Attesa di guerra nell’Arcipelago
Il 28 luglio del 1914 l’Austria-Ungheria dichiarò guerra alla Serbia; il 1° agosto dello stesso anno la Germania dichiarò guerra alla Russia e il 3 agosto alla Francia; Nella stessa giornata del 3 agosto 1914 l’Italia dichiarò la propria neutralità rispetto alle guerre appena iniziate. Italia che, per un trattato difensivo (Triplice Alleanza) era alleata con Austria-Ungheria e Germania. Il 4 agosto la Gran Bretagna dichiarò guerra alla Germania e nella stessa giornata la Germania invase il Belgio e il Lussemburgo. Come se non bastasse il 23 agosto il Giappone dichiarò guerra alla Germania e il 23 novembre l’Egitto alla Turchia. Il 25 novembre il Regno d’Italia invase Valona, in Albania.
Era iniziata la Prima Guerra Mondiale.
Ma come venne vissuto quel 1914 a La Maddalena? Da Roma giungevano, attraverso ciò che scrivevano i giornali e le notizie che trapelavano dagli ambienti militari, notizie spesso contraddittorie, e tali affettivamente erano, sulle scelte che avrebbe fatto il Governo. La prima contraddizione, seguita alla dichiarazione di neutralità di meno di tre mesi prima, era stata infatti l’occupazione della cittadina albanese.
Nell’ottobre del 1914 l’Italia si trovava, a guerra europea iniziata, facendo parte della Triplice Alleanza, potenzialmente soggetta ad attacco francese, e in tal caso la Piazzaforte di La Maddalena, per la sua posizione geografica, era in prima linea, essendo separata dal “nemico” dalle poche miglia di mare delle Bocche di Bonifacio.
Ed in funzione antifrancese la Piazzaforte era stata costruita. Dal 1887 erano state realizzate ben 17 fortificazioni anti nave, tra le isole di Maddalena, Caprera, Spargi e la costa dell’Isola Madre, oltre al Porto-Arsenale di Moneta. E proprio nel 1914 era stata terminata e inaugurata l’opera fortificata Regia Batteria di Carlotto (M4). Ma che dall’inizio del conflitto le cose fossero come prima non era precisamente così. Intanto cominciarono ad intensificarsi il passaggio a largo di navi militari come anche dei primi sommergibili germanici. E venne incrementa, in quegli ultimi mesi del 1914, la presenza a terra di militari della Marina e dell’Esercito, fino a raggiungere il numero di 1500 uomini. Nelle banchine e alla fonda c’erano la corazzata Sardegna, il cacciatorpediniere Fulmine, l’esploratore Levante, la nave scorta Mafalda, armata per la caccia ai sottomarini, oltre ad un nutrito numero di naviglio minore, con i loro numerosi equipaggi che si aggiungevano a quelli a terra.
Gli armamenti inoltre, in quei mesi del 1914 e nei primi del 1915 furono rafforzati coll’arrivo di alcuni potenti cannoni antinave. Il 1914 come metà del 1915 fu veramente un periodo di apprensione, d’incertezza e di attesa del nemico.
“Deve essere tenuto presente che la possibilità, per la flotta, di giovarsi di La Maddalena, è d’importanza vitale per la difesa marittima dello Stato, perché è questa la sola posizione che consente, per doppia uscita e per la sua ubicazione, di contrastare il dominio del Tirreno e del Mediterraneo occidentale contro una flotta superiore”. Così scriveva della Piazzaforte di La Maddalena, il 3 settembre del 1913, il Capo di Stato Maggiore della Marina.
E aggiungeva: “Numerose informazioni concordano nel far ritenere che sia nelle mire della Francia di fare un’azione rapida e vigorosa contro Maddalena: Si ha notizia che si accrescono i contingenti di truppe nel Sud della Corsica, e che ivi si lavora a preparare punti di appoggio per le forze navali”. Queste notizie all’epoca, ovviamente, erano riservate, ma il clima che militari e civili vivevano nell’Arcipelago rifletteva queste parole. Anche perché notizie “di contrabbando” che giungevano soprattutto da Bonifacio le confermavano. E proprio nel 1914 vennero installati, in alcune fortezze, i moderni e potenti obici Amstrong, che potevano battere il mare, a 360°, fino ad una distanza di 14 chilometri. Tanto appariva imminente l’attacco che era stato redatto un piano d’evacuazione della popolazione, un piano imponente di trasferimento nel centro della Sardegna, in poco tempo, di quasi 10.000 persone.
L’Italia, allo scoppio delle ostilità si era dichiarata neutrale (3 agosto 1914) ma il 25 novembre 1914 una spedizione militare, poi denominata Corpo di Spedizione Italiano in Albania, aveva occupato la cittadina di Valona. Lo scopo era chiaro, contrastare le forze austro-ungariche in quel territorio. Operazione che, da quelli che formalmente erano ancora i nostri alleati, venne vista come atto di ostilità nei loro confronti. Se a Roma infatti, parte delle forze politiche erano ancora favorevoli alla neutralità cresceva giorno dopo giorno la pressione degli interventisti, chi a favore a fianco gli Austro-Ungarici, e chi contro. L’occupazione di Valona fece intravvedere però su come si stesse orientando il governo alla cui testa c’era Antonio Salandra, il quale, si seppe dopo, fin dallo stesso agosto, aveva avviato trattative segrete proprio con la Francia, la Gran Bretagna e la Russia (Triplice Intesa), assicurando l’ingresso in guerra dell’Italia contro Germania e Impero Austro-Ungarico, in cambio della stessa Valona e dell’Albania, della Dalmazia, dell’Istria e del Trentino.
Eppure a La Maddalena, i maddalenini, nonostante la consapevolezza di essere in prima linea, il rischio di vedersi assalire, bombardare, invadere, in quegli ultimi mesi del 1914, a guerra iniziata, continuavano a lavorare; gli scalpellini di Cava Francese, gli operai dell’Arsenale, i pescatori, muratori e manovali impegnati nelle realizzazioni e completamenti delle opere militari, come di quelle opere civili e pubbliche che rendevano davvero Piccola Parigi quest’Isola. Cosa riservava il futuro? Nessuno allora poteva prevederlo.
Ma se, in quel lontano 1914, un maddalenino doveva recarsi a Tempio, sede di tribunale e fiscale, o a Sassari, in questo caso soprattutto per motivi di salute, come faceva? Non era stata ancora costruita la ferrovia (lo fu nel 1933) non rimaneva che “salire” a piedi e con qualche passaggio col “carro a buoi”, il calesse e la “diligenza”. Da Palau già da qualche anno partiva ogni giorno la Fides, società che aveva acquistato un torpedone (capace di trasportare 16 passeggeri) che in oltre 2 ore (in salita) raggiungeva Tempio mentre impiegava 1 ora e ½ da Tempio a Palau (in discesa). Quasi 4 ore ci volevano poi per raggiungere Sassari. In tutto circa 6 sei ore, per strade impervie e strette.
Fermo restando che, se si fosse trattato di militari e loro familiari, a La Maddalena c’era l’ospedale militare e da pochi anni l’Ospedaletto Garibaldi, voluto da Costanza, moglie di Ricciotti Garibaldi, l’alternativa per i civili (almeno i benestanti) erano l’ospedale di Cagliari (raggiungibile con i postali), o quelli di Genova, prendendo la nave da Golfo Aranci o dalla stessa Maddalena, con viaggi però bisettimanali o tris.
Il collegamento col piccolo borgo di Palau avveniva tramite barconi, come anche con Terranova (Olbia) e Golfo Aranci. A partire da 1908 le caserme militari cominciarono ad essere servite dalla luce elettrica fornita da generatori, inizialmente a vento, e dal 1912-13 anche alcune zone “civili” del centro storico lo furono. L’acquedotto non era stato ancora costruito pertanto, nelle case come negli uffici pubblici, il preziosissimo liquido veniva attinto dai pozzi e dalle cisterne. Quasi tutte le case ne erano dotate, come anche alcune piazze: una tra tutte quella di Piazza di Chiesa, esistente tutt’oggi. C’erano anche le “vadine” e le fontane, ma di acqua non ne avevano di certo d’estate … Direttamente sfociante a mare era il sistema fognario in “minimissimo” embrione.
Per tutto il resto, c’erano i pozzi neri, per chi aveva il water a casa. Ma la maggior parte di queste ne erano sprovviste e buona parte della popolazione si serviva di vasi (non raramente svuotati in strada) o faceva i propri bisogni all’aperto.
Naturalmente si verificò più di un problema igienico-sanitario. Il censimento del 1911 aveva registrato una popolazione di 8.809 residenti, 776 in più rispetto a quello del 1901. Dieci anni prima (1891) la popolazione era di 6.798 residenti, ben 4.907 in più rispetto al 1881, quando era di poco meno di 2000 persone.
Tra la fine dell’800 e i primi anni del ‘900, in conseguenza del potenziamento della Piazzaforte, i consistenti flussi migratori, sia dalla Gallura (e resto della Sardegna) che dalla Campania come anche dalla Toscana, stavano provocando l’imbastardimento del dialetto maddalenino, d’origine corsa (e genovese). E, a seconda della via o del quartiere nel quale, un ipotetico passante si fosse inoltrato, avrebbe sentito abbondantemente parlare in napoletano-ponzese, toscano-elbano, genovese/spezzino, logudorese, gallurese, barbaricino, e sempre meno in isulanu.
Il 25 novembre del 1914 le truppe italiane avevano occupato la città di Valona, in Albania, segnale inquieto di un possibile, imminente intervento in quella che ancora non si sapeva fosse la Prima Guerra Mondiale. Il 9 settembre la Germania era stata pesantemente sconfitta sulla Marna mentre il 9 il Giappone aveva attaccato la Cina. Il 28 ottobre l’impero Ottomano aveva attaccato la Russia nel Mar Nero e il 6 novembre l’Egitto aveva dichiarato guerra alla Turchia.
A La Maddalena si vivevano quei mesi di neutralità con apprensione e c’era chi, non senza motivo, la notte aveva gli incubi di attacchi francesi provenienti dalla Corsica. E che Maddalena fosse “punto sensibile” lo confermava il fatto che fosse ancora considerata il baluardo della difesa della Sardegna e di conseguenza, nazionale.
Per questo, oltre alla Regia Marina, importanza aveva la presenza del Regio Esercito (con reparti di Fanteria, Artiglieria e Bersaglieri), specialmente quello dislocato nel nord Sardegna che, alla difesa della Piazzaforte di La Maddalena doveva concorrere, ad ogni costo, Esercito che aveva i propri comandi a Ozieri e soprattutto a Tempio.
Dai primi anni del 1900, a Caprera-Stagnali, era acquartierato il “Goito”, XXV Battaglione del 3° Reggimento Bersaglieri. Diversi ufficiali e bersaglieri del Battaglione “di Stagnali” avevano partecipato alla campagna di Libia e alla guerra Italo-Turca del 1911, e alcuni vi erano morti.
Dagli inizi del secolo esisteva inoltre la così ancor oggi chiamata “Artiglieria”, il Comando Autonomo della Brigata Artiglieria da Costa della Sardegna, oltretutto con un’attrezzata “piccionaia”, allevamento di colombi “militarizzati”, utilizzati per l’invio e il ricevimento di dispacci. Di fronte a Isola Chiesa, infine, era operativa la caserma che ospitava il 59° Reggimento Fanteria.
Nel 1914, nella cava di granito di Cala Francese lavoravano un centinaio di persone. La Società Esportazione Graniti Sardi, fondata a Genova nel 1901, in quei primi anni del ‘900 aveva due commesse importanti: la costruzione del bacino di Malta e la pavimentazione di via XX Settembre a Genova. A queste se ne aggiunsero molte altre, in Italia e all’estero, ma anche alcune delle costruzioni pubbliche furono realizzate col granito di Cava Francese.
Dal punto di vista dell’occupazione locale, erano molti gli operai impiegati nelle cave, maddalenini, galluresi, toscani, liguri e piemontesi, molti di essi giunti per la richiesta di manodopera necessaria per la realizzazione delle opere militari.
Da una ventina d’anni, a Moneta, era entrato in funzione il Regio Arsenale Militare che attorno al 1914 contava circa 120 occupati e 200 forzati. In quella Maddalena “operaia”, dove si diffondevano le idee socialiste, operavano due società di mutuo soccorso: La Società di Mutuo Soccorso dell’Isola di La Maddalena e la Società di Fratellanza Elena di Montenegro. Ma c’era già anche l’assistenza cattolica, ad opera delle suore “francesi” che dal 1903 avevano aperto la Casa San Vincenzo.
Vi erano tre medici, i dottori Giacomo Gambarella, Angelo Falconi e Raniero Nani. E due farmacie, la Loriga e la Manconi. Come anche tre “levatrici”, sempre molto occupate. La popolazione di La Maddalena era infatti molto giovane, essendo in gran parte formata da lavoratori immigrati e da militari, ed esuberante, e i costumi risultavano piuttosto rilassati e disinvolti.
Il parroco dell’epoca, Antonio Vico, lamentava pochi matrimoni e molte unioni “illegittime”, come allora si diceva. Le famiglie, fossero, esse “legali” o meno, erano sempre numerose, con molti fratellastri e sorellastre, per via delle frequenti morti dei genitori e delle nuove unioni. Ma c’erano anche tanti figli di “N.N.” sebbene l’aborto fosse una pratica piuttosto diffusa.
Una “istantanea” dell’epoca, la scattò nel 1905 Padre Manzella in “Missione al Popolo”. La popolazione, scrisse nelle sue relazioni, era “eterogenea, costituitasi da persone provenienti da varie parti dell’Isola e dal Continente”. Nell’Isola “gli opifici governativi sforzano i poveri operai a un illegale e crudele lavoro festivo” e i “numerosissimi militari mantengono la solita parte del malcostume”. “Massoneria, valdismo, increduli e non praticanti, formano i diciannove/ventesimi della popolazione”.
Popolazione che al 31 dicembre del 1914 era di 11.547 abitanti, di cui 9.719 civili e 1828 militari. Questi ultimi erano pari al 15% del totale.
Fu forse nel 1898 che a La Maddalena cominciò a muovere i primi passi una società sportiva ma fu nel 1906 che nacque ufficialmente la società di Ginnastica Ilva, i cui colori sociali erano quelli dello stendardo del paese, bianco e celeste. Presidente era il geometra Antonio Cappai, vice presidente l’impiegato Pietro Sabatini, segretario Gisberto Moriani, direttore tecnico Giovanni Mundula.
La società, che aveva come “maestro con abilitazione” Enrico Balata, praticava ginnastica, podismo, ciclismo, nuoto e giochi vari, tra cui il calcio. Il medico sociale era il dr. Getulio Concorsi. La sede era a Cala Gavetta, in un già vecchio, allora, magazzino, oggi ristrutturato e destinato a sala conferenze e manifestazioni varie, chiamato, non a caso, ex Magazzini Ilva. I soci erano 146.
Nel 1914, alla vigilia della Prima Guerra Mondiale, La Maddalena aveva una società sportiva (in Sardegna poche città ne avevano, in Gallura solo Tempio) piuttosto attiva, e con veri e propri campioni, come Salvatore Mura, un atleta eccezionale, particolarmente dotato per gli esercizi ginnici, tra cui la specialità degli anelli, che disputò gare, vincendone pure, a La Spezia (città militare come La Maddalena), Venezia e Genova. Anche il podismo andava per la maggiore. Alle gare partecipavano, oltre agli atleti maddalenini, anche giovani militari delle caserme e delle batterie, provenienti da diverse parti d’Italia.
Si disputava anche la Mezza Maratona, da Piazza Renella (Piazza Comando) a Punta Rossa e viceversa. Lungo le stesse strade e viottoli, tra Maddalena e Caprera, si disputavano anche le gare di ciclismo, con le autorizzazioni, non sempre concesse, delle autorità militari, divenute, nel 1914, in generale più rigide dopo lo scoppio delle ostilità in Europa, e nella situazione di attesa e incertezza che si viveva nella piazzaforte militare.
Qualche gara fu disputata verso ponente, fino alla Batteria di Nido d’Aquila, e la faticosissima e pericolosa scalata di Guardia Vecchia e ritorno diventò, per qualche anno, fu una “classica”. Il canottaggio e il nuoto si svolgevano nel tratto di mare tra la stessa Piazza Renella e Cala Gavetta. In Piazza Renella, tra una parata militare e l’altra, dai primi anni del ‘900 si disputavano anche le partite di calcio.
Nel 1913, in quello stesso campo improvvisato, vi venne organizzato un quadrangolare, al quale parteciparono la Torres (che aveva vinto uno dei primi, pionieristici, campionati sardi), una rappresentativa della Marina Militare, l’Arsenale Militare e l’Ilva. A vincere il torneo fu la Torres.
Anche nel 1914 vi furono organizzati alcuni tornei, e qualche partita vi fu disputata nei primi mesi del 1915, più che mai con la preoccupazione dell’ingresso in guerra.
Il 1° gennaio del 1915, in tutta Italia come alla Maddalena, non si aveva ancora la consapevolezza che quella che si stava combattendo in Europa sarebbe stata chiamata la Prima Guerra Mondiale.
E in Italia come alla Maddalena, si vivevano momenti d’ansia e apprensione su quello che il Governo del Regno avrebbe fatto, se cioè fosse rimasto nella posizione di neutralità oppure si dovesse intervenire, cioè entrare in guerra: Ma con chi?
Con Prussia e Austria, come da alleanza sottoscritta qualche anno prima, e quindi contro Francia, Inghilterra e Russia, oppure contro gli Imperi Centrali? In Italia come anche a La Maddalena, accanto alla stragrande maggioranza della popolazione che non chiedeva altro che pane e lavoro, c’erano gli “interventisti”, con l’una e con l’altra alleanza.
E a La Maddalena tutti erano terribilmente consapevoli che se si fosse entrati in guerra con Prussia e Austria, la Francia, all’Isola-Piazzaforte, era terribilmente vicina. Maddalena e i maddalenini sarebbero stati in prima linea.
Purtuttavia la notte di San Silvestro si festeggiò nelle case dell’Isola a base di ravioli e agnello nelle famiglie d’origine corsa e gallurese, a base di pesce in quelle d’origine napoletana, e con altre pietanze tipiche della Toscana e della Liguria in altre case. Si suonò e si ballò.
Elegante e raffinata fu la cena al Circolo Ufficiali, alla quale parteciparono anche i maggiorenti dell’Isola, con mogli e figlie, allietata da un’orchestrina che consentì di ballare fino a notte tarda.
Il giorno di Capodanno, chi si recò a Messa, a chiedere la protezione Divina, dovette probabilmente sentire l’invocazione alla pace pronunciata dal parroco Antonio Vico, secondo le intenzioni del Papa Benedetto XV.
E tra Natale e Capodanno fecero gli straordinari gli addetti ai servizi postali per smaltire i diversi sacchi di posta in partenza e in arrivo da e per i militari lontani dalle loro case e dai loro affetti. Dovette fare particolare impressione, a Maddalena, in quei giorni, la notizia, arrivata attraverso i giornali, che la Germania aveva catturato, nei primi mesi di guerra, la bellezza di 700.000 prigionieri russi, e che questi venivano fatti lavorare nella bonifica dei terreni paludosi.
Altrettanto impressione però suscitò la notizia di un terremoto che, il 13 gennaio 1915, scosse la penisola dall’Abruzzo alla Campania, radendo al suolo 17 paesi, uccidendo 30.000 persone e ferendone migliaia e migliaia.
A La Maddalena non solo c’erano diversi abitanti d’origine campana ma anche molti militari provenienti dal Meridione, per i quali è credibile supporre che tra le vittime, morti e feriti, ci fossero anche loro familiari.
La mattina di sabato 16 gennaio inoltre, a Milano, i socialisti organizzarono una grande manifestazione per chiedere che l’Italia non venisse coinvolta nel conflitto e che continuasse a rimanere neutrale.
Anche questa notizia raggiunse l’Isola dove, nelle cave e anche nell’Opificio Militare di Moneta, non mancavano simpatizzanti socialisti.
Proprio nel 1915 il maestro Adolfo De Vecchi, insegnante nelle scuole di Maddalena, pubblicò il libro didattico “Lingua e aritmetica nella 1° sezione delle scuole per i militari in servizio”. Era destinato ai tanti militari, del Regio Esercito e della Regia Marina, in servizio a Maddalena, Caprera e Santo Stefano.
Adolfo De Vecchi era nato a Foggia e all’età di 26 anni, non è dato saperne il motivo, venne ad abitare e a insegnare a La Maddalena. Lo fece fino al 1950, per cui ci sono persone, oggi anziane, che lo ricordano. Fu un buon maestro elementare, che seppe integrare insegnamento teorico e pratico, lasciando nei suoi alunni un ottimo ricordo. Quando De Vecchi giunse all’Isola si stava per decidere che il grande edificio scolastico (Palazzo Scolastico) sarebbe stato edificato, non in Piazza della Renella (Comando), come in precedenza previsto, ma in località Pozzo Largo, una sorta di altopiano posto a 37 metri sul livello del mare, alle pendici del monte granitico poi denominato Crocetta.
Gli abitanti dell’Isola erano quasi 8.000 e la popolazione scolastica numerosa. La delibera della Giunta Municipale, presieduta nel 1902 dal sindaco Luigi Alibertini, che nominava De Vecchi maestro a Maddalena, indicava che “la seconda classe elementare maschile” conteneva “circa 100 alunni e la terza femminile in numero maggiore”. La scuola era in parte ubicata in Piazza di Chiesa, nella palazzina di proprietà comunale posta a sinistra dell’edificio di culto, dove ora, a pian terreno, c’è la farmacia, e in altre stanze all’uopo destinate in altri edifici presi in locazione nei paraggi, come due locali senza finestre di Via Vittorio Emanuele. Erano locali con “luce scarsa e mal distribuita, ventilazione inattiva, fognatura mancante o disadatta, adiacenze incomode”, come scriveva in una relazione il commissario prefettizio Valla.
Anche nella frazione di Moneta gli alunni erano numerosi. Il quartiere, nel 1915, era già ben abitato. Basti pensare che nel 1897, ben 67 capi famiglia (in parte militari sottufficiali e i parte operai e impiegati del Regio Cantiere) fecero richiesta alla Chiesa Valdese di Livorno affinché lì istituisse una scuola elementare, scuola “mista” che un anno dopo fu aperta invece dal Comune, retto, in quegli anni, dal commissario prefettizio Valle. La Regia Marina fornì i banchi e il Comune provvide al pagamento dell’affitto del locale (ubicato nei pressi dell’attuale rudere del “Palazzo Falconieri”) e degli stipendi degli insegnanti (reggente era la maestra Giuseppina Desogus).
Sempre nel 1915 funzionava già la Scuola Elementare della Casa San Vincenzo, missione cattolica aperta nel 1903 immediatamente alle spalle di Piazza della Renella (Comando). Erano scuole private (furono parificate solo nel 1931) per cui, perché il titolo di studio potesse avere valore legale, gli scolari dovevano sostenere il “Regio esame” pubblico. Le suore, oltre all’istruzione elementare, impartivano anche lezioni agli studenti che frequentavano le scuole di secondo grado e le superiori, che non c’erano, queste ultime, allora, a La Maddalena ma a Tempio, a Sassari o Cagliari, o in Continente. Mentre la scuola pubblica elementare, del Palazzo Scolastico e di Moneta, era frequentata dai figli del popolo, quella della Casa San Vincenzo, essendo a pagamento, lo era anche dai figlie e dalle figlie dell’élite militare e dei maddalenini benestanti. Una buona quota di alunni, tuttavia, figlie di famiglie povere e disagiate, era ammessa comunque, in maniera gratuita, in pieno spirito vincenziano. A questi si aggiungevano le bambine dell’Orfanotrofio, aperto nel 1928.
Nelle prime settimane del 1915 anche alla Maddalena giungeva l’eco di alcuni orientamenti politici che avrebbero voluto che l’Italia entrasse in guerra sì ma non a fianco degli Imperi Centrali alleati ma con la Francia e l’Inghilterra. La qual cosa non era di poco conto per i maddalenini. Si trattava infatti di avere o non avere il nemico (la Corsica francese) accanto all’uscio di casa. La maggior parte dei maddalenini, già alle prese con le difficoltà della vita, speravano tuttavia nella pace, e la possibilità di entrare in guerra faceva paura.
Anche per le notizie che giungevano dai vari fronti si avvertiva questa fosse particolarmente violenta e sanguinosa, e che coinvolgeva la popolazione civile e non solo le truppe e le navi. Se l’Italia fosse entrata in guerra contro la Francia si correva il rischio di vedere, da un’ora all’altra, tra le isole dell’Arcipelago arrivare le grandi navi francesi a bombardare fortificazioni e paese.
Si parlava anche delle armi chimiche che nottetempo i nemici avrebbero potuto portare dalla vicina Corsica… Se invece si fosse entrati in guerra contro l’Austria e soprattutto contro la Germania di cominciava a sentir parlare dei terribili sommergibili tedeschi come anche dell’aviazione, sempre tedesca, composta da dirigibili bellici che il 19 gennaio 1915 avevano bombardato la costa inglese, danneggiato paesi e fatto parecchi morti.
Quell’inverno del 1915 a La Maddalena fu freddo, come del resto tutti gli inverni, abbastanza piovoso e spesso e volentieri imperversavano ponente e maestrale. E lo risentirono particolarmente gli scalpellini che lavoravano all’aperto, muratori e manovali, e i pescatori le cui barche non erano di certo ancora dotate di motori. A parte le case delle famiglie più benestanti, che erano dotate di camini, nella maggior parte delle case si provvedeva al riscaldamento attraverso il braciere. E nelle nottate più fredde si dormiva uno accanto all’altro per riscaldarsi. E molti bambini, sentendo i racconti dei grandi, pensavano alla guerra e pregavano che a Maddalena non arrivasse.
Nel 1915 c’erano a La Maddalena 3 Chiese Cattoliche (S.Maria Maddalena, Moneta, e la cappella privata della Casa San Vincenzo), una Chiesa Evangelica Valdese, 2 Logge Massoniche. Chi celebrava messa in queste tre chiese?
Nei primi mesi del 1915 don Antonio Vico, che era parroco fin dal 1888, e dunque all’Isola c’era già da ben 35 anni più alcuni che vi aveva trascorso da viceparroco. Per alcuni decenni aveva conosciuto tutti e di tutto, ma dalla fine dell’Ottocento, non era più riuscito a seguire l’evoluzione dirompente. Era anche cappellano della Colonia Penale, ubicata “in Camiciotto”, a Moneta, con oltre 200 forzati, e si avvaleva di alcuni vice parroci tra cui … don Giovanni Battista Mura, don Giuseppe Millelire (discendente dell’eroe Domenico Milleire) e qualche altro provvisorio, che lo aiutavano nell’assistenza.
Chi assisteva i militari dislocati nelle diverse caserme di Maddalena e Caprera? Sempre loro, se i comandanti militari lo permettevano. Non c’erano infatti all’epoca i cappellani militari. Subito dopo l’unità d’Italia infatti, e precisamente dal 1866, la prevalente ideologia liberal anticlericale-massonica aveva abolito con legge sia i cappellani del Regno Sabaudo sia quelli degli altri Stati annessi. Solo con la Prima Guerra Mondiale, si ebbe, l’istituzione, con Decreto Luogotenenziale del 27 giugno 1915, dei cappellani militari di terra e di mare, organizzati gerarchicamente col grado di tenente e di capitano il cappellano capo e con alla testa un vescovo. Dunque nel periodo che stiamo esaminando insieme che è quello dei primi mesi del 1915, all’Isola non vi erano preti con le stellette.
E com’era la situazione della popolazione dal punto di vista religioso? Prete Vico se ne lamentava essendoci una grossa componente delle istituzioni e della popolazione fortemente e polemicamente avversa alla Chiesa. In quegli anni Vico aveva così scritto: “Qui ci sono due Logge Massoniche, il Socialismo ed il Protestantesimo che cerca di strapparci dalla Chiesa quante anime loro è possibile, e lavorare alacremente perché nessuno venga né in Chiesa né a processione, ma, viva Dio, ancora vive in molti la Fede, e la Religione se non da tutti praticata da tutti però fin’ora è rispettata, e perciò è necessario tirare qualcheduno alla nostra parte strappandolo dalle ingorde Fauci degli accaniti nemici”.
Nella Sardegna Nord-Orientale e nell’arcipelago maddalenino la presenza dei Protestanti-Valdesi risale agli anni 1883-1885, quando vi giunse in viaggio “missionario”, al seguito di alcuni commercianti dell’Isola d’Elba, il 39nne pastore di Livorno, nato anch’egli all’Isola d’Elba, Giuseppe Quattrini, il quale trovò, nell’Arcipelago di La Maddalena, alcune decine di evangelici.
Nel censimento del 1871, erano stati in 42 coloro che si erano dichiararono evangelici, tra i quali un barbiere, di nome Domenico Sabatini, il quale aveva il salone in via Ilva, dove ora c’è il tabacchino, e che tra i propri clienti, annoverava anche l’anziano parroco, don Michele Mamia Addis, al quale andava a radere la barba in canonica.
Gli Evangelici-Valdesi, per diversi anni, si riunivano in case private. Fu solo nel 1899 che venne inaugurata la prima Sala Evangelica, successivamente trasferita in via Vittorio Emanuele. Fino ai primi del Novecento la piccola comunità valdese venne visitata periodicamente da un pastore ma da 1903 uno di essi vi venne ad abitare prendendo residenza. In particolare, dal 1908, Virginio Clerico, ex frate ed ex sacerdote cattolico, brillante oratore e di spiccato zelo nell’attività di proselitismo. Clerico abitò a La Maddalena insieme alla moglie, Lisa Deisenseer, bellissima e colta, di oltre vent’anni più giovane.
Clerico morì nel 1914, quando la comunità protestante valdese aveva oltre cento aderenti e la propria chiesa in via Garibaldi, nel locale fino a pochi anni fa occupato dai parrucchieri fratelli Doneddu ed ora da un’attività commerciale i cui titolari sono cittadini cinesi.
Nel gennaio del 1915, Lisa, moglie del defunto pastore Clerico, ebbe a redigere, in sostituzione del marito defunto, la relazione per l’anno appena trascorso. Dopo aver ricordato il proprio dolore dovuto al “doloroso evento che pur fu – per mezzo degli imponentissimi funerali – occasione di larga testimonianza”, Lisa Deisenseer vedova Clerico scrisse come vi fosse a La Maddalena, “in questa chiesa, un gruppo fedele e zelante che dà buone speranze per l’avvenire dell’opera; questo gruppo continua ad adunarsi privatamente in casa mia, dopo la dipartita del mio consorte, aspettando il nuovo Ministro che il Comitato ci destinerà”.
Nella relazione Lisa parlò ancora della Sala di Culto, presa in affitto, ma “troppo modesta”, in una cittadina “elegante e piena di ufficiali, di alti impiegati, ecc. com’ è La Maddalena”.
… Questa Stazione – affermà Lisa Deisenseer vedova Clerico nella relazione di cui alla precedente puntata – ha molta importanza, non tanto per il numero dei fratelli che attualmente la compongono, quanto per il continuo passaggio di militari, marinai, impiegati, che possono intervenire ai culti, conoscere il Vangelo, e portarlo nei loro paesi”.
Lisa così proseguiva: “Ho continuato anche quest’anno la mia scuola privata di lingue e di altre materie scolastiche. Benché fortemente osteggiata dai clericali e dalle suore, questa scuola privata conta, tra i suoi alunni, giovinetti e signorine delle migliori famiglie del paese… E’ già un gran progresso aver vinto il pregiudizio e vedere delle distinte famiglie cattoliche che mi affidano l’istruzione – ed un poco anche l’educazione – dei loro fanciulli. L’importanza di queste mie classi private è stata riconosciuta subito dai clericali che, con ogni mezzo, hanno tentato di sottrarmi gli alunni”.
Tra la fine del 1914 e il 1915 giunse a La Maddalena, proveniente da Felonica Po, nel mantovano, il maestro evangelico Enrico Robutti che andò ad insegnare Italiano e Storia presso le Scuole Tecniche dell’appena edificato ed imponente “Palazzo Scolastico”. Robutti era sposato con Adelaide ed aveva dei figli. Un’ analisi su La Maddalena la fece il maestro Robutti nella relazione che scrisse il 7 giugno 1915.
“Questa cittadina, mi si permetta la seguente nota psicologica … è per metà bigotta e per metà quasi tutta indifferente. Bigotta perché l’Ammiraglio e l’alta ufficialità della Marina, non so se per … tradizione o pei sistemi educativi delle Accademie, sono attaccatissimi al prete. All’influenza di questi … pezzi grossi poi bisogna aggiungere naturalmente, quella esercitata dalle suore vincenziane …; indifferente perché gli impiegati e gli esercenti da quei signori e signore aspettano favori e denaro, e non hanno il coraggio, benché la pensino diversamente, di sostenere le proprie idee e preferiscono ripiegare le loro bandiere e tacere piuttosto che esporsi al pericolo di cadere in disgrazia e di perdere clienti”.
Il 26 aprile 1915 il Regno d’Italia stipulava segretamente un patto con la Gran Bretagna, la Francia e la Russia, il Patto di Londra. Pochi giorni dopo, il 3 maggio, l’Italia rompeva la Triplice Alleanza a suo tempo stipulata con l’Impero Austro-Ungarico e la Prussia.
L’Italia, fino ad allora, era rimasta neutrale nel conflitto, iniziato l’anno prima. Il cambio di campo, clamoroso sebbene prevedibile, era stato stipulato dal capo del Governo Antonio Salandra e dal ministro degli Esteri Sonnino, coll’accordo del Re, Vittorio Emanuele. Del Patto di Londra erano ignari il Parlamento, le Forze Armate e il Popolo. Popolo che si augurava che in quella guerra – della quale i giornali, sebbene molto limitatamente riportavano le atrocità – l’Italia continuasse a rimanere neutrale.
Vittorio Emanuele aveva, sul piatto della bilancia, da una parte la disponibilità degli Imperi Centrali a concedere all’Italia, entrando nel conflitto e in caso di vittoria, tutto il Trentino. Da Francia e Gran Bretagna aveva, nel secondo piatto, la promessa, in caso di vittoria, di ottenere, in aggiunta al Trentino, anche parte del Tirolo, le città di Gorizia, quella di Trieste, la Dalmazia, il Dodecanneso, il bacino minerario di Adalia e il Protettorato sull’Albania.
Il piccolo Re scelse la più grande offerta…
Nei giorni successivi al 26 aprile i primi dispacci cominciarono a giungere alle Forze Armate del Paese. L’Italia si era infatti impegnata ad entrare in guerra entro un mese e doveva iniziare la mobilitazione. Il punto era che, per diversi giorni, né il Regio Esercito né la Regia Marina, seppero contro chi. Nella piazzaforte di La Maddalena, sebbene messa da subito in preallarme, da questo punto di vista regnava la confusione. Anche perché, a seconda della scelta di campo, le cose sarebbero cambiate parecchio. Una cosa era essere alleati, ancora, con gli austriaco-ungarici, ed avere, di conseguenza, il nemico in casa (la Francia con la vicinissima Corsica) e ben altra cosa era invece l’essere schierati contro la lontana Austria-Ungheria e l’ancor più lontana Germania.
Grande impressione destò anche a La Maddalena la notizia che il 7 maggio il sommergibile tedesco U20 aveva affondato il Lusitania, una nave passeggeri inglese, e che nel naufragio erano morte quasi 1.200 persone. L’U2 era uno dei poderosi e temibilissimi sommergibili che qualcuno aveva ritenuto di aver avvistato nei mari dell’Arcipelago.
A La Maddalena nel 1914 c’era stata la siccità, come nel resto della Sardegna. E lo stesso stava accadendo nel 1915. Poche piogge in autunno, ancor meno d’inverno. Vadìne (ruscelli), fin dalla primavera, presto prosciugate, pozzi quasi a secco per la poca ma tuttavia importante agricoltura. E molte delle cisterne, delle quali quasi tutte le case erano munite, erano vuote o quasi. Vento, vento, vento, che spazzava le nuvole che si affacciavano sull’Arcipelago, portandole chissà dove. Ed arrivarono anche le cavallette. Il maltempo impediva spesso ai pescatori di prendere il mare e il costo della vita era alle stelle col pane, principale alimento per molte famiglie, aumentato incredibilmente e per molti proibitivo. E le paghe che lo Stato elargiva a militari e civili, nonché quelle delle cave, spesso non erano sufficienti alle famiglie numerose, molto numerose, dell’epoca.
E c’era chi voleva, chi tifava, perché l’Italia entrasse in guerra. Molti militari della piazzaforte, intanto, ed anche tanti giovani, infervorati dai discorsi che si sentivano anche a Maddalena, e che si leggevano e commentavano dai giornali. E forse ci fu anche qui, sebbene non documentata, qualche manifestazione interventista, com’era accaduto a Cagliari e a Sassari. Un gruppo di maddalenini si era recato proprio a Sassari, nel dicembre del 1914, per assistere al comizio dell’irredentista Cesare Battisti, che chiedeva “la liberazione” delle terre italiane ancora sotto il giogo austriaco.
Posizioni sfavorevoli all’entrata in guerra vi erano invece nel mondo operaio (com’era accaduto a Tempio), negli ambienti anarchici e socialisti isolani. I cattolici stavano a guardare, allineati alle posizioni pacifiste del Papa, anche se tra loro c’erano coloro che auspicavano l’ingresso in guerra, chi con l’Intesa chi con l’Alleanza.
Il clima prebellico influenzava anche la scuola, dove maestri e maestre del Palazzo Scolastico, non sapendo ancora da che parte stesse l’Italia, e che cosa avrebbe fatto, anche in osservanza delle circolari del Regio Ministero svolgevano comunque lezioni di carattere patriottico.
Il 3 maggio, il Governo presieduto da Antonio Salandra ruppe la Triplice Alleanza che legava l’Italia all’Austria e alla Germania e, nei giorni immediatamente successivi, come in tutti i municipi d’Italia, anche negli ancora nuovissimi uffici del palazzo municipale, inaugurato pochi anni prima, iniziò l’attività degli impiegati nel compilare le liste dei dati anagrafici per la mobilitazione.
Nella Caserma dei Regi Carabinieri, ubicata a Cala Gavetta, nel palazzo Azara, si prepararono a notificare le prime cartoline precetto.
Il 22 maggio 1915, il Regno d’Italia proclamava la Mobilitazione Generale.
Tutte le licenze e tutti i permessi vennero annullati in tutte le caserme della Piazzaforte di La Maddalena, nel Regio Cantiere di Moneta, e sulle navi militari ivi ormeggiate e all’ancora.
Al momento non risulta che ci fossero maddalenini tra le truppe italiane che, alle 3:30 di lunedì 25 maggio 1915, precedute dai tiri assordanti degli obici, oltrepassarono il confine Italo-Austriaco, puntando verso le “Terre Irredenti” del Trentino, del Friuli, della Venezia Giulia. In quella notte …
“Il Piave mormorava calmo e placido/l’Esercito marciava per raggiunger la frontiera/ per far contro il nemico una barriera/ Muti passaron quella notte i fanti/ tacere bisognava e andare avanti/ S’udiva intanto dalle amate sponde/ Sommesso e lieve il tripudiar dell’onde/ era un passaggio dolce e lusinghiero/ Il Piave mormorò: “Non passa lo straniero”/ …
Il giorno prima, il 23 maggio 1915 l’ambasciatore d’Italia a Vienna aveva presentato al Ministro degli Esteri Austro-Ungarico la Dichiarazione di Guerra: “S.M. il Re dichiara che l’Italia si considera in istato di guerra con l’Austria-Ungheria da domani”. L’indomani era appunto il 24 maggio 1915. In quello stesso giorno Re Vittorio Emanuele II fece il suo primo proclama alle truppe combattenti: “Soldati di terra e di mare! L’ora solenne delle rivendicazioni nazionali è suonata. Seguendo l’esempio del mio Grande Avo, assumo oggi il comando supremo delle forze di terra e di mare, con sicura fede nella vittoria, che il vostro valore, la vostra abnegazione, la vostra disciplina sapranno conseguire. Il nemico che vi accingete a combattere è agguerrito e degno di voi. Favorito dal terreno e dai sapienti apprestamenti dell’arte, egli vi opporrà tenace resistenza; ma il vostro indomito slancio saprà di certo superarla. Soldati! A voi la gloria di piantare il tricolore d’Italia sui termini sacri che la natura pose ai confini della Patria nostra. A voi la gloria di compiere, finalmente, l’opera con tanto eroismo iniziata dai nostri padri”.
La Piazzaforte Militare di La Maddalena, dichiarata “territorio in stato di guerra”, era stata mobilitata da alcuni giorni. Le licenze erano state bloccate, i militari di mare e di terra in licenza richiamati, controllati motori e armamenti delle navi in porto e in rada, messi a punto cannoni e sistemi antinavi delle batterie, intensificata la vigilanza, chiuse, e con ronde sempre in allerta tutte le zone militari, intensificato il lavoro dei servizi segreti, controllati i passeggeri in entrata e in uscita unitamente alle merci, i dipendenti pubblici del Comune e delle Poste (dove era scattata la censura sulla corrispondenza) messi a disposizione, e nelle scuole gli insegnanti invitati a organizzare manifestazioni patriottiche.
Il sindaco convocò la Giunta Comunale per stabilire le iniziative da intraprendere. Nelle omelie, il buon parroco Antonio Vico, pregava Iddio per la buona e veloce conclusione della guerra, e che i figli di mamma che la facevano potessero ritornare sani e salvi a casa. Ovunque sventolavano Tricolori con lo stemma Savoia. La Banda della Regia Marina eseguiva concerti in Piazza Comando e per le strade del paese. Il clima che si respirava, in quei caldi giorni di fine maggio, era quello di una nazione in guerra, una guerra che – si diceva – si sarebbe conclusa rapidamente con la vittoria. I coscritti di terra vennero mandati ai centri reclute di Tempio e Ozieri. A metà del mese di maggio erano partiti da Cagliari e Porto Torres il 151° e il 152° della Sassari dov’erano intruppati alcuni isolani. In quei giorni la popolazione di La Maddalena ammontava a circa 16.000 abitanti di cui 5.900 militari, circa il 37%, oquasi 1/3 della popolazione.
Lucia Pinna, figlia di Salvatore, nel 1915 aveva 7 anni e abitava con la famiglia allo Spiniccio. Ancor pochi anni prima di morire, nel 1987, ricordava con commozione quando, con la sorellina Maddalena, di un anno più grande, la notte, si abbracciavano nel lettino e piangevano, pensando al babbo lontano, partito per il fronte. Piangevano perché avevano nostalgia e temevano che potesse morire.
La sera, all’imbrunire, sentivano i discorsi della mamma e delle altre donne che commentavano al fresco della notte d’estate o davanti al braciere d’inverno, le poche notizie che giungevano, quelle che riportavano i giornali e che trapelavano dalla piazza.
E quando giungeva una sua lettera – Salvatore, cosa non comune a quei tempi, sapeva leggere e scrivere – era una festa.
Soldato in fanteria, Salvatore Pinna, classe 1880, giunto alla fine dall’800 da Terranova (Olbia), sposato con Peppina, maddalenina, per rispondere alla chiamata della Patria, all’età di 35 anni aveva dovuto lasciare la piccola ma avviata bottega di calzolaio di via Italia, dalla quale traeva il sostentamento per i suoi figli 4 figli. Partito il babbo, i pochi risparmi accantonati finirono presto, e la famiglia dovette tirare avanti con il lavoro da sarta di mamma Peppina, e con tanti sacrifici e privazioni.
Come Lucia, Maddalena e i fratellini, erano centinaia le bambine e i bambini di La Maddalena che si addormentavano, spesso piangendo, pensando ai babbi in guerra, lontani da loro e da casa. Si diceva … le lettere. Lontani dalle famiglie per mesi, per anni, i soldati della Prima Guerra Mondiale produssero miliardi di lettere, ben 4 miliardi solo i militari italiani. Migliaia e migliaia quelli maddalenini al fronte o imbarcati sulle Regie Navi. Lettere che giungevano o venivano imbucate all’Ufficio Postale e Telegrafo prima ubicato in via Nicola Fabrizi, a due passi dal municipio e da qualche anno a piano terra del Municipio stesso.
Le lettere venivano controllate, per cancellare ogni notizia che potesse essere utilizzata dal nemico ma la censura le depurava anche delle frasi contro la guerra, la miseria, delle condizioni di vita in trincea.
La trincea … Presto ci si accorse che quella guerra, combattuta con armi micidiali, non sarebbe stata come quelle precedenti. Dopo i primi successi la guerra si sviluppò tra la vita di trincea e sanguinosi assalti al nemico. E in trincea i nostri soldati, i nostri bisnonni e trisnonni vissero, mangiarono, dormirono, sperarono, soffrirono e morirono.
Tra le navi militari che spesso giungevano nelle rada della Piazzaforte di La Maddalena, ci fu probabilmente anche il cacciatorpediniere Turbine, come anche altre navi della stessa classe, quali il Nembo, l’Aquilone, il Borea, il Nembo, l’Aquilone, l’Espero, lo Zaffiro.
Varato nel 1901, aveva partecipato alla guerra Italo-Turco dopo la quale fu dotato anche di sistema di posamine. È presumibile che in 14 anni di vita qualche maddalenino vi si stato imbarcato mentre sembra certo che non ve ne fossero quando venne affondato, in Adriatico, nella prima mattina del 24 maggio 1915, dall’esploratore austro-ungarico Helgoland, inviato dal comando imperiale a bombardare Barletta.
Il Turbine se la dovette vedere anche con le navi nemiche Trata e Csepel, e, colpito ripetutamente, s’inabissò poco prima delle 7:00 del mattino, a poche ore dall’entra in guerra dell’Italia. Tra l’equipaggio, composto da 53 uomini, ci furono 10 morti.
Tra questi un sardo, il sottocapo Luigi Olla, nato a Quartu Sant’Elena, di 23 anni, successivamente decorato con Medaglia d’Argento al Valor Militare. Il giovane Olla fu il primo sardo a morire, sia di mare che di terra, nella Prima Guerra Mondiale.
L’affondamento del Turbine destò impressione anche a La Maddalena, sia tra i militari della Regia Marina che tra la popolazione, storicamente legata alla tradizione militare marinara, considerato che molti maddalenini erano imbarcati sulle Regie Navi. Ciò che poteva, ma solo in parte consolare, era che la flotta austro-ungarica fosse molto lontano da La Maddalena, consolare tuttavia fino ad un cento punto …
Parliamo ancora di censura, che è una delle caratteristiche delle guerre, e lo fu in particolare nella “Grande Guerra”. E lo facciamo avvalendoci di quanto scritto dal compianto Nino Tollis nel libro: La Maddalena, la riscoperta del passato attraverso la sua storia postale. Tipografia Marisardegna, edizione 1992.
Con lo scoppio delle ostilità l’Ufficio Postale di La Maddalena, trasferitosi da poco da via Fabrizi all’atrio comunale, venne dotato di un Telegrafo Stampante – sistema Hughes. Gli apparecchi riceventi e trasmittenti riproducevano immediatamente le lettere dell’alfabeto, e quindi il telegramma. Questo consentiva più rapide comunicazioni con “un palese vantaggio, sia sotto il punto di vista del servizio pubblico, sia sotto l’aspetto delle esigenze di guerra”.
Nel frattempo le Regie Poste avevano prodotto l’emissione di cartoline e buste speciali in esenzione della tassa postale, destinate esclusivamente alla corrispondenza dei militari del Regio Esercito e della Regia Marina. “Allo scopo di combattere lo spionaggio e la propaganda di notizie che, se false, potevano produrre un ingiustificato allarme” scriveva Nino Tollis nel suo libro, “fu istituito, con Regio Decreto, il 23 maggio 1915, il Servizio di Censura. In pratica era un sistema per impedire l’inoltro a destinazione di lettere e cartoline se non previo esame di una commissione di funzionari (censori), capaci e di sicura fede. Senza il Nulla Osta (timbro di censura o talloncino gommato), qualsiasi missiva era messa da parte per ulteriore indagine”.
All’Ufficio Postale di La Maddalena operano ben sei censori. Ovviamente, nelle caserme dislocate nell’Arcipelago operavano i censori militari come anche sulle Regie Navi. In genere erano i comandanti ad effettuarlo e nelle navi, i commissari di bordo, “incaricati del servizio postale, convenientemente coadiuvati da personale idoneo”.
Nonostante le lentezze che la censura produceva – ogni corrispondenza passava al vaglio di una o più persone, e lasciando da parte ogni considerazione sulla privacy – nel suo libro Tollis informa che il Servizio Postale, negli anni di guerra, “funzionò egregiamente”. Ne risentì solo quando il fronte delle operazioni si spostava.
Uno di questi censori fu l’insegnante Enrico Robutti, lombardo, sposato con figli, che prima di essere richiamato alle armi era docente di Italiano e Storia presso le Scuole Tecniche dell’ap¬pena edificato ed imponente “Palazzo Scolastico”.
Robutti era un pastore evangelico valdese, giunto a La Maddalena per curare la locale comunità alla quale aderivano più di un centinaio di persone tra civili e militari. Avevano la chiesa in via Garibaldi, nel locale che fino a pochi anni fa ospitava i barbieri Doneddu e ora è un esercizio commerciale cinese.
Con lo scoppio della Prima Guerra Mondiale, nell’ottobre del 1915 giunse il richiamo alle armi anche per l’insegnante e ministro di culto Enrico Robutti. Inviato a Sassari per l’addestramento fu poi trasferito al 320° Battaglione di Palau, e di qui anco¬ra, nel dicembre dello stesso anno, all’Ufficio Censura di La Maddalena. Così scrisse Robutti nella Relazione redatta del 1916 per la Chiesa Valdese:
“Iddio consolatore sia, con le famiglie orbate dei loro diletti e sia con l’Italia nostra, affinché gli eroismi che essa compie pel trionfo di una causa santa, santa come sono sante la Libertà e la Giustizia per le quali combatte, siano presto coronati dalla vittoria”.
Questi sentimenti erano ben radicati nella piccola comunità evangelico-valdese di La Maddalena tra i cui componenti c’era il giovanissimo Carlo Alberto Lena il quale, partito volontario, promosso sottotenente di Fanteria scrisse Robutti, “trovasi al fronte da oltre 10 mesi e scrive, alla famiglia ed ai fratelli, lettere vibranti d’amor patrio e di fede cristiana”. E non a caso Lena fu insignito di ebbe una medaglia d’argento al valore.
Robutti riuscì ad organizzare nella piccola comunità protestante maddalenina diverse collette “per il Comitato di Assistenza pei Soldati Evangelici, pel Comitato locale della Croce Rossa (di questo Comitato 10 fratelli sono membri) e al Comitato pel Soccorso delle Famiglie de’ Richiamati”.
Pochi mesi prima di “Caporetto”, nell’aprile del 1917, in pieno sforzo bellico e di mobilitazione di uomini e mezzi, Enrico Robutti venne trasferito a Padova, venendosi a trovare, di lì a poco tempo, proprio nelle zone più calde del fronte. Tornò Maddalena a guerra finita. Vi rimase fino all’autunno del 1921 quando si trasferì, con la famiglia, a Sassari.
A La Maddalena, dove c’erano un certo numero di stipendi statali e parastatali, negli anni della Grande Guerra c’era anche chi “non si accontentava e rubava; qualcuno truffava, qualcuno barava, qualcuno si arrangiava e arrotondava illecitamente”. Questo almeno stando a quanto contenuto nelle pagine della cosiddetta “Inchiesta Ferri” della quale ha parlato il giornalista e scrittore Giancarlo Tusceri nel corso di una conferenza sulla Prima Guerra Mondiale, organizzata l’11 giugno 2015 nella Biblioteca Comunale, con sottofondo musicale e letture di Alina Maiore.
Stando sempre all’inchiesta, ha proseguito Tusceri, a La Maddalena c’era gente che “male male non se la passava” e a stare peggio erano sempre i più poveri, quelli senza santi in Paradiso, quelli che erano diseredati sia in tempo di guerra che in tempo di pace. E, naturalmente le famiglie di quegli isolani che in guerra la pelle ce la lasciarono davvero, in cambio di una lapide alla memoria sulla facciata del municipio degli ‘scandali’”.
Ma che cos’era successo? Era successo, ha raccontato Tusceri, che in quegli anni “qualcuno” aveva iniziato a inviare, a destra e a manca, dettagliate lettere anonime, che raccontavano di presunti illeciti commessi da pubblici amministratori e pubblici funzionari del Comune. Fu così che nel 1915, un ragioniere capo della Ragioneria Centrale dello Stato, certo Raffaele Ferri, “piombò senza preavviso nel municipio di La Maddalena, si accomodò nell’ufficio del sindaco e cominciò ad effettuare alcune verifiche. Procedeva a colpo sicuro, segno che era stato bene informato. L’inquirente sedeva alla macchina da scrivere e iniziava a battere con la stessa intensità con cui si susseguivano gli spari in trincea. Scriveva a raffica continua, alternando sfibranti interrogatori con verifiche documentali”.
Da lungo tempo – scrisse Ferri nella relazione – si fanno gravi accuse agli amministratori di La Maddalena per tolleranze, favoritismi occulti e palesi, per scorrettezze, e, peggio ancora nell’esercizio delle loro funzioni, col conseguente danno all’Amministrazione e coll’utile dei cittadini amici e dei parenti”.
Dei 20 consiglieri comunali eletti, scriveva Ferri, intervengono attualmente non più di 8, compreso il sindaco. Degli altri 12, uno era deceduto, 2 erano dimissionari, uno era stato richiamato sotto le armi, due si erano trasferiti altrove e sei si astenevano dall’intervenire “in segno di protesta e di opposizione”.
L’inchiesta Ferri tuttavia, rimase a livello amministrativo, senza alcun seguito, né civile né penale e in nessuna sede gli “accusati” furono chiamati a rispondere e a difendersi. Nessuno infatti si mosse “per le opportune verifiche” anche perché le autorità, ha commentato Giancarlo Tusceri, temevano, nel caso, “di minare psicologicamente, colpendo una Base Militare, chi era al Fronte”. “La voce, anche tacitando i giornali, si sarebbe propagata comunque, minando ulteriormente lo spirito già depresso dei combattenti”.
Successe invece che, in piena guerra, da Roma si procedette in tutto il Regno a sciogliere tutti i Consigli Comunali e fu così che dal giugno del 1917 anche il Consiglio Comunale di La Maddalena venne sciolto e nell’Arcipelago venne inviato il commissario prefettizio, Pietro Lissia.
Fu il 23 giugno del 1915 che il generale Cadorna, comandante in capo delle forze armate italiane nella Grande Guerra, diede l’ordine, ad un mese dall’inizio delle ostilità, di sferrare il primo grande assalto di quella che venne definita, la Prima Battaglia sull’Isonzo.
Italiani e Austro-Ungarici si fronteggiarono fino al 7 luglio, i primi all’assalto i secondi a difendersi. La Seconda Armata avrebbe dovuto raggiungere il Monte Mrzli, il paesino di Plava e rafforzare le proprie posizioni a nord di Gorizia mentre la Terza Armata doveva avanzare fino a Sagrado e Monfalcone.
In effetti l’unico settore in cui le operazioni ottennero qualche risultato fu nella zona di Sagrado dove il cannoneggiamento italiano costrinse gli Austro-Ungarici ad arretrare fino alle resistenze del Monte Sei Busi e del Monte San Michele. Di contro, nel settore meridionale di Monfalcone, gli attacchi sul Monte Cosich e sulle altre altire vennero respinti, procurando però gravi e consistenti perdite alle truppe italiane.
I nostri fanti, coperti dall’artiglieria, sferrarono decine e decine di assalti, la maggior parte in campo aperto, tanto sanguinosi quanto infruttuosi. Ne morirono a centinaia e centinaia durante quelle due settimane e ne morirono a migliaia complessivamente nelle tre campagne che il generale Luigi Cadorna ordinò lungo quel fiume fino al dicembre del 1915. Senza contare i feriti e i tanti che ne rimasero invalidi a vita. Fiume Isonzo, Gorizia, Monfalcone …
Chissà quanti maddalenini, fino ad allora, conoscevano l’esistenza di questo fiume, e forse qualcuno in più conosceva il nome della città di Gorizia e qualcuno ancora in più di Monfalcone, se non altro perché era un porto sul Mare Adriatico e perché aveva dei cantieri navali.
Ma dell’esistenza del Monte Mrzli, di Plava, di Sagrado, del Monte Sei Busi e del Monte San Michele come anche del Monte Cosich … Eppure in quelle località e su quei monti c’erano dei maddalenini che combattevano.
A scuola c’erano i maestri e le maestre come i professori, che mostrarono agli alunni, nelle aule del palazzo scolastico, sulle grandi e belle carte geografiche dell’epoca, quelle località.
La Base Militare di La Maddalena, in quel primo mese di guerra, viveva in una situazione d’attesa. Non era ancora ben chiaro il ruolo che avrebbe potuto assumere anche se si delineava piuttosto chiaramente che per quanto riguarda le vicende belliche marittime sarebbe stato il Mare Adriatico il teatro di battaglia. Ciononostante c’era chi, nell’Arcipelago, a livello di vertici militari, ma anche a Roma, riteneva che la base di La Maddalena dovesse mantenere alta la guardia e massimo l’armamento.
C’era infatti chi, nonostante la netta scelta di campo contro l’Austria e Ungheria e a fianco dell’Inghilterra e la Francia, non si fidava affatto dei “cugini tra transalpini”, nemici da troppo tempo e contri i quali (o a difesa dai quali) l’Arcipelago era stato messo in armi. E forse non avrebbe stupito nessuno se qualcuno a Parigi, approfittando di possibili sguarnimenti e distrazioni, potesse organizzare e realizzare ciò che non riuscì a Napoleone alla fine del Settecento: la conquista dell’Arcipelago e dalla Sardegna.
Da Maddalena in tanti erano partiti per combattere, da terra, contro gli Austroungarici ma tanti altri rimanevano bene armati nelle Batterie Costiere per difendere l’Arcipelago e la Patria da eventuali attacchi francesi. Solo nei mesi successivi cominciò a farsi strada l’esigenza di spostare uomini e materiale bellico al fronte, sottraendolo alle poderose batterie costiere, ma questo avvenne molto più tardi, quando l’alleanza con la Francia si era consoldidata.
Sono stati 100.000 i sardi che hanno combattuto nella Prima Guerra Mondiale, su una popolazione complessiva di 850.000 persone. Lo ha ricordato a La Maddalena il 4 luglio 2015, Aldo Accardo, presidente del Comitato Sardo per i Cent’Anni dalla Grande Guerra, durante le celebrazioni garibaldine.
Non avendo i numeri ufficiali possiamo tuttavia ipotizzare che i maddalenini siano stati un migliaio. Un’enormità davvero.
Nell’occasione celebrativa citata, un contributo al “ricordo” lo ha dato anche il sindaco Luca Montella, il quale ha rivelato di avere, tra le carte di famiglia, la lettera di un ufficiale medico sardo, in servizio, durante la guerra 1915-18, in una delle fortificazioni di Caprera. Scriveva alla famiglia, dalla quale era lontano da parecchi mesi, che la sua giornata iniziava alle 5:30 del mattino e proseguiva, dopo la colazione, con la visita di 50-60 coscritti.
“Alle 8:00 monto a cavallo e vado verso i forti” (non è dato sapesse dove il giovane ufficiale medico fosse assegnato ma il “giro” doveva esse probabilmente a forti alternati nella settimana, essendocene a Caprera diversi e anche lontani, dovendo raggiungerli a cavallo, da Punta Rossa a Stagnali dove c’erano i bersaglieri, ai due di Poggio Raso fino a Messa del Cervo e Arbuticci).
“Rientro alle 10:30 e per le 11:00 assolvo altri servizi”, scriveva l’ufficiale.
“Dopodiché alle 12:00 pranzo, alle 13:00 mi metto a letto ma non posso conciliare sonno. Alle 15:00 devo andare a presenziare al bagno della truppa. Sono arrostito dal sole, … ma io, … con tanto soffrire pur mi rassegno. E penso che molti, e molti altri, hanno disagi maggiori del mio. Ci voleva la guerra, e solo la guerra, per insegnare a tanti di quanto dolore e pene è dispensiera la vita. Eppure … fortunati quelli che riescono a riportare la pelle a casa intatta. Infelici quelli che soccombono nella dura lotta, sacrificando gli anni giovani, le sostanze e le speranze”. Il 4 agosto del 1915 le truppe tedesche conquistavano Varsavia (Polonia) e una ventina di giorni dopo la Germania istituì un governatorato generale per l’amministrazione dei territori occupati dall’esercito prussiano. Il 21 agosto, l’Italia, già in guerra con l’Austria-Ungheria da tre mesi, dichiarò guerra anche all’Impero Ottomano, lo Stato turco-musulmano. Motivo dell’intervento, che rappresentò un allargamento del conflitto e del fronte, non fu di certo il genocidio del popolo cristiano degli armeni, da parte dei turchi, iniziato alcune settimane prima bensì la necessità di prestar fede agli accordi stipulati con Francia e Inghilterra, come anche quello di tutelare in propri interessi in Dalmazia che, a guerra finita e possibilmente vinta, sarebbe dovuta passare al Regno d’Italia, quale bottino di guerra. L’estensione della guerra contro i turchi, dei quali a La Maddalena si conosceva, perché tramandato da generazioni, la triste fama, cominciò a preoccupare anche la piazza isolana (in quell’assolato agosto e caldo agosto, caratterizzato dalla scarsità d’acqua disponibile), in considerazione del fatto che probabilmente anche gli alcuni maddalenini vennero lì inviati a combattere. Forse in qualche lettera della quale si sono perse le tracce si fece riferimento alle barbarie compiute dai turchi in quella terra lontana. Lì infatti, tra il 1915 e il 1916, si compì il genocidio sistematico della popolazione armeno-cristiana che viveva all’interno dell’Impero Ottomano, basato sull’integralismo islamico. C’erano anche dei maddalenini tra i fanti della Brigata Sassari, costituita il marzo del 1915 dalla fusione di due reggimenti, il 151º Fanteria stanziato a Sinnai (Cagliari) e il 152º Fanteria stanziato a Tempio.
Caratteristica della Brigata era quella di essere composta da soldati nati in Sardegna. E La Maddalena era ed è in Sardegna. Reclute e soldati confluirono su Tempio, indipendentemente se fossero nati a La Maddalena, per la verità pochi, o che fossero residenti a La Maddalena, sebbene nati in diversi comuni della Gallura e del nuorese e all’isola immigrati direttamente o con le loro famiglie per questioni di lavoro, all’epoca della costruzione delle grandi fortificazioni. Fatto sta che in quei mesi di metà del 1915 erano tante le famiglie all’Isola che avevano visto partire per il fronte, padri, mariti, fidanzati e figli. L’afa di quei mesi estivi rendeva ancora più angosciosa l’attesa ed il pensiero per i propri cari in guerra e lontani.
La Brigata Sassari, comandata dal generale Gabriele Berardi, nel luglio del 1915 era alle dipendenze della III Armata, comandata dal Duca d’Aosta. Era composta inizialmente da 6.000 uomini.
Durante la Seconda Battaglia dell’Isonzo, furono 4 i Battaglioni della Brigata Sassari che passano quel fiume, a Sdraussina, iniziando un duro combattimento a Bosco Cappuccio (San Michele), contro le trincee dentro le quali era asserragliato, numeroso e bene armato, l’esercito Austro-Ungarico.
Gli attacchi erano perlopiù portati alla baionetta, con furiosi quanto cruenti corpo a corpo. Il 4 agosto venne espugnato il trincerone austriaco di Bosco Cappuccio, poco lontano da San Martino del Carso.
Lì la Brigata Sassari fece 635 prigionieri e lì i fanti, stremati e con gravi perdite in termini di vite umane (387 i caduti, 1956 i feriti), dovettero arrestarsi, asserragliandosi nelle trincee che andarono a scavare, bersaglio dell’artiglieria nemica. Vi rimasero per alcuni mesi, sino ai primi di novembre.
Quando si pensa alla Prima Guerra Mondiale, alle sue canzoni, alle canzoni cioè che i soldati cantavano, o che facevano cantare ai soldati, si pensa subito a quella più nota, la patriottica per eccellenza della Prima Guerra Mondiale, alla Leggenda del Piave cioè, … il Piave mormorò … Che però venne scritta e composta nel 1918, verso la fine della guerra.
Ricordando, come è stato fatto nel numero scorso, la Brigata Sassari, balza immediatamente alla memoria il suo inno, altrimenti nota come Dimonios(Diavoli). Il testo tuttavia è molto recente, essendo stato scritto appena nel1994 dal capitano Luciano Sechi, del 45º Reggimento “Reggio”, così come la musica, poi armonizzata e arrangiata dalla Banda della Brigata Sassari.
Nel 1915 dunque, cosa dunque cantava l’Italia in guerra?
La campana di San Giusto, ad esempio, il cui testo diceva: “Per le spiagge, per le rive di Trieste/suona e chiama di San Giusto la campana/L’ora suona, l’ora suona non lontana/che più schiava non sarà/Le ragazze di Trieste/cantan tutte con ardore/Oh Italia, oh Italia del mio cuore/Tu ci vieni a liberar/Avrà baci, fiori e rose la marina/la campana perderà la nota mesta/Su San Giusto sventolar vedremo a festa/il vessillo tricolor”. A scriverla fu un napoletano, E. A. Mario.
Si cantava anche, già dal 1915, il Canto degli Arditi: “Mamma non piangere/c’è l’avanzata/tuo figlio è forte/su in alto il cuor/Asciuga il pianto/della fidanzata/che nell’assalto/si vince o si muor/Avanti, Ardito!”.
Naturalmente c’erano le canzoni degli Alpini e quelle dei Reggimenti (ce ne occuperemo in seguito), ma la canzone più celebre e popolare fu la struggente‘O surdato ‘nnammurato’, scritto da Califano con musica di Cannio, del 1915.“Staje luntana da stu core, a te volo cu ‘o penziero: niente voglio e niente spero/ ca tenerte sempe a fianco a me/ Si’ sicura ‘e chist’ammore/ comm’i’ so’ sicuro ‘e te…/ Oje vita, oje vita mia/ oje core ‘e chistu core/ si’ stata ‘o primmo ammore/ e ‘o primmo e ll’ùrdemo sarraje pe’ me/ …
La canzone, che si diffuse rapidamente, venne ben presto conosciuta (e cantata) anche a La Maddalena, dove era presente una nutrita comunità campana di pescatori oltre ad un bel numero tra militari di mare e di terra. Specialmente nelle barberie presenti in maniera diffusa, e nelle osterie (bettole), poi, s’intonavano cori al suono del popolarissimo mandolino.
Nella prima settimana di settembre del 1915 si combatteva da poco più di tre mesi… (la Grande Guerra era iniziata il 24 maggio 1915).
In quei mesi, oltre a quelle menzionate nella scorsa puntata si cantavano, naturalmente, anche altre canzoni, di quelle che cominciavano a descrivere la presa di coscienza da parte di soldati e marinai, della realtà della guerra.
E così, da un brano come quello di E.A. Mario, Canzone di Trincea …
(“M’affaccio alla trincea sul far del giorno/e il sol mi bacia su la fronte stanca. /Ho un fosso e un muricciuolo per soggiorno/e qualche sorso d’acqua mi rinfranca. /Ma un ritornello nel mio cor non manca/come in caserma lo ricanto qui/ Ho piena di cartucce la giberna/ ed ho la mano pronta e l’occhio audace/e della guerra la vicenda alterna/fa lieto il cor, come se fossi in pace/E un ritornello nel mio cor non tace/come in caserma, lo ricanto qui/ E le stellette/che noi portiamo/son disciplina /di noi soldati/E tu biondina/capricciosa garibaldina/tu la la/tu sei la stella/del primo amor),
si passava a quello del “Monte Nero”:
“Spunta l’alba al quindici giugno/l’artiglieria apriva il fuoco/e gli alpini in grangaloppo/ il Monte Nero a conquistar/ Monte Nero, dove tu sei/o traditor della vita mia?/Ho lasciato la mamma mia/ per venirti a conquistar/ Per venirti a conquistare/abbiam perduto molti compagni/e sull’età dei venti anni/la loro vita non torna mai più/”.
E poi a al Testamento del Capitano, il quale, gravemente ferito, chiama i propri soldati raccomandando loro il proprio corpo:
(“in cinque pezzi sia da taglià/il primo pezzo al Re d’Italia/che si ricordi del suo alpin/Secondo pezzo al Battaglione/che si ricordi del suo Capitan! /Il terzo pezzo alla mia mamma/che si ricordi del suo figliol/ Il quarto pezzo alla mia bella/che si ricordi il suo primo amor/L’ultimo pezzo alla montagne/che lo fioriscano di rose e fior/). Ma chi era al fronte a combattere, soffrire e morire, cominciava anche a rendersi conto come non tutti fossero al fronte a combattere. E già dal 1915 tra i richiamati, ma anche tra i volontari, che non erano pochi, iniziava a serpeggiare la rabbia per gli “imboscati”. Nelle trincee e nelle caserme si cominciò così a cantare, sull’aria della celeberrima canzone ‘O Surdato ‘nnamorato, La sveglia degli imboscati, il cui testo era …
(“E’ finita la cuccagna/gl’imboscati fan partenza, /vanno a fare conoscenza/con il fronte che li aspetta già/Or non più privilegiati/non più figli di papà/ Quando è pronta la tradotta/che trasporta gli imboscati/tutti afflitti e desolati/nei vagoni stanno a sospirar/Mentre chi è già stato al fronte/sorridendo canterà:/ Addio, cuccagna addio /addio sogni beati/La veglia degli imboscati/tutti pe ‘l fronte/li farà partir).
Carlo Alberto Lena nacque a La Maddalena, da famiglia evangelico-valdese, il 26 maggio 1896. Figlio Giovanni Battista (dipendente dello Stato) e Maria Antonietta Zenoglio, quarto di otto figli, conseguì la Licenza Tecnica.
Nel 1915, a 19 anni, ai primi di luglio partì volontario per la Grande Guerra iniziata poco più di un mese prima, il 24 maggio. L’8 luglio del 1915 fu arruolato nel 97° Reggimento di Fanteria, a dopo un addestramento di un mese, il 7 agosto 1915 fu inviato al fronte, “in territorio dichiarato in stato di guerra”. Combatté quasi sempre in prima linea e come ricognitore-esploratore.
Nel febbraio del 1916 fu ammesso al corso Allievi Ufficiali di Complemento, fu promosso Sottotenente di Fanteria il 1° giugno 1916, e venne assegnato al 54° Reggimento di Fanteria. Poco più di un anno dopo, il 25 marzo 1917 ottenne il grado di Tenente.
In vari combattimenti, spesso corpo a corpo, con la baionetta, ricevette diverse ferite, l’ultima molto grave ad un braccio, che lo portò prima all’Ospedale Militare di Livorno e poi, a fine novembre del 1917, all’ Ospedale Marittimo di La Maddalena.
Il 2 settembre 1918 ritornò in servizio, non al fronte, ma presso il 54° Reggimento di Novara. La Grande Guerra stava ormai per finire (4 novembre 1918). Carlo Alberto Lena combatté soprattutto sul Monte Piana.
Ricevette un Encomio Solenne in quanto “Con intelligente attività coadiuvò brillantemente a respingere in un violento attacco nemico. Monte Piana, 13 agosto 1916”. Da aspirante ufficiale di fanteria fu decorato della Medaglia d’Argento al Valor Militare perché “Con magnifico impeto, alla testa del proprio reparto, si slanciava all’attacco di un forte trinceramento austriaco, e, superate le difese avversarie, vi piombava dentro per primo al grido di “Savoia”, espugnandolo e catturandone i difensori. Poco dopo respingeva un contro attacco nemico, e saldamente si rafforzava nella posizione conquistata. Monte Piana 21 agosto 1916″.
Infine ricevette, da ufficiale, un encomio solenne in quanto “Comandante spontaneamente offertosi in una grossa pattuglia uscita dai reticolati a sostegno di altre spintesi in ricognizione, avuto sentore del pericolo che correva una di queste di essere soverchiate da forze nemiche superiori, prontamente correva in suo aiuto. Ricevuto ordine di passare al contrattacco primo fra tutti si slanciava all’inseguimento dando esempio ai suoi uomini di mirabile slancio ed ardimento. Monte Piana, notte tra il 13 e 14 agosto 1917”.
Il tenente Carlo Alberto Lena fu infine “Ferito d’arma da fuoco al braccio sinistro, nel combattimento a Monte Piana, lì 22 ottobre 1917”. Il 10 settembre 1918 fu “Autorizzato a fregiarsi di un distintivo d’onore. Per la ferita riportata”.
Ritornato a La Maddalena dopo la fine della guerra, aprì un emporio.
Questa puntata è a cura del concittadino, appassionato di storia e collezionista Gaetano Nieddu, curatore del Museo Militare allestito presso la Scuola Sottufficiali della Marina Militare di La Maddalena.
La mattina del 27 settembre 1915 la Benedetto Brin è alla fonda nel porto di Brindisi, è una calma giornata di fine estate.
Quindici minuti prima delle otto, a bordo della nave ferve l’attività di tutte le mattine, l’equipaggio si accinge a prendere posto nei rispettivi luoghi di lavoro e gli ordini degli ufficiali suonano alti. I motori, pronti a salpare in caso di allarme, monotonamente girano a basso regime e le amache sono appena state stese sulla coperta per lo “sciorinamento” nella calda mattinata settembrina.
Sembra una giornata come tutte le altre ma la tragedia si compie; alle otto esatte una tremenda esplosione rompe l’apparente calma, l’intero porto è scosso da un rombo pauroso (“come di 1000 cannoni” racconterà poi qualche testimone), la corazzata è scossa da un tremore ed una vampata giallo-rossastra si alza per oltre cento metri. La montagna di ferro sembra tremare per le esplosioni continue e rapidamente si piega di lato ferita e scompare sotto il mare. Sulla superficie restano orribili brandelli di carne umana che galleggiano in un mare rosso di sangue e pietosi risuonano i lamenti dei feriti.
Ben 21 ufficiali su 30 muoiono ed altri 433 uomini dell’equipaggio non faranno più ritorno a casa. Un maddalenino, il Capo Cannoniere di prima classe Ignazio Pittaluga di 41 anni sarà tra le vittime ed insieme a lui morirà il cannoniere scelto Giovanni Battista Volpe di appena 18 anni; il timoniere della potente corazzata è pure maddalenino, il capo timoniere di seconda classe Pietro Serra, ha appena compiuto 28 anni ed anch’egli troverà la morte; uguale sorte subiranno Giovanni Morelli, stessa classe di Serra, anche lui ventottenne ed il cannoniere scelto Domenico Mazzucco di appena ventuno anni; Salvatore Peroni, maddalenino, pur essendo nato ad Alghero, cannoniere del CREM, aveva 19 anni mentre Umberto Michelini di anni ne aveva solo diciotto ed era un semplice marinaio. Dopo il sacrificio la beffa.
Una commissione d’inchiesta stabilì infatti che l’esplosione era stata causata da un atto di sabotaggio compiuto da marinai italiani, pagati dagli austriaci per compiere il tradimento. I responsabili furono scoperti e condannati a morte ma nel 1937 la pena fu tramutata in ergastolo e nel 1942 vennero definitivamente liberati. Le 454 vittime ed i 7 maddalenini erano già stati dimenticati!
Nelle ultime puntate ci siamo soffermati sulle vicende anche tragiche di alcuni maddalenini che hanno partecipato alla Prima Guerra Mondiale sia a terra che a mare. Vediamo ora insieme che cosa era accaduto in quell’ottobre del 1915. Intanto il 5 ottobre le truppe anglo francesi, quelle alleate dell’Italia, violando lo stato di neutralità della Grecia erano sbarcate nel porto di Salonicco. Di contro, il giorno dopo 6 ottobre, ebbe inizio l’offensiva della Prussia e dell’Impero Austroungarico nei confronti della Serbia. Pochi giorni dopo, il 12 ottobre, la Bulgaria era entrata nel conflitto mondiale a fianco delle potenze centrali, dichiarando guerra alla Serbia. Il 18 ottobre iniziò la Terza Battaglia dell’Isonzo. Furono positivi i primi assalti sul Monte San Michele, a sud di Gorizia, ma dopo poche ore i contrattacchi austriaci costrinsero i soldati italiani a retrocedere alle posizioni di partenza.
Il 19 ottobre intanto, l’Italia aveva dichiarato guerra alla Bulgaria. E così anche la Russia. Scritto così sembrerebbe di raccontare, freddamente, la trama di un documentario. In effetti ciascuna delle notizie ricordate e degli eventi citati comportarono per coloro che ne furono gli attori, cioè i soldati e i marinai in guerra, e le popolazioni coinvolte, sacrifici, privazioni, sofferenza, dolore, e morte.
Per quanto riguardava la piazzaforte di La Maddalena, era ben chiaro ormai che nel conflitto non avrebbe avuto alcun ruolo è già qualche pezzo d’artiglieria cominciava a essere smontato per essere inviato laddove era più necessario, e cioè nel Mare Adriatico dove la Regia Marina svolgeva il proprio ruolo. La base continuava ad essere presidiata da alcune navi e dal naviglio minore ma il resto importante della flotta si trovava invece in altri porti più a ridosso dei mari dove si svolgevano le operazioni belliche.
Intanto, proprio dalle navi e dal mare, erano giunte, come è stato scritto nelle ultime puntate, le tragiche notizie dei primi morti maddalenini. Eroi sacrificati per una patria più grande. Così venivano glorificarti dalla propaganda patriottica, necessaria per tenere alto il morale di chi combatteva e di chi li attendeva a casa, retorica nella quale, si badi, bene, in molti ancora credevano, e così venivano definiti nelle scuole dai maestri e dai professori. Ma in effetti altro non erano che figli di mamma crudelmente strappati, in giovane età, alla vita e ai loro affetti.
“Genitori carissimi” scriveva dal fronte, l’8 ottobre 1915, esattamente tre mesi dopo l’arruolamento volontario (8 luglio) nel 97° Reggimento di Fanteria, Carlo Alberto Lena, 19 anni, maddalenino con Licenza Tecnica, figlio Giovanni Battista e Maria Antonietta Zenoglio, “figuratevi che da 26 giorni non mi posso neppure lavare le mani!!! … Perdonatemi se nelle lettere trovate degli errori e nessun ordine, ma che volete c’est la guerre ed il tempo è tanto minimo e misurato. Cosa non pagherei per poter assaggiare un po’ di frutta della nostra bella vigna … ma spero di poter godere quelle che con tanta felice idea mi avete lasciato. Fatemi il favore di abbonarmi al ‘Corriere della Sera’, grazie. Sapete, ogni giorno vi mando qualche cartolina, ma non state in pensiero se non le ricevete; sapete bene che cos’è la guerra”.
Carlo Alberto Lena, che nelle lettere, rispettando gli ordini impartitigli, non cita mai dove si trova lui con il suo battaglione, passa poi a spiegare le condizioni, particolari, di vita, i pidocchi che imperversavano in trincea.
“Nella mia persona (come in quella di tutti i compagni) regnano i Cavalieri-Fagidi in numero infinito. Essi sono vestiti caratteristicamente di bianco, nero, rosso, giallo e fanno delle bellissime escursioni e passeggiate da un’estremità all’altra della persona che ormai non solo vi si è abituata a sopportarli ma … si onora di dar loro ospitalità. Questi Cavalieri davvero senza macchia e senza paura basterebbero per condurci a Vienna. Non ridete, è triste ma è la verità. In un giorno ne levai cento. Dopo poche ore questi sono sostituiti da altri. È incredibile! Ho resistito e spero di resistere ancora … Del resto sopporto tutto volentieri … per la Patria questo ed altro si deve fare. Il nemico ci disturba continuamente per riprendere le sue posizioni; ogni notte vi è qualche attacco o scarica, ma tanto l’uno quanto l’altro vengono sempre respinti”.
Dal maggio 1915 sino alla fine dell’anno il Regio Esercito Italiano e la Regia Marina si scontrarono, senza tregua, con truppe e navi dell’Impero Austro-Ungarico, su un ampio fronte che andava dallo Stelvio al Mare Adriatico. Si combatté in particolare sull’altopiano di Asiago e sulle insanguinate rive del fiume dell’Isonzo.
Il generale Luigi Cadorna, capo supremo delle Forze Armate Italiane, s’intestardì proprio sulla linea dell’Isonzo dove mandò all’assalto e allo sbaraglio, migliaia e migliaia di soldati. Nel 1915 furono quattro le Battaglie dell’Isonzo, una tra giugno e luglio, un’altra tra luglio e agosto, un’altra tra ottobre e novembre e un’altra ancora altra tra novembre dicembre. Attacchi praticamente incessanti, anche all’arma bianca, e molto sanguinosi. Il costo di vite umane fu infatti molto alto ma i risultati piuttosto scarsi.
Quelle battaglie misero fuori uso circa un quarto del contingente italiano, sprovvisto di armi adeguate come anche degli indumenti necessari per fronteggiare il freddo che dai primi di novembre fu un altro nemico da combattere (quell’inverno fu particolarmente rigido specialmente in montagna). E Cadorna fu severissimo. Le insubordinazioni vennero punite con processi marziali e fucilazioni.
Intanto, il 24 novembre la Serbia soccombette e venne conquistata dalle Potenze Centrali, nemiche dell’Italia. Dall’inizio delle ostilità (24 maggio) a tutto dicembre 1915, furono 21 i maddalenini morti in quella guerra; 12 di terra e 9 di mare. Imprecisato il numero dei feriti. Partiti per la guerra, chi con entusiasmo chi con rassegnazione, le salme vennero sepolte, quelle ritrovate, nei luoghi del ‘martirio’. Le cartoline del Regno, Ministero della Guerra, giunsero per 21 volte nelle case di tante famiglie maddalenine, portando lutto, sconforto e dolore.
Per alcuni di loro il parroco Antonio Vico celebrò il penoso rito funebre senza “corpore presente”. Altri furono invece vennero ricordati in cerimonie civili, con sindaco e autorità presenti. Particolarmente i tanti morti maddalenini della corazzata Benedetto Brin, bombardata a Brindisi e affondata in seguito all’esplosione della santa barbara, tragico episodio che destò in tutta la popolazione, militare e civile, molta impressione.
La corrispondenza tra Carlo Alberto Lena, volontario-combattente nella Prima Guerra Mondiale ed i genitori rimasti a La Maddalena, fu fitta. “Genitori carissimi” scriveva dal fronte, nell’autunno del 1915, “mi dispiace moltissimo che non abbiate ricevuto la mia lettera. In essa vi parlavo dell’ultima battaglia a cui presi parte, battaglia che avvenne su di un monte alto 3.200 metri, e in mezzo alla neve che passava le ginocchia. Durò due notti, ed un giorno fu diretta dal L.T. Cadorna in persona e fu coronata da una bella vittoria”.
Carlo Alberto Lena non poteva indicare il luogo dove si trovava né dove si è svolse la battaglia. Battaglia che fu feroce e cruenta, come lui stesso scrisse: “Noi abbiamo delle perdite abbastanza considerevoli; ma dei nemici ben pochi si salvarono. I bavaresi ed i tirolesi combatterono sino all’estremo, e piuttosto che arrendersi si fanno uccidere. Durante l’azione, che fu terribile, lessi alcuni passi dell’Evangelo e fu mentre alzavo la testa e congiungevo le mani per pregare Iddio che una palla mi forò il berretto da parte a parte ed una scheggia di mitraglia mi ferì, ma soltanto leggermente da poterla chiamare scalfittura; infatti non ho avuto bisogno di ricorrere al medico ed ora non vi è rimasto che un piccolissimo segno. Avrei da mandarvi diversi oggetti; ma è proibito spedire proiettili. Sono dei ricordi personali ed ogni soldato, più o meno, ha i suoi. Ho anche un coltello che tolsi ad un nemico mentre tentava di uccidermi. Io andavo per soccorrerlo perché ferito, e lui tentava di ricompensarmi bene …”.
“Vi comunico che”, proseguiva nella sua cruda lettera il giovane soldato Carlo Alberto Lena, “dietro mia domanda, da più di un mese sono diventato esploratore. Potete capire quale sia il mio compito. Me ne capitano delle belle, ma con l’aiuto di Dio mi andrà sempre bene. Una notte fui fatto prigioniero, ma restai tale soltanto per poche ore finché una pattuglia amica mi liberò a tempo. Mi prendo anche qualche gusto, tra cui quello di lasciare di bigliettini firmati, nei reticolati nemici. Non vi parlo delle infamie che questi commettono. Sorpassano ogni immaginazione… È perfettamente inutile parlarvi del freddo …”.
Immaginiamoci, quando il padre Giovanni Battista e la madre Antonietta ricevettero questa lettera del figlio, come dovettero sentirsi …
Dopo quella di Gaetano Nieddu per tre puntate ci avvaliamo della preziosa collaborazione di Tore Abate che ci ha messo a disposizione l’importante suo studio effettuato sulla mobilitazione che ci fu, cent’anni fa, a Maddalena, tra la popolazione più abbiente e non, per andare incontro e sostenere coloro che avevano lasciato le loro case e stavano combattendo, al fronte e sui mari.
La Maddalena “può andare orgogliosa di avere costantemente, durante la guerra, dato prove tangibili del più puro patriottismo e della più salda disciplina. In ogni occasione ha saputo rispondere con superbo slancio di solidarietà e di amore a tutte le iniziative, sbocciate fervide e spontanee per assistere i nostri eroici combattenti, contribuendo così efficacemente a mantenere sempre elevata e pura la sacra fiamma dell’amor patrio e a rinsaldare il fiero proposito di resistere a costo di qualunque sacrificio sino al sicuro conseguimento della vittoria e della pace durature”.
Iniziò con queste parole, traboccanti di enfasi nazionalistica, la descrizione dei pregi degli isolani fatta dal cavalier Pietro Lissia Mariotti, che amministrò il Comune isolano dal luglio del 1917 ai primi mesi del 1919. L’alto funzionario del Ministero dell’Interno era stato inviato a La Maddalena, quale Commissario regio, in seguito allo scioglimento d’autorità del Consiglio comunale, e di un’inchiesta promossa dal Governo, durante la quale furono rilevate gravi irregolarità nella gestione della “cosa pubblica” a livello locale.
L’occasione per elogiare pubblicamente ogni prova di altruismo fornita dalle persone che a vario titolo, e facenti parte di comitati appositamente costituiti, si erano incaricate di fornire assistenza morale e materiale ai concittadini impegnati nel fronte di guerra e alle loro famiglie, fu offerta da un libretto che Lissia fece pubblicare dalla tipografia Scano nel 1918.
Il sostegno ai combattenti, attraverso le iniziative “opportunamente disciplinate”, appunto, da speciali organizzazioni, ma anche dalle autorità pubbliche e dai privati, ebbe avvio sin dal maggio del 1915.
Le società di mutuo soccorso Elena di Montenegro e XX Settembre, i Circoli Risorgimento, Garibaldi, Leone di Caprera, Ufficiali e Sottufficiali della Regia Marina, l’Istituto San Vincenzo, Il Ricreatorio Marinai Duca di Spoleto, le Cooperative Sardegna, Carbonai e Caprera, la Società Esportazione Graniti sardi avevano fornito regolarmente “il loro contributo di illuminato civismo”.
Meritava speciale menzione il Circolo Sottufficiali, presieduto da Enrico Ragusa, capo furiere di Prima classe – e Gran Maestro della Loggia Massonica Giuseppe Garibaldi- che aveva promosso, tra le altre iniziative benemerite, nell’ottobre dell’anno 1915, una raccolta di lana a favore dei soldati al fronte: una sottoscrizione aperta fra i soci aveva permesso di raccogliere una somma piuttosto importante per l’acquisto della materia prima che fu lavorata dalle famiglie dei sottufficiali per confezionare maglie, sciarpe, berretti, guanti ed altro.
Il Circolo Risorgimento e la Cooperativa Caprera, costituiti esclusivamente dalle maestranze del Cantiere della Regia Marina, avevano fornito un rilevante aiuto in danaro alle famiglie dei profughi e dei prigionieri di guerra. Le suore dell’Istituto San Vincenzo avevano somministrato, e continuavano a farlo, gratuitamente i pasti ai figli dei richiamati le cui famiglie si trovavano in stato di necessità.
Le donne isolane, senza distinzione di censo, avevano dato “costante prova di abnegazione”, confezionando indumenti di lana per i combattenti e prendendo parte a diverse attività di assistenza.
“Speciale menzione – scriveva Lissia – meritano, fra le altre, la signorina Chiarloni Giulia, la quale volontariamente passò un anno al fronte quale infermiera, guadagnandosi la medaglia d’argento di benemerenza e le signore Lucia Grondona Manini e Maria Capra Falconi, le quali con provvida iniziativa, fin dal 1915, raccolsero L. 353,00 e confezionarono, col valido concorso delle signorine Maria e Italia Lena, delle signore Maria Italia Gallo vedova Vico, Rosina Santini, Annita Falconi Poppi e delle educande dell’Asilo San Vincenzo, 18 passamontagna, 18 sciarpe, 31 ponci, 11 paia di guanti … “ e altro “di cui curarono l’invio al Comando del 152 Reggimento Fanteria di Milizia Mobile. Per interessamento delle stesse signorine ebbe luogo nel Palazzo Municipale un’esposizione di lavori femminili, il cui ricavo in L. 1800,35 venne devoluto al Comitato locale della Croce Rossa Marittima”.
Il Comune, dal canto suo, aveva dato il proprio sostegno, da ente istituzionale, alle famiglie meno abbienti dei richiamati, finanziando lo stesso Comitato della Croce Rossa e provvedendo direttamente a fornire le cure sanitarie e i medicinali gratuiti. E aveva promosso tante altre iniziative non meno nobili, nonostante la pubblica censura comminata nei confronti del Sindaco, della Giunta e dell’intero Consiglio Comunale, negli stessi momenti in cui i giovani isolani partivano per fare la guerra, avesse fatto credere che gli amministratori fossero occupati totalmente in faccende decisamente meno lodevoli.
“Dichiarata la guerra all’Austria – continuava Lissia – La Maddalena si preoccupò subito delle sorti delle più umili famiglie dei militari richiamati o di leva e con amorevole cura avvisò ai mezzi necessari per lenire almeno i bisogni più gravi e impellenti”. Fu costituito un Comitato Generale di “Oblatori Volontari”, e la presidenza fu affidata al primo cittadino, Giuseppe Susini. In seno all’organizzazione fu nominato un Comitato Esecutivo, presieduto da Pietro Azara e composto da Attilio Grondona, cassiere, da Salvatore Madrau, segretario, e da Vincenzo Scotto, Paolo Spano, don Antonio Vico (il parroco dell’epoca), Angelo Del Bene, Federico Bisconti, Carlo Aiassa, Michele Petri, Antonio Barago.
Nel 1915 era stato costituito anche quel Comitato della Croce Rossa che poteva vantare soci di rango sociale elevato e personalità di spicco come donna Francesca Armosino Garibaldi, lo stesso Giuseppe Susini, il medico Giuseppe Regnoli, Pietro Bisogno, presidente della Società di Mutuo Soccorso degli “Arsenalotti” e della Cooperativa Caprera, e da tante altre donne e tanti altri uomini che rappresentavano il fior fiore della borghesia dell’allora “Petite Paris”.
Questo Comitato, nel primo del conflitto, attraverso feste di beneficienza, esposizioni di lavori femminili, contributi di varia natura, riuscì a raccogliere molto danaro da devolvere a beneficio dei soldati e delle loro famiglie: in particolare, nel settembre del 1915, da una festa organizzata al teatro Verdi, furono ricavate 789,15 lire e da un’altra, alla Sala Umberto, nel novembre dello stesso anno, 268.80 lire.
Non lesinarono il loro sostegno economico neppure, a titolo personale, i privati cittadini: le offerte più consistenti furono quelle di donna Maria Webber Tamponi, di donna Francesca Garibaldi, di Pietro Frau, di Giuseppe Manini, di Girolamo Zicavo, ex sindaco, di Attilio Grondona, titolare dell’impresa Esportazione Graniti Sardi (che gestiva le cave di Cala Francese), dell’avvocato Domenico Culiolo, di Giuseppe Larco, di Carlo Aiassa, di Giuseppe Susini, di Pietro Azara, di Paolo Consigli, gestore di un grande bazar al centro della città, di Aurelio Susini, di Giovanni Maria Loriga, di Arcangelo Manconi, di suor Maria Elisa Gotteland, superiora dell’Istituto San Vincenzo, di Tommaso Volpe, di Ambrogio Corneletti, di Andrea Raffo, di Francesco Peretti, di Giovanni Casale, di Carlo Farina, di Pompilio Bargone, di Nicolò Bertorino, di Giuseppe Tanca e di Antonio Garau.
Si trattava di commercianti, di imprenditori, di professionisti, di uomini e di donne che rivestivano un ruolo fondamentale nella società maddalenina.
Vincenzo Secci era un maddalenino che, come tanti altri, e come diversi membri della sua famiglia, giunta nel corso dell’Ottocento alla Maddalena, aveva intrapreso la strada militare, nella Regia Marina. Arruolatosi molto giovane ebbe diverse destinazioni fino a quella di imbarco su un dirigibile. Nell’agosto del 1913 infatti, fu consegnato alla Regia Marina il primo dirigibile navale, l’M2, poi battezzato “Città di Ferrara”. E dopo relativo addestramento, il secondo nocchiere Vincenzo Secci ebbe l’importante incarico di timoniere.
Allo scoppio della Prima Guerra Mondiale, la Marina utilizzò la sua flotta di dirigibili sia per il bombardamento delle basi della Marina Austroungarica, sia per la ricognizione e il controllo dell’Adriatico. Quando l’Italia entrò in guerra, il 24 maggio del 1915, il maddalenino Vincenzo Secci si trovava in congedo, ma il senso del dovere e l’amor di patria lo portarono a chiedere l’immediato reintegro. In pochi giorni raggiunse Jesi, in Provincia di Ancona, nelle Marche, sede operativa del “Città di Ferrara” (o M2), dirigibile posto agli ordini del tenente di vascello Castracane.
Il “Città di Ferrara era uno dei due dirigibili assegnati alla Regia Marina, l’altro era il “Città di Jesi”. Altri tre dirigibili erano assegnati all’Aeronautica e all’Esercito.
In una prima missione il “Città di Ferrara”, dopo essere stato cannoneggiato da una nave Austroungarica, tentò a sua volta di colpire una nave nemica che aveva bombardato la cittadina di Senigallia, nelle Marche, senza peraltro riuscire, con le bombe sganciate, a colpirla.
Nella notte sul 27 maggio il “Città di Ferrara”, decollato da Jesi, su ordine del Comando in Capo di Venezia, riuscì a lanciare il suo carico di bombe su alcune navi alla fonda davanti a Sebenico. Altra e ultima missione fu nella notte sul 7 giugno 1915. L’obiettivo era quello di andare a colpire il silurificio Whitehead di Fiume, sganciandovi le proprie bombe.
E qui il nostro timoniere maddalenino si meritò la Medaglia di Bronzo. La motivazione ci spiega, non solo il perché ma anche come andarono le cose. Così è scritto: “Trovandosi in congedo al momento della mobilitazione chiedeva ed otteneva di raggiungere la sua antica destinazione su un dirigibile. Timoniere provetto dirigeva il Città di Ferrara sul bersaglio nella sua ultima missione, non smentendo le sue qualità di calma e di coraggio, prima, durante e dopo la caduta in mare e la distruzione del dirigibile. 2 maggio- 8 giugno 1915”.
Degli uomini dell’equipaggio, 2 morirono mentre gli altri, finiti in mare, vennero fatti prigionieri. Tra questi Vincenzo Secci.
La sera della vigilia di Natale del 1915 il parroco di La Maddalena Antonio Vico (allora era solo una la Parrocchia), intonò con la sua voce baritonale, le prime note della Novena di Natale. Non era accompagnato dall’organo, questa volta, perché il giovane che vi si cimentava era stato richiamato in guerra.
Erano le cinque e mezza e il sacrestano veneto, Antonio Bordignon, aveva acceso lumi e candele per rischiarare la Chiesa ormai buia e fredda. Le avrebbe spente una mezz’oretta più tardi per poi riaccenderle, questa volta tutte quelle disponibili, alle 23:30, per l’inizio della Messa di Mezzanotte.
Sia la Novena che la Messa della Natività furono gremitissime di fedeli, intere famiglie vi si recarono, anche quelle non abituali alle sacre funzioni ma il Natale è … il Natale. Anche perché tante di loro, ma tante, avevano padri, fratelli, figli, giovani sposi, lontani, molto lontani, al fronte o per mare.
Don Vico, nell’omelia non poté non ricordare il momento particolarmente difficile che l’Italia e la comunità maddalenina stavano vivendo, e la commozione, insieme all’angoscia, assalì coloro che erano presenti.
Dall’inizio della guerra erano stati 21 i maddalenini deceduti. E quasi tutti giovanissimi, e figli del popolo: di panettieri, di muratori, di calzolai, di fanalisti, di agricoltori, di pescatori, di sarti, di scalpellini, di marittimi, … E nessuno di quei poveri figli di mamma lo si era potuto riportare a casa, per nessuno di loro, i familiari, potevano recarsi su una tomba per piangerli. Non solo ma di molti di loro non solo si ignorava il luogo di sepoltura ma addirittura la sorte. Molti, forse una cinquantina, erano rimasti feriti, alcuni anche gravemente, durante le operazioni di terra e di mare. Erano giorni di nostalgia e di angoscia.
“Una nube di tristezza avvolge anche quest’anno la lieta solennità Natalizia”, ebbe a dire alla vigilia di Natale 1915 Papa Benedetto XV.
“L’espressione dei sentimenti ispirati dalla soave ricorrenza, non ha potuto spogliare la sua commossa parola della lugubre veste del comune dolore. Se infatti volgiamo lo sguardo a vicine ed a lontane regioni, Ci colpisce anche oggi il ferale spettacolo di una umana carneficina, e se nell’anno scorso lamentavamo, in somigliante circostanza, l’ampiezza, la ferocia, gli effetti del tremendo conflitto, oggi dobbiamo deplorare l’espansione, la pertinacia, l’oltranza, aggravate da quelle micidiali conseguenze che del mondo hanno fatto ospedale ed ossario, e dell’appariscente progresso della umana civiltà un anticristiano regresso”.
“Quando l’uomo ha indurito il suo cuore e l’odio ha pervaso la terra”; andò a concludere Papa Benedetto XV, “quando imperversano il ferro ed il fuoco ed il mondo risuona di armi e di pianti; quando gli umani accorgimenti si sono mostrati fallaci ed esula ogni civile benessere, la fede e la storia Ci additano, come unico scampo, la Onnipotenza supplichevole, la Mediatrice di ogni grazia, Maria… e allora con sicura fiducia diciamo: Regina pacis, ora pro nobis!”.
In quest’ ultima puntata relativa all’anno di guerra 2015 pubblichiamo l’interessante contributo di Gaetano Nieddu (appassionato di storia e collezionista, curatore del Museo Militare allestito presso la Scuola Sottufficiali di La Maddalena) sulla storia di 3 fratelli nati da padre piemontese e mamma maddalenina, richiamati o volontari in guerra. Solo due di loro, dopo tre anni di pericoli, di sacrifici, di fatiche, riuscirono a tornare a casa …
I tre giovani fratelli, Carlo, Umberto e Giuseppe Bergonzelli, sono figli di un piemontese trasferitosi a La Maddalena e sposatosi con una bella e giovane locale: Isolina Mazzella.
Carlo è il maggiore dei tre, nel 1915 ha 24 anni ed esercita la professione di scalpellino. Subito dopo la dichiarazione di guerra viene chiamato alle armi ed è inquadrato nella Brigata “Reggio” che, insieme alla “Sassari” è composta in maggior parte da soldati sardi. Carlo la guerra la combatte davvero; per ben due anni affronterà gli scontri a fuoco con il nemico, i corpo a corpo e le sofferenze della vita di trincea. La sua Brigata combatte duramente nel Cadore e sul Monte Sief che riesce prima a conquistare e poi a resistere ai violenti contrattacchi, a costo di pesanti sacrifici. Nel maggio del 1917 Carlo lascia la “Reggio” per entrare a far parte dei Reparti Mitraglieri Fiat, reparti che combattono sempre in primissima linea.
Umberto nel 1915 ha invece 19 anni, è il minore dei tre ed è militare di leva nella Brigata “Cremona”. Nell’estate del 1916 questa unità è impegnata in sanguinosi combattimenti di trincea, fatti di attacchi e contrattacchi, in un’alternanza che solo l’immenso calderone della prima guerra mondiale ha potuto concepire. In quei giorni, durante un combattimento notturno, di Umberto si perdono le tracce e non si hanno più notizie. È iniziato da poco il mese di luglio di una pesante e calda estate, a La Maddalena ci si avvicina alla festa patronale di S. M. Maddalena ma il clima generale è condizionato dall’ansia di decine di famiglie per le sorti di figli e mariti sparsi lungo tutto il fronte della guerra. La notizia che arriva alla madre Isolina, è laconica e cruda come sanno essere le notizie sconvolgenti: Umberto è disperso; “disperso” una sola parola e tutto piomba nel buio più fitto, nella disperazione. Dopo i primi giorni di speranza, passano le settimane e poi i mesi, senza che niente muti la situazione, Umberto sembra essere svanito nel nulla. Tra l’altro arrivano notizie di furiosi combattimenti e perdite gravissime anche dai fronti nei quali sono impegnati gli altri due fratelli, Carlo e Giuseppe.
Trascorrono così ben undici mesi quando, il 19 giungo del 1917, il quotidiano “Il Giornale d’Italia” pubblica una notizia, con tanto di foto, che riguarda la scoperta, da parte della Santa Sede, della sorte di un giovane soldato dato per disperso molti mesi prima, si tratta proprio del maddalenino Umberto Bergonzelli! Dopo mesi di angoscia, dice lo scritto, i famigliari hanno finalmente potuto apprendere, grazie alla Santa Sede, che il giovane soldato è morto nella notte del 6 luglio 1916, presso Monfalcone, ucciso dalle pallottole austriache. È la fine!
“Il Bergonzelli”, scriveva il giornale, “era partito per il fronte con tutto l’entusiasmo dei suoi venti anni per dare il suo braccio per la grandezza della Patria, ma il caso ha voluto che vi trovasse la morte che sarà pianta amaramente dai parenti e dagli amici che lo amavano tanto”. È stato sotterrato nel Camposanto militare di Goriansko (Kinstenhaband). Sin dal 1915, come già scritto, la base navale di La Maddalena era stata in parte sguarnita, sia di navi che di armamenti, inviati a Nord-Est, sul fronte di guerra, terreste e marino. Nelle acque della Sardegna tuttavia e anche attorno all’Arcipelago, non si respirava aria tranquilla ed alta era la vigilanza per le poche navi della flotta che incrociavano nell’Arcipelago e per quelle che di tanto in tanto facevano approdo nell’estuario per interventi di manutenzione e rifornimenti. Timore c’era anche per il Postale e per altre unità mercantili che collegavano La Maddalena con Terranova, Cagliari, Porto Torres e il Continente.
Si avrà modo, più avanti, di parlare dell’affondamento, avvenuto nel 1918, del piroscafo Tripoli, partito da Golfo Aranci per Civitavecchia, carico di persone, tra le quali di un’ottantina di militari che da La Maddalena si stavano trasferendo in Continente.
Anche nell’Arcipelago fece viva impressione l’affondamento, avvenuto il 7 novembre 1915, nel Golfo di Cagliari, del piroscafo passeggeri Ancona, in seguito a siluramento di un sommergibile tedesco. Partito da Napoli e diretto a New York, l’Ancona trasportava 496 passeggeri. Ci furono 206 vittime, la maggior parte dei quali emigranti, donne e bambini. Nei primi mesi del 1916, secondo anno di guerra, nella Base di La Maddalena venivano applicate particolari misure precauzionali come quello di un continuo stato d’allerta, di serrati controlli, e di immergerla la notte nell’oscurità. Chi era al comando era consapevole del fatto che le navi alla fonda potessero essere vulnerabili e soggette ai pericoli dei siluri dei sottomarini tedeschi.
C’era infatti chi dubitava che pezzi delle batterie costiere in uso, ne avrebbero potuto avere ragione, come anche di un attacco navale. Attilio Deffenu (scrittore e uomo politico), nel 1914, sul giornale Sardegna, pur riconoscendo che a La Maddalena vi fossero fortezze poderose, e tali erano, scrisse però che queste erano dotate di “cannoni vecchi di vent’anni e gli ultimi arrivati possiedono una gittata massima di soli 14 km, mentre le navi avversarie possono sparare ad una distanza utile di ben 18 km”.
Ancora più polemico Deffenu era stato scrivendo che “quelli della Maddalena sono cannoni che ornano non armano”, esprimendo nell’articolo non posizioni disfattiste bensì proponenti il potenziamento della Base. Ha scritto Enrico A. Valsecchi* che la polemica si incentrava su “batterie di concezione superata, su pezzi montati su ruote e su artiglierie vecchie di vent’anni, mentre avrebbero dovuto essere rinnovate ogni 10 anni. Tutti i cannoni avevano portata massima di otto miglia. In seguito si sarebbe rimediato con nuove bocche da fuoco”.
(*La Notte del Tripoli, di Enrico A. Valsecchi, Editrice Moderna, Sassari. Dallo stesso libro sono tratte le affermazione di Attilio Deffenu.)
Abbiamo parlato, nell’ultima puntata, del precario armamento della piazzaforte maddalenina e dei pericoli che nel corso della Prima Guerra Mondiale potevano venire dal mare, dalle navi ma soprattutto dai sommergibili nemici.
Agli inizi del 1916 era ancora vivo in tutti i maddalenini il ricordo drammatico, ed ancora sanguinante nei familiari, dei morti, dei feriti e dei dispersi della corazzata Benedetto Brin, affondata nel porto di Brindisi per lo scoppio della santabarbara in seguito ad un sabotaggio. Ma le notizie della guerra arrivavano anche dalle molto più vicine coste della Sardegna.
Il 7 novembre 1915 c’era stato l’affondamento del piroscafo passeggeri “Ancona”, a largo del Golfo di Cagliari (che effettuava la tratta Napoli-New York), in seguito a siluramento da parte del sommergibile tedesco U-38. La nave trasportava, con i 173 uomini d’equipaggio, 496 passeggeri, la maggior parte dei quali emigranti in America; c’erano anche donne e bambini. Le vittime furono 206. La nave trasportava una tonnellata d’oro (valore: da 22 a 48 milioni di euro). Era il pagamento agli Usa per un carico di armi che il Governo Italiano aveva acquistato in segreto, per combattere l’Austria. Quel carico insieme alle vittime giacciono ancora negli abissi del Mar di Sardegna.
In quello stesso giorno lo stesso sommergibile tedesco aveva fondato il piroscafo “France”, al largo di Capo Sandalo (isola di San Pietro). Non ci furono fortunatamente morti essendo stati i naufraghi salvati da un rimorchiatore e trasportati a Cagliari. In quel mese di novembre nelle acque meridionale della Sardegna erano stati affondati anche i piroscafi francesi Dahra. Algerien, Calvados, Ionio e Sidi Ferruch.
E se i sommergibili tedeschi intervenivano, indisturbati, a Sud dell’Isola Madre, era possibile che da un momento all’altro potessero agire anche al Nord, dalle parti dell’Arcipelago?
Anche in questa puntata come in quella precedente ritorniamo al 1915, alle prime settimane di guerra. Dal medagliere pubblicato da un supplemento del 1965 de Il Molo, un giornale che uscì alla Maddalena negli anni Sessanta, risultano i nomi di due maddalenini che, partecipanti alla Prima Guerra Mondiale, per le loro azioni ricevettero la Medaglia di Bronzo.
Il primo di questi fu il sottotenente di complemento di Artiglieria Manlio Goffi, con la seguente motivazione. “Comandante di sezione, pur essendo per tutto il giorno la batteria sotto il tiro di artiglierie avversarie, con calma e serenità comandò la sua sezione, esponendosi con disprezzo del pericolo verso il pezzo più bersagliato e rincuorando con l’esempio i suoi dipendenti. (Dolina, 18 giugno 1915)”.
L’altro maddalenino che, anche lui da vivo, ricevette la Medaglia di Bronzo fu il soldato di Fanteria Francesco Virgilio. Il suo teatro d’azione fu Polazzo, una frazione del Comune di Fogliano Redipuglia, in provincia di Gorizia, nel Basso Isonzo, in Friuli-Venezia Giulia. Probabilmente arruolato nella Brigata Cagliari, nelle trincee di Palazzo visse i drammatici momenti di quelle prime settimane di guerra, tra le linee italiane e le trincee e i reticolati nemici. L’impegno in quelle settimane (si stava combattendo la Seconda battaglia dell’Isonzo, dal 18 luglio al 10 agosto 1915) era quella di conquistare diverse opere trincerate nemiche del Monte Sei Busi (alto appena118), più o meno come il nostro Puntiglione.
Il maddalenino soldato di fanteria Virgilio Francesco faceva parte di piccole pattuglie che uscivano la notte per effettuare le ricognizioni. Molti fanti più volte cercarono di incunearsi nel tentativo di raggiungere il Monte Sei Busi in questo ostacolati dalle poderose barriere di filo spinato. Accaniti combattimenti, effettuati fucili, baionette, bombe a mano e fuoco di fucileria, portarono alla conquista di importanti trincee. Fu proprio il 21 luglio 1915 che i fanti italiani, riuscendo a superare i reticolati, occupando finalmente una importante trincea.
I morti e feriti in quelle settimane furono migliaia. Per i fatti bellici di quella giornata Francesco Virgilio, ebbe la medaglia di Bronzo con questa motivazione: “Latore di ordini, eseguiva i suoi compiti con zelo. Più volte, sotto l’intenso fuoco nemico, si portava spontaneamente a breve distanza da reticolati avversari, per ricognizioni riuscite utili”. Polazzo, 21 luglio 1915.
Anche in questa puntata facciamo un passo indietro tornando al 1915, per segnalare l’attribuzione di due medaglie d’argento a due concittadini maddalenini. La fonte da cui attingiamo è ancora il supplemento al periodico Il Molo. Si tratta di un militare di Marina e di due di Fanteria, entrambi ufficiali.
Nel primo caso parliamo del capitano di fregata Gio Batta Tanca, il quale, il 13 agosto 1915 meritò la medaglia d’argento “per l’ardimento, la risolutezza e l’abilità con cui, comandante di una squadriglia cacciatorpediniere, compiva difficili missioni di guerra e per le efficaci disposizioni date alla squadriglia al suo comando, per la ricerca di un sommergibile nemico che condusse al suo affondamento”. Tanca era evidentemente un ufficiale particolarmente preparato che si trovava a comandare non solo la torpediniera della quale era al comando ma addirittura una squadriglia. E nell’occasione citata, l’operazione da lui condotta portò all’affondamento del sommergibile probabilmente tedesco.
L’altra medaglia d’argento fu consegnata a un altro ufficiale, questa volta dell’Esercito, Luigi Frau, sottotenente di Fanteria. Era comandante di compagnia e, il 14 agosto 1915, presso Bosco Cappuccio, nel Carco, “rimasto ferito, dopo essersi fatto medicare ritornava subito sulla linea di fuoco e riprendeva il comando del reparto”.
Medesimo riconoscimento fu assegnato a Nicola Montesi, anche lui sottotenente di Fanteria, anche lui per i fatti d’arme svoltisi a Bosco Cappuccio, zona Vallone San Martino del Carso. Montesi ebbe la medaglia “per il comportamento tenuto”, allorquando “già segnalatosi per ardire e intelligenza nel condurre pattuglie in ricognizione, in combattimento, ferito, riusciva col suo energico contegno a riportarlo avanti finché un altro ufficiale poté assumerne il comando”.
Frau e Montesi si distinsero in quella sporca e logorante guerra di trincea, fatta di ricognizioni, assalti, contro assalti, nei quali perì tanta bella gioventù italiana. Non abbiamo avuto modo di avere ulteriori notizie di questi tre concittadini, uno dei quali, Montesi, venne ferito, probabilmente in maniera seria. Se qualcuno dei lettori avesse ulteriori notizie da inviarci sarebbero ovviamente molto gradite in quanto consentirebbero approfondire ulteriormente questa storia che andiamo a raccontare, soprattutto darebbe ulteriore memoria a questi tre maddalenini che alla guerra sacrificarono alcuni dei migliori anni della loro vita, se non la vita loro stessa vita.
Carlo Alberto Lena, maddalenino combattente nella Prima Guerra Mondiale, scriveva spesso ai genitori. Questa lettera, dell’11 febbraio 1916 è indirizzata alla madre Antonietta, all’indirizzo di via Garibaldi n. 38.
“Mamma carissima, prima di ogni altra cosa permettimi che ti premetta questo: salute, ottima; tempo, stupendo; morale, altissimo; umore, discreto; igiene, straordinaria; pagliericci, ben imbottito!”. La voglia di scherzare e un po’ di ironia con la quale cercava di tranquillizzare la madre all’inizio della lettera non nasconde il suo vero stato d’animo e la struggente nostalgia, che emerge nel proseguo quando scrive:
“Mamma, scrivimi con le tue mani, tanto che io possa vedere il tuo carattere e lo bagni con le mie lacrime. Credi pure, o mammina, che io ti penso straordinariamente …”. Decisamente meglio è l’umore in un’altra, del 25 aprile dello stesso anno 1916: “Mammina adorata, oggi è il più bel giorno della mia vita… Questo giorno solenne lo passo tra le nevi in alta montagna e dinanzi al nemico; in questo giorno io vengo promosso Ufficiale … Proprio oggi ci sono stati gli esami. Su 25 allievi sono risultato il primo e sono stato classificato ottimo; il Sig. Colonnello mi ha fatto un bello elogio e tutti gli ufficiali mi hanno fatto i loro complimenti ed i loro auguri. Mi sono fatto veramente onore e figuratevi la mia soddisfazione e la mia felicità … Per me è stata una grande vittoria morale. Gioite con me e con me ringraziate il Signore. Nel teorico andai molto bene; nel pratico mi fecero comandare il Plotone mentre nevicava straordinariamente e lo condussi alla conquista di una piccola posizione con tanta calma, energia e valentia tattica … Sia lodato il Cielo … Siccome cambierò Reggimento non scrivetemi più fintantoché non vi manderò il nuovo indirizzo. Un milione di baci, Carlo Alberto”.
d arricchire la storia della Prima Guerra Mondiale e dei suoi combattenti maddalenini pubblichiamo il prezioso contributo di Lino Sorba, studioso di storia ed arte isolana, attore e regista.
Il Sottotenente Sebastiano Stanislao Mario Baffigo era nato a La Maddalena (come si può desumere dai registri custoditi nei rispettivi archivi parrocchiale e comunale), il 20 agosto 1894 in una abitazione di Via Vittorio Emanuele, da Augusto Domenico Baffigo, nocchiere di I° Classe della Regia Marina e da Maria Nunzia Dessimone, donna di casa. Era il terzogenito della coppia.
La primogenita si chiamava Rosa Ottavia ed era nata a Carloforte il 17 febbraio 1891. Il secondo, Luigi, era nato anch’egli a Carloforte il 20 agosto 1892 e il terzo, Sebastiano, a La Maddalena. Probabilmente il Sottotenente Baffigo è cresciuto all’isola, ma la sua infanzia fu ben presto turbata da luttuosi eventi: la morte del fratello avvenuta a La Maddalena l’11 settembre 1906 e, assai sconcertante, il suicidio del padre avvenuto il 17 luglio 1910, che turbò profondamente gli animi della famiglia e segnò in maniera indelebile la vita dello stesso Sebastiano.
Arruolatosi come volontario nell’Esercito del Regno di Sardegna, fu assegnato al 47º Reggimento Fanteria (Brigata “Ferrara”) che, oltre ad essere stato impegnato nella Terza Guerra d’Indipendenza nel 1866 (Custoza), operò in Eritrea per un decennio dal 1877 al 1888. Nel 1908 partecipò alle operazioni di soccorso delle popolazioni colpite dal terremoto di Messina, meritandosi la medaglia d’argento per benemerenza. Durante la prima guerra mondiale fu impegnato sul Carso, sull’Isonzo e sul Piave.
Fu proprio in quelle zone che il Sottotenente Baffigo conobbe Emilia Ventujol, nativa di Treviso, che sposò il 14 marzo 1914 e dalla quale ebbe due figli, Augusto e Sebastiana, e in quei luoghi il 6 gennaio del 1916 all’età di 21 anni, cadde colpito a morte e lì venne seppellito.
A distanza di qualche anno dalla conclusione del conflitto mondiale, i resti mortali del Sottotenente Baffigo furono traslati a La Maddalena nel lontano giugno 1923. A rendergli omaggio c’era l’intera popolazione, quasi a celebrare le gesta di un eroe nazionale e, da allora, riposano nel Civico Cimitero nella cripta della tomba della Famiglia Sorba, a fianco a quelli di Luigi e di Rosa Ottavia in Dalla Rizza, deceduta a La Maddalena il 29 aprile del 1916.
“In Vallo di Ledro, l’avversario, dopo intensa preparazione di fuoco di artiglieria, attaccò insistentemente le nostre posizioni a settentrione della Conca di Bezzecca. Gli attacchi, respinti il giorno 13, si rinnovarono il 14 con maggiore violenza, ma furono parimenti ributtati. Sul Carso è continuata ieri l’azione. Per tutto il giorno, l’artiglieria nemica concentrò violento e ininterrotto fuoco di pezzi di ogni calibro sul trinceramento delle ‘Frasche’, a fine di snidare le nostre fanterie. Gli intrepidi sardi della Brigata Sassari resistettero però saldamente sulle conquistate posizioni e, con ammirevole slancio, espugnarono l’altro vicino ed importante trinceramento detto dei ‘Razzi’. Fecero nemico 278 prigionieri dei quali 11 ufficiali. Generale Cadorna”.
Il comunicato del Comando Supremo era della metà di novembre 1915. E dà l’idea di come stesse procedendo la guerra. E riguarda la Brigata Sassari nella quale combattevano anche alcuni maddalenini. In effetti in quegli ultimi mesi del 1915 e nei primi del 1916 il confronto bellico tra Italia e Austria Ungheria aveva luogo nelle trincee. Una guerra di logoramento, combattuta sotto la pioggia, il gelo, la neve.
I messaggi di Cadorna venivano letti, anche a La Maddalena, nelle scuole cittadine, e nelle caserme militari, e di tanto in tanto anche nelle manifestazioni pubbliche che venivano organizzare che venivano organizzate, nella Piazza del Comune, per sostenere il morale della popolazione.
Il generalissimo Cadorna, era ammirato ed esaltato nelle occasioni ufficiali ma fortemente criticato, ovviamente a voce bassissima, da molti militari e dalla popolazione. Cadorna, cresciuto ed educato secondo superati criteri militari di combattimento, insisteva in quei mesi con la tattica dell’attacco frontale dei fanti, i quali avevano il compito di sfondare, costasse quel che costasse, le linee avversarie. Basti ricordare che Cadorna fece combattere sull’Isonzo una decina di battaglie costate oltre 100.000 morti. Insensate carneficine di soldati lanciati alla baionetta contro cannoni e mitragliatrici, che al massimo facevano conquistare piccole posizioni che poi, spesso, venivano riprese dai nemici.
E dietro ai soldati e ai loro ufficiali (in genere tenenti e sottotenenti), che si ponevano alla testa dell’assalto, c’erano i reparti dei Regi Carabinieri, i quali avevano l’ordine perentorio di sparare su chi, più per terrore che per codardia, non riusciva ad avanzare.
Abbiamo iniziato il racconto sugli anni della prima guerra mondiale, iniziando dal 1914, ed ora siamo giunti alla 46ª puntata. La ricerca è partita con un piano di massima e con poco materiale che a mano a mano è andato ad arricchirsi con ulteriori ricerche e notizie, grazie anche al contributo di diversi lettori e collaboratori. Questo il motivo per il quale di volta in volta può capitare di fare dei passi indietro, necessariamente utili per approfondimenti, aggiunte ed integrazioni.
In questa puntata soffermiamo un attimo l’attenzione sulla piazzaforte militare prima e dopo l’entrata in guerra dell’Italia. È forse utile ricordare che, nel marzo 1887, fu costituito il Comando di Difesa Locale Marittima di La Maddalena con sede a bordo della nave militare Dora; che nel marzo 1889 veniva costituita la Stazione Torpediniere con competenza su tutte le coste della Sardegna; che negli anni successivi venne costruito e aperto l’Ospedale Militare Marittimo e successivamente fu destinato, quale comandante della base di La Maddalena un contrammiraglio che temporaneamente ebbe il comando sulla Fregata Corazzata Palestro.
Nel 1891 iniziò la costruzione del Regio Cantiere di Moneta e nel 1893 La Maddalena fu designata quale sede di Comando Militare Marittimo, con giurisdizione militare marittima sul litorale della Sardegna ed isole adiacenti.
Fotografiamo ora, dopo una ricerca presso fonti militari, la situazione della piazzaforte militare marittima all’agosto del 1914, momento di inizio delle ostilità dalle quali fino al 1915 rimase esclusa l’Italia.
Per il resto del 1914 per i primi mesi del 1915 erano ormeggiate nelle banchine militari o all’ancora nella rada tra Maddalena, Caprera e Santo Stefano, la 2ª Squadriglia Torpediniere d’alto mare, composta 6 navi, e la 7 ª Squadriglia Torpediniere costiere, anch’essa composta da 6 navi. C’era inoltre ormeggiato il Lombardia, nave appoggio sommergibili, ed i battelli Atropo, Fisalia e Jantina. La base militare di La Maddalena aveva anche la presenza della nave cisterna Verde e di un’altra decina di unità minori, più o meno efficienti, utilizzate per i servizi interni, per gli spostamenti all’interno dell’estuario e per i collegamenti con le isole dell’Arcipelago, e col resto della Sardegna.
In tutto la Base era forte di 13 navi da combattimento oltre che di uno svariato numero di mezzi minori. Come già detto in altre puntate, fu solo dopo il maggio del 1915 o meglio dopo l’estate 1915, consolidata l’alleanza con la Francia (la base di La Maddalena era stata concepita e realizzata in funzione antifrancese e a difesa da una invasione transalpina), che da parte dello Stato Maggiore della Regia Marina si decise di cominciare ad indebolire la presenza della flotta (e sguarnire la Base), buona parte della quale venne trasferita nel mare Ionio e soprattutto nel mare Adriatico, vero teatro di guerra. E, come abbiamo già detto, anche diversi cannoni e batterie costiere, anche piuttosto moderni (anche se c’è da ricordare le polemiche dell’epoca su diversi armamenti obsoleti), con gli uomini specializzati nel loro utilizzo, furono trasferiti sul fronte terrestre, in particolare nel Veneto.
Durante il conflitto mondiale le poche navi militari rimaste alla Maddalena furono impiegate soprattutto per i collegamenti con il resto della Sardegna e col Continente, e per vigilare sui sommergibili nemici. Incombenza che si manifestò inutile in occasione dell’affondamento della nave da trasporto Tripoli, partita nel 1918 da Golfo Aranci, e tragicamente affondata da un sommergibile tedesco.
L’episodio mise a nudo la sostanziale debolezza della piazzaforte maddalenina, e dalle esperienze maturate si cercò di fare tesoro successivamente, prima dello scoppio della Seconda Guerra Mondiale, con un riarmo poderoso e con la realizzazione di nuove fortezze.
Ma anche questo, come la storia ci narra, non fu sufficiente in occasione dei bombardamenti subiti nel 1943, e dell’occupazione delle truppe tedesche. Ma questo riguarda un’altra guerra mondiale.
Il 9 marzo del 1916, iniziava la quinta Battaglia dell’Isonzo. Si era in inverno e faceva ancora molto freddo ma il Comando Supremo Italiano si trovò praticamente costretto ad attaccare per alleggerire la pressione tedesca sulla Francia, a Verdun. Furono impiegati 286 battaglioni e 1360 pezzi d’artiglieria. Gli austroungarici opposero 100 battaglioni e 470 pezzi d’artiglieria. Gli italiani ebbero 1882 tra morti, feriti e dispersi; gli austroungarici 1985.
La battaglia ebbe luogo tra il 9 e il 15 marzo ed ebbe come sanguinoso teatro le zone dei monti Calvario, Sabotino, Mrzli, S.Maria, Podgora, la cima 4 del monte San Michele, le trincee della Cappella Diruta e San Martino del Carso. Gli italiani dovevano attaccare mentre i nemici, asserragliati nelle loro fortificazioni, si difendevano. E fu una dura sconfitta per i nostri ragazzi, non priva tuttavia di atti di eroismo.
Come quello del sergente maggiore del genio, il maddalenino Leonardo Manca, il quale, in quei giorni, “guidava con rara perizia e slancio ammirevole una squadra di minatori, riusciva a rimuovere parte di una abbattuta e togliere i fili di mine. Aperta poi una larga breccia in un reticolato, giungeva per primo in pieno giorno e sotto violento fuoco, in un fortino nemico; impartire infine sagge disposizioni e si spingeva all’inseguimento dell’avversario finché, ferito, fu costretto ad abbandonare il combattimento”.
I fatti si svolsero nei pressi di Padgora, oggi Piedimonte del Calvario, in provincia di Gorizia, Friuli, e per questo ebbe la medaglia d’argento. Anche in questo caso la notizia è tratta dal supplemento a Il Molo. Un’ulteriore ricerca tuttavia mostra come il nostro concittadino maddalenino, sottufficiale col grado di sergente maggiore del Genio (matr. 25981), sia stato invece decorato, sempre di medaglia d’argento, per le stesse motivazioni e per gli stessi fatti svoltisi però, a Costone Sief, il 21 ottobre 1915. All’entrata dell’Italia nella Prima Guerra Mondiale lo Zeffiro faceva parte della IV Squadriglia Cacciatorpediniere, di base a Brindisi, formata dai cacciatorpediniere Ascaro, Alpino, Carabiniere, Pontiere e Fuciliere.
Lo Zeffiro, ad un certo punto comandato da Costanzo Ciano, effettuò numerose operazioni belliche anche di una certa importanza. Ebbe a bordo, in qualità di pilota, il tenente di vascello ed irredentista Nazario Sauro.
Catturato nel luglio 1916 durante una missione con un’altra nave, fu condannato per alto tradimento e giustiziato a Pola il 10 agosto successivo.
Imbarcato con lui, sullo Zeffiro, vi fu anche il 2° C.M. maddalenino Angelo Testoni il quale, ebbe un Encomio Solenne “perché in un’ardita e felice missione di guerra a bordo del Regio Cacciatorpediniere Zeffiro ha dato prova di ottime qualità militari”.
Vediamo di fare un po’ il punto della situazione al maggio del 1916, ad un anno dall’entrata in guerra dell’Italia (24 maggio 1915). Ricordiamo che le nostre truppe, contro l’Impero Austro-Ungarico, erano schierate su un ampio fronte a Nord-Est, che congiungeva il lago di Garda con Gorizia attraversando l’altopiano di Asiago, i monti del Cadore e della Carnia fino all’altopiano della Bainsizza e ai monti Sabotino e San Michele.
La guerra dei mari si svolgeva invece in Adriatico, e questo rendeva lontana dalla guerra la Base Militare di La Maddalena, ma non i maddalenini, molti dei quali richiamati con le cartoline precetto ed un certo numero partiti come volontari.
In quel primo anno di guerra ci furono, tra gli italiani, 250.000 uomini, tra morti, feriti e dispersi. I maddalenini morti in quei primi 12 mesi di guerra furono in numero di 37 (30 nel 1915 e 7 tra gennaio e maggio 1916), mentre dovettero essere (secondo le normali proporzioni relative a quei fatti bellici) almeno 3 volte tanto quelli feriti (oltre 100).
Come più volte sottolineato, quella combattuta dalle truppe italiane era soprattutto una guerra di trincea, che rendeva obbligatori fronti lunghi migliaia di chilometri e che occupavano milioni di combattenti. Mesi e mesi bloccati nelle trincee, al freddo sotto la neve e nel ghiaccio o sotto il sole cocente e nell’afa umida, con un’attività bellica caratterizzata da interminabili e snervanti pause alternate ad assalti feroci quanto spesso inutili, che comportavano ogni volta morti e feriti, dolore e menomazioni.
Sebbene non mancassero i volontari – e tra questi, come abbiano avuto modo di vedere, ce n’erano anche di maddalenini – la grandissima maggioranza dei militari era costituita dai richiamati. I maddalenini, come abbiamo avuto modo di vedere, vennero distribuiti un po’ ovunque. È vero infatti che molti sardi furono assegnati alla Brigata Sassari, ma di sardi ce n’erano dappertutto. E in quell’anno furono in molti, tra i maddalenini, a coprirsi di “gloria” con il riconoscimento di medaglie e di encomi.
In quei primi cinque mesi dell’anno 1916 ci fu la Quinta Campagna dell’Isonzo (11-19 marzo) e dal 15 al 31 maggio, da parte dell’Esercito Austriaco, la “Strafexpedition” (Spedizione Punitiva) contro l’Italia per accerchiare le truppe schierate sul fiume Isonzo. Nonostante il grande impegno di uomini, gli italiani respinsero gli austriaci e quella spedizione fallì.
Paolo Scanu, nato ad Alghero il 22 maggio 1897, padre di Giovanni e Bruno, grandi calciatori della Grande Ilva, un secolo fa, nel 1916, si arruolò per andare a combattere per la Patria.
Alla Maddalena era arrivato da bambino, all’età di 8 anni, al seguito della famiglia; Il padre Giovanni, che faceva l’agricoltore, per assicurare un migliore futuro a moglie e figli, aveva lasciato le povere terre catalane per cercare maggior fortuna in quelle maddalenine, non perché queste fossero particolarmente fertili rispetto a quelle lasciate ma perché contava, come effettivamente avvenne, di poter fornire il proprio prodotto agricolo alle tante caserme e i tanti militari allora qui presenti.
Non è dato sapere in quale maniera prese in affitto un ampio appezzamento di terreno nell’isola di Caprera, a Stagnali, dove oggi è ubicata alla Stazione del Corpo Forestale dello Stato con le relative dipendenze e vivai. Erano riusciti ad acquistare una cavalla ed un asinello: e tramite il lavoro del secondo estraevano l’acqua dai pozzi per l’irrigazione; col primo, legato al calesse, portavano il loro prodotto sia alle caserme di Caprera, in particolare quella di Bersaglieri, che a quelle di Maddalena, alla caserma del Regio Esercito Regina Elena. In quell’orto, dai primi anni del secolo scorso, ci lavorava tutta la famiglia Scanu, più alcuni braccianti. Tuttavia non abitavano a Stagnali ma in via Principe Amedeo, a Due Strade.
Paolo Scanu, all’età di 19 anni, superando le resistenze del padre che adoperò tutti i metodi persuasivi possibili per farlo desistere, si arruolò in Marina col preciso intento di andare al fronte. In un primo momento fu attendente di un ufficiale presso il Comando Marina di La Maddalena, in Piazza Comando, poi, finalmente, partì per il Continente, avendo fatto domanda per le zone di guerra, “in prima linea”. Fu così che nell’estate del 1916 Paolo Scanu si trovò a Venezia, alla Giubecca, dove fece il vero e proprio, e durissimo addestramento nel Battaglione San Marco, negli Arditi-Incursori. Pochi mesi dopo la sua compagnia fu trasferita in zona di guerra.
Il marò Paolo Scanu, a un certo punto della guerra, fu inviato con il suo reparto del Battaglione San Marco, al Piave. Raccontava spesso al figlio Giovanni di essere rimasti per ben quattro giorni bloccato, quasi intrappolato in trincea, accucciato e attaccato alle pareti di roccia senza poter tirar fuori la testa perché i cecchini austriaci lo avrebbero ucciso inesorabilmente.
Per vedere la prontezza e la precisione del cecchino, gli italiani utilizzavano l’elmetto di un compagno deceduto, sistemato sulla punta di un bastone, facendolo sporgere dalla trincea. Non passavano che pochi secondi … poi si sentiva un sibilo … il colpo arrivava … dopo … e l’elmetto forato veniva scaravento lontano. Se malauguratamente al suo interno c’era una testa … veniva trapassata.
La trincea significava anche pidocchi e soprattutto fame. Il rancio non sempre era sufficiente (quando c’era, era composto da scatolette di tonno o fagioli) e allora ci si dovevano arrangiare. Magari negli orti, quelli rimasti, dei paraggi …
Paolo Scanu visse la disfatta di Caporetto, lo sbandamento del nostro esercito e partecipò alla resistenza sul fiume Piave. Capitava spesso di combattere affiancati alla Brigata Sassari e una volta accadde, ci riferisce il figlio Giovanni, che “arrivò un ufficiale che cercava tre volontari della Brigata Sassari perché era necessario ‘far tacere’ una mitragliatrice posta su un’altura fortificata che mieteva morti e feriti, faceva strage, tra gli italiani. Il comandante della compagnia della Brigata Sassari rifiutò di fornire propri uomini, essendo questi da poche ore rientrati da una missione lunga e molto difficoltosa, costata morti e feriti. I reduci di quella missione erano esausti. L’ufficiale allora si rivolse agli uomini del Battaglione San Marco chiedendo se ci fossero tre sardi, perché tre sardi voleva, per l’impresa… quasi impossibile; di cui uno che fumasse il sigaro a bocca, cioè acceso in essa, internamente, e non esternamente, sulle labbra”.
Si fecero avanti il padre di Giovanni, un marò di Bono ed uno di Serramanna. Armati di fucile e baionetta, pugnale, pieni di munizioni, miccia, tritolo e bombe a mano, dovettero superare diversi reticolati, tagliando il filo spinato con le cesoie. L’operazione venne condotta di notte.
“Riuscirono furtivamente a introdursi dentro le linee nemiche stendendo la miccia attorno a decine di granate. Il commilitone di Bono, utilizzò il sigaro che teneva in bocca, per accendere la miccia. Riuscirono in tempo ad allontanarsi trovando un riparo un attimo prima che deflagrazione, fortissima ed impressionante, non distrusse, finalmente, quella postazione.
Riuscirono a rientrare dopo tre ore di marcia. Furono festeggiati per l’impresa compiuta e il comandante diede disposizione perché i loro nomi venissero segnalati per un adeguato riconoscimento. “Non arrivò mai niente!”.
A guerra finita Paolo Scanu, matricola 48456, fu nominato, come tanti altri, Cavaliere di Vittorio Veneto, ricevendo due Croci di Guerra, per aver diviso, col Battaglione San Marco, “le fatiche e i travagli della trincea da Cortellazzo al mare e l’aspra gioia di vittoriose battaglie”. La guerra era aspra e crudele, diceva Paolo Scanu, che spesso ricordava la tragica esperienza di un suo commilitone il quale, fermatosi a soccorrere un soldato austriaco ferito venne da questi, a tradimento, infilzato e ucciso col pugnale. Dopo quella esperienza il nemico ferito veniva “finito”. La guerra è tremenda, diceva … Paolo Scanu rimase sotto armi fino al 1920 quando fu congedato e tornò a La Maddalena.
Il 18 maggio del 1916 Salvatore Vico, nato a La Maddalena in Via Garibaldi, classe 1896 (12 agosto), figlio di Salvatore e di Giacomina Luccioli, seminarista a Sassari, veniva dichiarato abile al servizio di leva.
Il 1° ottobre successivo, lasciato il Seminario Tridentino di Sassari, si recò ad Ozieri, dove indossò la divisa militare del Regio Esercito Italiano. Inquadrato nel 45° Reggimento di stanza a Oristano e promosso caporale, vi rimase fino al successivo mese di novembre. “Io ero un caporalino, dovevo badare ai soldati che mi erano affidati” scrisse nelle sue memorie. “Ero un soldatino che temeva di partire per il fronte di guerra …”.
È vero dunque che c’erano, in quegli anni di guerra, tanti maddalenini che, infervorati dalle idee patriottiche e carichi di spirito d’avventura e di generosità, partivano volontari per il fronte, ma ce n’erano altri, probabilmente i più, che della guerra avrebbero fatto volentieri a meno, e temevano, cioè avevano paura – sentimento umanissimo – di esserne coinvolti.
Salvatore Vico il 13 ottobre 1916 veniva inviato all’Ospedale Militare di Cagliari dove fu dichiarato rivedibile per le sue condizioni di salute. Richiamato il 18 ottobre 1917 ad Ozieri, dall’ospedale di Sassari ottenne una licenza di un anno per malattia. Dopo un ulteriore ricovero all’ospedale militare di Cagliari il 24 giugno 1918 veniva riformato.
La guerra non fatta di padre Salvatore Vico si concluse lì. Messa così, la storia del fondatore della Congregazione Missionaria delle Figlie di Gesù Crocifisso, oggi Servo di Dio, per il quale è aperto un processo di Beatificazione, sembrerebbe quella di un quasi “prete” raccomandato, nipote del parroco di La Maddalena, che riuscì ad evitarsi la guerra.
C’è invece da ricordare che il giovane Salvatore Vico ebbe sempre uno stato di salute molto “cagionevole”, spesso colpito da bronchiti (una, molto seria, nel 1910 non gli consentì di sostenere gli esami al Ginnasio), che lo costrinse poi, tra il 1913 e il 1914 a “forzati periodi di assenza dal Seminario di Sassari”, soprattutto per problemi alle vie respiratorie e “per una proliferazione di polipi” che lo obbligò, in quegli anni, ad una serie di interventi chirurgici (quattro), a Torino.
Senza contare, la rottura, nel 1913, del timpano dell’orecchio sinistro, “che dovette risultare permanente”. E negli anni successivi ne ebbe conseguenze.
Furono diversi i maddalenini che nell’anno di guerra 1916 per le loro azioni e per i loro comportamenti ricevettero una medaglia. Qualcuno dei nominativi riportati è stato già citato per altre circostanze legate alla guerra in questa stessa rubrica. Come già in precedenza abbiamo tratto nomi e motivazioni da Il Molo.
Sebastiano Baffigo, sottotenente MT di Fanteria, ebbe la Medaglia di Bronzo alla memoria. “Costante esempio di zelo disprezzo del pericolo, mentre era intenta allo studio del trincerato di un camminamento importante da costruirsi in zona intensamente battuta cadeva colpito a morte”. San Martino del Carso, 6 gennaio 1916 Leonardo Manca, sergente maggiore del Genio, ricevette la Medaglia d’Argento in quanto “guidava con rara perizia e slancio ammirevole una squadra di minatori, e riusciva a rimuovere parte di una abbattuta e togliere fili di mine. Aperta una larga breccia in un reticolato, giungeva per primo in pieno giorno sotto violento fuoco, in un fortino nemico; impartiva infine sagge disposizioni e si spingeva all’inseguimento dell’avversario, finché, ferito, fu costretto ad abbandonare il combattimento. Padgora 26 marzo 1916.
Enrico Petri, sottotenente dei Bersaglieri, Medaglia di Bronzo. “Durante un’azione, con calma ed energia, sosteneva col suo plotone d’improvviso attacco del nemico, più volte esponendosi fuori dai ripari per individuare gli appostamenti. Ferito lievemente, seguitava ad animare i suoi dipendenti, finché cadde mortalmente ferito.” Pal Grande, Passo Cavallo, 28 marzo 1916.
Bartolomeo Del Bianco, sottotenente di Fanteria, Medaglia di Bronzo. “Resisteva valorosamente per cinque notti e continui attacchi nemici eseguiti con fuoco di fucileria, mitragliatrici e lancio di bombe a mano, e, nonostante la stanchezza delle truppe teneva energicamente la posizione occupata”. Zendri, 27 maggio 1916 Carlo Alberto Lena, aspirante ufficiale di Fanteria, Medaglia d’Argento. “Con magnifico impeto, alla testa del proprio reparto, si slanciava l’attacco di un forte trincerone austriaco, e, superate le difese avversarie, mi piombava dentro per primo al grido di Savoia, espugnandolo e catturandone i difensori. Poco dopo respingeva un contrattacco nemico, e saldamente si è rafforzata nella posizione conquistata”. Monte Piano, 24 agosto 1916 Bargoni Pietro, sottotenente di Fanteria, Medaglia di Bronzo. “Sotto il violento fuoco, trascinando il suo plotone fino ai reticolati avversari e là sosteneva col nemico lunga ed accanita lotta, finché ebbe l’ordine di ritirarsi nelle trincee di partenza”. Trincee di Ldkivica, 17 settembre 1916 Carlo Alberto Lena, maddalenino ufficiale nella Prima Guerra Mondiale, combatté per molto tempo sul Monte Piana, considerato, allora ed oggi, il Camposanto delle Dolomiti, un monte brullo e tozzo, con in alto un vasto pianoro, tristemente famoso per le migliaia di soldati italiani ed austro-ungarici che vi persero la vita, tra attacchi, contrattacchi, conquiste e riconquiste, nelle trincee, sotto i colpi dei cannoni, nelle raffiche delle mitraglie, negli assalti alla baionetta.
Il 24 agosto il sottotenente Carlo Alberto Lena, alla testa della compagnia che comandava, si lanciava all’attacco, alla baionetta, di una trincea nemica. Fu il primo a saltare all’interno della fortificazione austro-ungarica, impegnato in furiosi e drammatici corpo a corpo. Durante i combattimenti stava per essere colpito a morte da un soldato nemico. Fu allora che il suo attendente, un ragazzo siciliano, si frappose al fendente, salvandolo col proprio corpo e morendo per lui. L’episodio, drammatico, lo descrive in una lettera-cartolina lo stesso Lena.
“Salvato da Musso Emanuele, del 54° Fanteria. Il 24 agosto 1916 veduto che il proprio ufficiale stava per essere ucciso a bruciapelo da una vedetta nemica. Con mirabile sprezzo della vita gli fece da scudo col suo corpo, riuscendo a salvarlo e ad uccidere l’avversario”.
L’episodio viene riportato anche nel libro ‘Monte Piana’, pubblicato nel 1971 a cura del Comitato Onoranze Caduti sul Monte Piana. A pagina 18 si legge: “23-24 agosto 1916. Colpo di mano sul Pianoro Nord Est di M. Piano da parte dei Ten. Lena e Parlotti del 54° Fant. E con la cattura di 24 T.K.J. Caduto eroicamente il fante Emanuele Musso, per aver fatto scudo del proprio petto in difesa del suo Comandante”.
Abbiamo già avuto modo di vedere come gli stati d’animo di Carlo Alberto Lena, maddalenino combattente nella Prima Guerra Mondiale, si alternassero a seconda dei momenti. Esaltazione, patriottismo, sconforto, rabbia. Facendo un passo indietro pubblichiamo una lettera dell’estate 2016, datata 22 luglio, particolarmente entusiastica e patriottica.
“Babbo carissimo, la cerimonia è riuscita benissimo. Tutti eravamo commossi e più degli altri il signor Colonnello che piangeva proprio … Egli pronunciò un elevato e patriottico discorso e alla fine invitò tutti a gridare: Viva l’Italia. Questo grido fu ripetuto decine di volte dall’eco di tutte le montagne circostanti e fu così forte, oltre che sincero, da coprire persino il rumore delle granate che passavano sopra le nostre teste. Certamente il nemico avrà anche esso udito quel grido, perché subito dopo si mise a fare un fuoco d’inferno sulla nostra linea … forse il vile ed imbecille avrà creduto che noi volessimo nuovamente attaccarlo, e sloggiarlo. Da questo poi capire” prosegue Carlo Alberto Lena nella sua lettera al padre Battista “quanto esso ci tema … povero cretino … lo compatisco … ma quanto farebbe meglio a chiedere la pace incondizionatamente … ti assicuro che ne guadagnerebbe molto… Mi dimenticavo di dirti che sono l’ufficiale più giovane di tutto il Reggimento e come tale ho diritto d’esserne l’Alfiere e cioè il Porta Bandiera. Questo fatto, di cui io mi sento altamente orgoglioso ed onoratissimo, tralascio di commentarlo perché ogni commento guasterebbe. Sappi però che se avrò l’onore e la fortuna di portare il Tricolore, non solo fuori dai combattimenti, ma anche durante le battaglie, sappi babbo, ripeto, che saprò portarlo innanzi, saprò trascinare per mezzo d’esso tutto il Reggimento alla vittoria e alla gloria, e saprò morire non una ma mille volte per la sua difesa, per la sua gloria …”.
Parole, queste scritte da Lena, e stati d’animo, che tutt’oggi, a distanza di cent’’anni, meritano grande rispetto.
Poco più di un anno dopo il sabotaggio della Brin, siamo nella notte dell’undici dicembre 1916 ed è una notte fredda e tempestosa. La corazzata Regina Margherita, sua nave gemella, sta lasciando il porto di Valona in Albania. La nave è lunga quasi 140 metri ed il suo equipaggio è composto da oltre 700 uomini e per quei tempi è considerata un vero e proprio gioiello della marineria italiana, un misto di potenza ed acciaio.
Nella tarda serata l’equipaggio libero dal servizio, sottocoperta, prepara le brande per il riposo nottur-no, assaporando il rientro in Italia, quando, improvvisamente, due devastanti esplosioni dilaniano lo spesso acciaio della nave e, come un pesante sasso, questa precipita velocemente verso il fondo del mare. Pochi riusciranno a salvarsi; la corazzata, affondando, porta con sé ben 671 marinai!
Anche in questo caso le cause dell’affondamento sono avvolte dal mistero, le versioni italiana parla di ur-to contro mine nemiche ma gli ammiragli austriaci negando la presenza di ordigni in quel tratto di mare, imputano l’affondamento ai loro sommergibili. La verità non venne mai appurata ed entrambe le versio-ni vennero dibattute a lungo senza alcun risultato, anche in questo caso qualche accenno al sabotaggio fu solo sussurrato.
Novanta anni dopo, alcuni subacquei hanno ritrovato, ad una profondità di circa 70 metri, il relitto della Regina Margherita. Si tratta di un avvenimento eccezionale; il ritrovamento di una corazzata della prima guerra mondiale è una scoperta di portata mondiale ed anche i telegiornali di ogni parte del mondo ne danno notizia. Le informazioni parlano anche della presenza dei resti dei 671 marinai scomparsi. Come per la Benedetto Brin, anche in questo caso, la marineria maddalenina ha dato un notevole contributo in termini di vite umane.
È giusto ricordare i nostri eroi: morì Antonio Bertini che era fuochista ed aveva solo vent’anni; il fuochi-sta Giuseppe Caraveo, invece, vent’anni li avrebbe dovuti compiere nove giorni dopo; morì Pietro Cap-pelloni, secondo capo timoniere, aveva ventidue anni; Luigi Corrà, semplice marinaio aveva appena di-ciannove anni; il capo furiere Vincenzo Caucci, che aveva scelto la carriera militare, aveva trentadue anni; pregustava una splendida carriera anche Giovanni Orlando che quando si inabissò con la Regina Mar-gherita aveva 26 anni ed era secondo capo; un altro fuochista era Romeo Cordati avrebbe dovuto com-piere ventuno anni una settimana dopo; Fuochisti invece non lo diventarono mai perché morirono tutti Allievi Fuochisti: Amedeo Ferracciolo di vent’anni, Antonio Impagliazzo di ventidue, Adolfo Ligas di ven-tuno, ed Andrea Perino che pochi giorni prima aveva compiuto vent’anni. Altre undici vite che insieme alle sette perdute sulla corazzata Brin fanno un tributo di ben 18 concittadini.
Il tempo e l’oblio ne hanno oramai cancellato la memoria. Per questo, mi è sembrato giusto ricordarli tutti.
Furono ben 40 e forse anche di più i maddalenini morti in guerra nel 1916, una cifra enorme. I feriti fu-rono almeno il doppio. Periti sulle navi e al fronte. Ben 40 famiglie isolane che ricevettero la tragica no-tizia della morte di un loro caro quasi sempre poco più che ventenne. Oltre 80 i lutti dall’inizio della guerra, senza considerare le tantissime altre famiglie trepidanti per i propri congiunti rimasti feriti in azioni belliche dei quali le notizie erano scarsissime.
La guerra non si stava svolgendo a La Maddalena, per la quale la piazzaforte era stata organizzata, ma era combattuta quotidianamente in ogni famiglia di ciascun richiamato o di ciascun volontario. Un intero paese viveva come se fosse al fronte o sul mare.
Quel 1916 era stato caratterizzato a metà marzo dalla Quinta Battaglia dell’Isonzo, dalla Strafexpedition, la spedizione austriaca volta a punire l’Italia, alleato traditore, a metà maggio, da una vittoriosa controf-fensiva italiana a metà giugno, dalla Sesta Battaglia dell’Isonzo i primi d’agosto, che portarono alla con-quista di Gorizia, dalla dichiarazione di guerra dell’Italia la Germania il 28 agosto, dalla Settima Battaglia dell’Isonzo a metà settembre, dall’Ottava Battaglia dell’Isonzo i primi d’ottobre, dalla Nona Battaglia dell’Isonzo tra fine ottobre e i primi di novembre. Senza considerare i 12 mesi in trincea o sulle navi. Una carneficina!
Nella scorsa puntata abbiamo riassunto il numero dei morti in guerra e presunto quello di feriti ma nel 1916 una strage ancora più consistente produssero le malattie e questa volta non al fronte o nei mari e porti lontani ma proprio qui all’Isola, a La Maddalena, e la morte interessò la popolazione civile partico-larmente i bimbi.
A leggere gli atti di morte nel registro parrocchiale di Santa Maria Maddalena, i bimbi deceduti nei 12 mesi del 1916 morirono perché afflitti da tonsillite, bronchite, tubercolosi, difterite, polmonite, morbil-lo, enterite, meningite, tifo, carcinoma gastrico, cardiopatia, distrofia infantile. E molti di loro nacquero morti.
Le malattie che produssero morte in lutti s’accanirono particolarmente nei mesi di marzo, aprile e mag-gio 1916 con una piccola recrudescenza a settembre. I numeri sono impressionanti: oltre 60 furono i bimbi deceduti nei primi giorni o nei primi mesi di vita; oltre 30 quelli di età di 2 o di 3 anni, per un tota-le di bambini deceduti di circa 100 nell’età compresa da 0 a 3 anni. Un’ecatombe!
I becchini all’epoca avevano il loro bel daffare come anche il parroco Antonio Vico che quasi tutti i giorni fu impegnato a celebrare funerali e messe di suffragio. Se a agli oltre 100 bambini deceduti, senza consi-derare tutti gli altri morti nelle 1916 dell’età superiore, media e anziana, si aggiungono i circa 40 morti in guerra si può dire che alla Maddalena quel 1916 fu davvero tragico.
C. Ronchi