Da Giovanna a La battaglia di Algeri
Ma il fortunato sodalizio tra Franco Solinas e Gillo Pontecorvo inizia un anno prima, esattamente nell’anno dell’uscita di Squarciò, col mediometraggio Giovanna.
Giovanna, film femminista ante-litteram grazie ad un’intuizione di Solinas, fu prodotto da Giuliano De Negri, un produttore rigoroso e politicamente impegnato, che produrrà in seguito tutta la filmografia dei fratelli Taviani. Il giovane produttore si mise in contatto con la DEFA, società statale per la produzione cinematografica nella Repubblica Democratica Tedesca, che finanziava un film di Joris Ivens, sostenuto dal Movimento Femminile Democratico Internazionale, sul mondo femminile, e più specificatamente sulla condizione della donna nel mondo del lavoro e all’interno dell’ambito familiare. Il film che doveva essere un opera corale si sarebbe intitolato La rosa dei venti (Die Windrose, 1957) e si doveva comporre di episodi diretti, oltre che dallo stesso Ivens, da alcuni giovani registi “militanti”: i brasiliani Alberto Cavalcanti e Alex Viany, il francese Yannick Bellon, il sovietico Sergej Gherassimov, il cinese Wu Kuo-yin e appunto Gillo Pontecorvo. L’idea del progetto venne a Joris Ivens dopo che questi aveva già realizzato due documentari, il primo sulla lotta del movimento sindacale e il secondo sul Movimento Internazionale della Gioventù. Alla fine, il film La rosa dei venti risultò a quattro segmenti che andavano a comporre un affresco originalissimo per il periodo e di attualità anche ai nostri giorni. Dalle parole di Pontecorvo, ricaviamo la perfetta sintesi dei contenuti di Giovanna: È la storia della moglie di un operaio comunista, il quale, di fronte all’eventualità di una occupazione della fabbrica femminile, si comporta nella maniera classica. L’operaio dice alla moglie che non sono questioni di donne, e che deve pensare alla casa e ai bambini. La moglie, che aveva accettato l’imposizione del marito, viene invece coinvolta nell’occupazione dello stabilimento tessile, a cui inizialmente è portata a partecipare solo per ragioni emotive. Pian piano diventerà invece una delle dirigenti della lotta. Il marito non va mai a trovarla nelle ore in cui gli altri mariti si recano in fabbrica a sostenere le proprie mogli, perché lei gli ha disubbidito. Solo alla fine l’uomo comincerà a capire la posizione della moglie e l’aiuterà nella lotta.
In riferimento a Giovanna, guido Aristarco, sulle pagine di “Cinema Nuovo”, non esitò a definire il film come «un miracolo» sia per il ridottissimo budget che per il notevole valore artistico. Non si riuscì però nel miracolo di far vedere la pellicola in Italia: osteggiato dai governi democristiani, Giovanna circolò solo in Francia e nell’Europa orientale, oltre che in diversi paesi africani, asiatici e dell’America Latina. La critica francese fece riferimento al neorealismo nel parlare del mediometraggio e, in effetti, sia dal punto di vista stilistico che contenutistico il film è più vicino all’impegno ideologico e all’asciuttezza formale del dopoguerra, che alle commedie del realismo minore che si producono in quegli anni. E soprattutto, vi si sente il riferimento al cinema sovietico con chiari accenni pudovkiani (sia dal punto di vista contenutistico che nella tecnica di regia) nell’individuazione di un protagonista corale, il corpo delle lavoratrici della fabbrica, nel quale si notano, ma non si elevano al di sopra degli altri, alcune realtà particolari, alcuni personaggi esemplari, tipicizzati, che rappresentano la parte per il tutto, in una strutturazione del messaggio cara a Solinas e funzionale alla sua visione della storia che vede protagoniste le masse a discapito dell’individuo e trova compimento nel racconto dell’emancipazione (in questo caso emancipazione operaia e femminile insieme, in altri casi emancipazione dall’oppressore coloniale, in altri casi ancora emancipazione dalle strozzanti logiche del capitalismo globalizzato). A partire da questo brillante esordio, e per buona parte della filmografia successiva, Franco Solinas tesserà i fili di un discorso il più possibile coerente e rigoroso verso un’interpretazione altra dei fatti storici e del mondo. In Giovanna, dove si respira l’atmosfera dell’epoca scielbiana, il contrasto di classe è netto, per cui gli scontri tra le parti sono aspri e tesi verso un reciproco disinteresse ad acuire le distanze: la polizia sbarra la strada che dà accesso alla fabbrica occupata, il padrone ricatta pesantemente le operaie, il peso dell’informazione e della pubblica opinione è nullo, la lotta è completamente isolata. Una situazione che si ripresenterà rovesciata, in un curioso contrappasso suggerito dal tempo e dalle nuove dinamiche economiche, nel copione Il cormorano, sceneggiatura scritta nel 1977 per un film, diretto da Costa-Gavras, che non si è mai realizzato. Scritto e girato in assoluta libertà, senza vincoli commerciali, censure preventive, autocensure o compromessi di sorta, in Giovanna si apprezza la qualità della sceneggiatura, dell’opera nel suo complesso e la limpidezza del messaggio (che fruttarono anche un certo successo di critica alla Mostra del Cinema di Venezia del 1956, dove venne presentato fuori concorso) a scapito però, come val la pena di ripetere, di un ostracismo che impedirà la proiezione del film in Italia per i successivi vent’anni.
Se per Giovanna si può parlare di un assoluta libertà espressiva e produttiva, discorso opposto va fatto per il successivo lavoro del sodalizio Solinas-Pontecorvo: La grande strada azzurra (1957). Il film, già l’abbiamo ricordato, deriva da un adattamento che lo stesso Solinas, avvalendosi della collaborazione di Ennio De Concini, ricavò dal suo unico romanzo Squarciò, e rappresenta anche l’esordio su lungometraggio per il giovane Gillo Pontecorvo. La pellicola fu prodotta da Maleno Malenotti, concittadino del regista pisano, il quale, preso atto delle positive recensioni del dopo Venezia per Giovanna, decide di finanziare la sceneggiatura scritta da Solinas, è ambientata nel mondo dei pescatori sardi. La vicenda produttiva si risolve in una coproduzione italo-jugoslava a budget ridotto e con tempi stretti. Tuttavia la necessità di debuttare in un opera che sente sua, spinge Solinas ad accettare i veti produttivi che la coproduzione andava ponendo e di conseguenza a convincere Pontecorvo, contrario a fare il film, ad andare avanti nel progetto. I punti sui quali si può individuare un “tradimento” della sceneggiatura e anche una forzatura allo stile del regista, sono molti: a Pontecorvo, che finora aveva lavorato con non professionisti e che coerentemente era intenzionato a proseguire per questa strada, furono imposti gli affermati attori Ivés Montand e Alida Valli per fare “cassetta”, ma i loro volti ben poco si coniugavano con l’immagine di un povero pescatore e di sua moglie e il film non venne girato nelle coste sarde nelle quali era ambientato, ma bensì in quelle della Dalmazia, non arricchendo affatto il film in senso realistico. Inoltre Pontecorvo venne obbligato ad abbandonare il bianco e nero, retaggio del suo credo neorealista e ottimamente coniugato col sentimento della sceneggiatura. La grande strada azzurra racconta, come il libro d’altronde, la vicenda di Squarciò, pescatore di frodo, uno di quelli che pesca con le bombe, sopportato di malavoglia dai suoi colleghi e braccato dai finanzieri. Gli altri pescatori, tra i quali spicca la figura di Salvatore, amico di infanzia di Squarciò, si uniscono in cooperativa, mentre Squarciò decide, isolato, di proseguire con la pesca di frodo. È il racconto di un uomo tutto sommato solo e solitario, seguito nelle sue scelte non sempre ragionevoli, dai figli inconsapevoli che nel padre vedono un eroe. La strada della pesca con le bombe porta, e questo capita a tutti gli antieroi di Solinas, a una sorta di parabola di dannazione, in qualche modo salvifica per quel che riguarda la figura di Squarciò. Il sopraggiungere della morte, proprio a causa di una bomba che esplode quando non deve, serve a al pescatore bombarolo per compiere il decisivo (e tardivo) passo indietro e sussurrare ai figli di non seguire le sue orme: “Tornate da Salvatore – dice Squarciò lasciandoli per sempre – anche una cooperativa non è male per pescare”. Nella sceneggiatura, l’infanzia di Squarciò, che cresce insieme a Salvatore e a Cacaspiagge (il quale finirà col fare il finanziere), ha molto più spazio rispetto a quanto ne ottiene nel film, contribuendo in qualche modo a rendere meno incomprensibili alcune scelte del protagonista, che appaiono a volte romantiche e irrazionali e probabilmente vogliono essere una non troppo velata critica alla rivolta “anarchica e inconcludente contro l’autorità costituita”30 in perenne sfida con le convenzioni anche, se necessario, fino alle estreme conseguenze.
È chiaro dunque che, come per gli altri progetti nati dal sodalizio Solinas-Pontecorvo, La grande strada azzurra, sia pure in termini “embrionali”, e anche se con una eccessiva pressione melodrammatica, considerando il tono di Giovanna, si propone come opera principalmente politica, che intende parlare allo spettatore in termini immediatamente percepibili, stimolandone la riflessione e, perché no, l’azione (il film arriva infatti in una fase storica nella quale è vivissima la lotta dei pescatori sardi contro vecchie leggi, retaggio di origine feudale e monarchica). Per cui, se da un lato, a distanza di anni, Pontecorvo non esita a definire La grande strada azzurra come un brutto film di cui si salvano al massimo due o tre scene, compresa la scena finale, se la critica straniera è delusa dai grossi passi indietro fatti da Pontecorvo rispetto a Giovanna, sia per quel che riguarda il “messaggio” che nel considerare la riuscita tecnica della regia, dall’altro il film ha un buon successo di pubblico in Italia, e anche la critica italiana non manca di elogiare tanto la regia, quanto il copione di Solinas, per i suoi contenuti, definiti di alto significa sociale.
Il buon successo del film consente alla coppia Solinas-Pontecorvo di proseguire il loro fortunato sodalizio con Kapò. Intanto però Franco Solinas collabora nel 1959 alla sceneggiatura di The Savage Innocents (Ombre bianche, regia di Baccio Bandini e Nicholas Ray, 1959) insieme ad Hans Ruesch e a Nicholas Ray. Il copione è un adattamento del romanzo Top of the world pubblicato dallo stesso Hans Ruesch nel 1950, e uscito in Italia col titolo Il paese dalle ombre lunghe. Del 1960 è dunque Kapò di Gillo Pontecorvo, film che richiese una lunga documentazione e che si inserisce in quel processo di rinnovato interesse per i temi resistenziali e antifascisti, fatto registrare dal cinema italiano e non solo negli anni 60.
Solinas firma nello stesso anno altre due pellicole, per registi differenti, in entrambi i casi riadattando opere precedenti: il primo film è Madame sans gene, adattamento cinematografico dell’opera teatrale tardo ottocentesca di Vittoriano Sardou, diretto da Christian Jacque; il secondo adattamento, scritto senza troppa convinzione e firmato per onorare il contratto, fu Vanina Vanini, lavoro che si colloca tra i meno interessanti di Solinas, sia per la mancanza di un reale sodalizio tra lui e il regista Roberto Rossellini che rifiutava la “sceneggiatura di ferro” a favore della totale libertà di improvvisazione, sia a causa dello scarso interesse di Solinas nei riguardi di quel tipo di lavoro, dettato dalla contemporanea e più avvincente proposta di Rosi per lavorare a Salvatore Giuliano, indubbiamente un tema più vicino alle corde dello sceneggiatore maddalenino. Scritto insieme a Jean Grualt, Antonello Trombadori e Diego Fabbri, Vannina Vannini è tratto da un racconto di Stendhal presente nelle Chroniques italiennes (1836-1839), dal ritmo e dallo stile assai cinematografici, tant.è che ispirò un primo adattamento, che occupa un posto importante nel cinema tedesco, diretto da Arthur von Gerlach nel 1922. L’incontro tra Franco Solinas e Rossellini, fu caldeggiato dal produttore Morris Ergas, fermamente convinto di voler produrre un film per Rossellini e per la giovane attrice Sandra Milo. Il primo progetto sul quale lo sceneggiatore sardo e il regista lavorarono, fu un adattamento del racconto La badessa di Castro, sempre di Stendhal. Solinas rinunciò, dopo un periodo passato a riflettere a La Maddalena, e convinse il regista dell’improponibilità dell’impresa. Il regista virò dunque sul racconto Vanina Vanini che infine trovò l’assenso di Solinas il quale lavorò al trattamento, interrompendo poi bruscamente la collaborazione in disaccordo con i metodi di Rossellini:
[Rossellini] riprese tutta la storia tenendo molte cose inventate da me, soprattutto nella prima parte, ma inserendo tutto il dialogo stendhaliano, e dove non trovava in Vanina Vanini, andava a cercare in altre opere di Stendhal, con risultati tragici, perché oltretutto si serviva di traduzioni dell’epoca, in un italiano aulico e pieno di anacronismi mentre Stendhal era uno scrittore modernissimo.
Il film fu effettivamente un clamoroso insuccesso e Solinas fece di tutto per non firmare la sceneggiatura, non riuscendovi, ma nel frattempo aveva dirottato, molto prima dell’uscita del film, le sue attenzioni verso Salvatore Giuliano (1961) collaborazione assai più stimolante che gli viene richiesta dal regista e amico Francesco Rosi.
Dopo Kapò mi cercò Rosi per dare una mano alla sceneggiatura di Salvatore Giuliano. Aveva visto il film, e gli sembrava, dal modo come erano costruite certe scene, la prima parte, che potessi aiutarlo, ma la mia fu solo una collaborazione. L’idea, l’intuizione di quel tipo di film, sono di Rosi. La sceneggiatura del film era buona, ma non era la sceneggiatura che contava. quello che contava era l’originalità di un certo tipo di impostazione.
Lo stesso Rosi giudica molto onesta l’affermazione di Solinas, sottolineando comunque l’importanza del contributo dello sceneggiatore maddalenino. È chiaro insomma che quel prototipo di film saggistico, quale è Salvatore Giuliano, dalle violente spezzature sintattiche che invitavano alla riflessione piuttosto che all’emozione, dal tono di alto reportage e insieme di consuntivo storiografico, ha in sé soprattutto l’impronta d’autore del regista, per quanto, in queste caratteristiche si possa benissimo riconoscere, per fare un esempio, il Solinas di La Battaglia di Algeri, con quel suo calarsi nella storia aderendo perfettamente alla necessità di realtà insita in essa. Effettivamente, Franco Solinas, Suso Cecchi D’Amico ed Enzo Provenzano, i tre sceneggiatori che firmarono il film insieme a Rosi, svolsero soprattutto un lavoro di ricerca, coordinato dallo stesso regista. Mentre Provenzano, in quanto conoscitore di quei luoghi, si occupava soprattutto di cercare e consolidare contatti tra la gente del posto, Franco Solinas e Suso Cecchi D’Amico si occuparono di studiare per settimane documenti e giornali, cercando soprattutto di lavorare sul taglio narrativo da dare a questo materiale. Si scelse una rigorosa ricostruzione degli avvenimenti e dei fatti politici, dell’ambiente e dei personaggi, scevro da ogni compiacimento formale, cosicché sia la sceneggiatura che la regia conseguente si distinguono per l’asciuttezza narrativa e la precisione del messaggio.
Il rapporto tra Rosi e Solinas continuerà negli anni seguenti: i due prepararono insieme un soggetto per un film su Che Guevara che poi non si fece, soprattutto per le remore dello scrittore sardo che non riusciva a individuare un tema forte che permettesse di portare avanti la storia del Che, e chiedeva più tempo di quanto gliene fu dato con Salvatore Giuliano per il lavoro di ricerca e appropriazione del tema. Tuttavia, la struttura a puzzle del Giuliano, sarà uno dei marchi di fabbrica di Franco Solinas, soprattutto nella costruzione dell’intreccio, e la si ritrova a partire Parà, in alcune importanti opere dello sceneggiatore, quali La Battaglia di Algeri, Queimada (nella versione originale della sceneggiatura), Il Sospetto di Francesco Maselli, La battaglia.
Gianni Tetti