamo rimandato.

Una sera poi mi fa:

Oh, André, lo sai che le coliche non ce l’ho più! Sparite!

Come sparite? Così, all’improvviso?

No, sa’, quando vado in giro in campagna, e trovo una vadina, mi fermo a bere e se c’è la terra caccavina, eh, l’argilla!, me la bevo tutt’assieme, con la terra.
L’ho imparato da mio nonno e poi da mio babbo, sono loro che mi hanno insegnato a stare in mezzo alla natura, a rispettarla. E allora, mi bevo questa cosa, poi una volta, vado a pisciare e sento un dolore fortissimo, André, non puoi immaginare!

E mi sono pisciato pure i calcoli, e adesso non ce li ho più!

Lo vedi, ah!, cosa fa la natura?

E sei guarito?

E sono guarito! Ma quali medici! ma quali medicine!

Quante volte l’ho invitato a cena a casa mia, a piazza Caprera!

Non c’è mai venuto.

Ma cosa ti costa, ahiò? Cali basso basso da via Agostino Millelire, sali le scalinette della centrale vecchia e sei ‘n casa mea, qua’ ti vidi? Qua’ poi incuntrà a tardi? O sennò alzo a prenderti io, in macchina.

No, miga per artru André, a parti che nun sciortu mai…

Ma qui nun devi sciurtì: devi vinì und’è me e basta, a casa mea!

André, nun mi piaci ‘o to’ habitat!

Parlava di Cala Gavetta, di piazza Barò, dello Spiniccio…
O sennò le volte che l’abbiamo invitato a Roma, io e mia moglie di allora, ché intanto m’ero sposato!

Ma cusa ghi voli! T’imbarchi subr’a Tirrenia e ti vengu a piglià ghjè a Civitavecchia, cu’ a macchina!

Ragazzi, nun ci semu capiti! Ma io ci ho molto da fare! A me, per studiare una tana di formiche, non mi basta un anno! Non mi posso muovere! Tanto le fotocopie me le porti tu, cosa ci vengo a fare in quel casino?

Allora sei pure un bastardo! Quisti so’ l’amici?

Era scoppiato a ridere, ma io ero stato colpito, al cuore, per sempre, vitalmente.

Un anno per studiare una tana di formiche?

E allora che senso ha mai il tempo, eh?, la fretta, cos’è che è dentro di noi, quali percezioni, e cosa fuori di noi, indotto da altri, da ragioni estranee al nostro sentire più profondo, più vero?

Ma dove mai sto andando io, dove stiamo andando tutti noi?

Forse un anno dedicato alle formiche sarà magari perduto per cause che non ci appartengono ma è un anno guadagnato, per noi…

Forse era la domanda di allora, oggi so la risposta.

La sua gioia più grande però era un’altra, e me la confidò.

Io mi fermo sempre a Cala Gavetta, davanti alle barche dei pescatori, a vedere chi esce.

– Undi è che sei andendi?

E quando a Spargi, e quando a Santa Maria, mi dìgunu.

Mi lu dai un passaggiu?

Ahiò, aizz’a bordo! però ghjè tornu stasera!

No, tu lascemi là, nun ti preoccupà! ‘O ritornu m’arrangiu.

E così una volta mi sono fatto sbarcare a Santa Maria, ci avevo lo zaino e tutto.

Quando s’è fatto buio mi sono inziffato in una grotta dove io lo sapevo che era pieno a nidi di guàje, eh, la berta maggiore.

Tu non ti puo’ immaginà quando so’ entrato, i zicchirri! i scarmenti!

Ché la berta maggiore fa un lamento fa, straziante, sembrano bambini che piangono.

Come so’ entrato hanno attaccato tutt’insieme, mi sono venuti i brividi, gua’!

Mi sono fermato, respirando piano piano, e loro a quel punto, un poco alla volta, hanno smesso.

Mi avevano accettato fra loro, capisci André, mi avevano riconosciuto! ero uno di loro!

E mi sono messo a dormire con loro.

Gianni, amico mio perduto, che mi hai lasciato solo, sono certo che tu ora sei in qualche isola, tra le guàje, che avranno per te tutto l’amore che meriti.

Tu sappi, però, che io le invidio, le invidio molto.

Andrea Mulas