Gli isolani all’arrembaggio
All’inizio del VII secolo un grande evento sconvolse il Mediterraneo turbandone tutti gli equilibri: la nascita dell’Islam. La gihad (guerra santa) proclamata in nome di Allah terrorizzò per oltre cinque secoli il mondo cristiano fino alla definitiva sconfitta di Mugehid al Amiri il cui principale obiettivo era quello di impadronirsi della Sardegna e farne base per la conquista dell’Italia. Ma i diversi tentativi di invasione musulmana fallirono; gli arabi non riuscirono mai ad insediarsi nell’Isola e furono sempre ricacciati in mare.
A quell’epoca il nostro arcipelago era deserto e ben presto deserte furono anche tutte le coste della Sardegna i cui abitanti si ritirarono sempre più verso l’interno per sottrarsi alle frequenti incursioni saracene, alle epidemie che venivano dal mare e alla malaria imperante nelle paludi costiere, maturando così un’avversione per il mare che costituisce, come dice la Racheli, “…un fenomeno pressochè unico al mondo; vivere in un’isola e odiare il mare”.
Cessato l’incubo di Musetto (come i sardi chiamavano il Mugehid), intorno all’anno 1200 si insediò nelle isole una comunità di monaci che diede ben presto vita ad attivi conventi a Santa Maria e a La Maddalena, e forse anche a Caprera e a Santo Stefano. Ma il pericolo musulmano non era cessato; la conquista di Costantinopoli da parte del Solimano segnò la ripresa della pirateria in tutto il Mediterraneo ad opera di Ariadeno Barbarossa e dello spietato Dragut, suo successore. I monaci abbandonarono le isole, i conventi furono rasi al suolo e sull’arcipelago caddero nuovamente secoli di silenzio.
Quando all’inizio del diciottesimo secolo i pastori corsi cominciarono a trasferirsi nell’arcipelago, uno dei primi problemi che la nascente comunità isolana dovette affrontare, sia prima che dopo la sottomissione ai Savoia, fu dunque quello della difesa dalle incursioni musulmane. Le prime case, difatti, furono costruite al centro dell’isola, sulle alture del Collo Piano, ben mimetizzate dalla vegetazione e dai grandi massi granitici. Non fu però facile sottrarsi del tutto alle scorrerie arabe, tanto che fra le richieste che gli isolani avanzarono al maggiore La Rocchetta all’atto dell’occupazione e che questi trasmise al viceré il 21 gennaio 1768, vi è la supplica “…di interessarsi affinchè in futuro possano riscattare tre loro compagni che sono schiavi a Tunisi, i quali sono stati catturati tre anni fa intorno all’Isola di S.Stefano, dove una galeotta turca fece un’incursione. Essi si chiamano Simone Giovanni Ornano, Giovanni Marco, padre e figlio, e Pasquale Millelire”.
Solo quando furono realizzate le prime fortificazioni e fu stanziata nell’isola una sia pur modesta flottiglia militare, i pastori lasciarono la alture del Collo Piano ed iniziarono la costruzione delle prime case di Cala Gavetta. Il primo tributo di sangue fu versato dalla giovane comunità nel novembre del 1773 in uno scontro tra il felucone San Gavino, del capitano Giovanni Maria De Nobili, e una galeotta tunisina che al termine della battaglia venne catturata con il suo equipaggio di 25 uomini; preziosa merce di scambio da mettere sul mercato per la liberazione di altrettanti schiavi cristiani. Nella battaglia trovò la morte il giovane Francesco Ornano, appena ventenne. E gli episodi di lotta contro i barbareschi furono tanti che l’Angius, nel Dizionario del Casalis, stante il carattere sintetico del suo lavoro, nel chiudere le note su La Maddalena commenta con ramarico: “Sarebbesi dovuto parlare de’ combattimenti di questi isolani co’ barbareschi, che spesso venivano nel mar d’intorno per predare e invadere, quando avessero potuto la popolazione; ma perchè di quelle azioni di valore, che pur erano grandi, non si tenne il dovuto conto, però non si può proporre alcuna particolarità. Il fatto certo è questo che, mentre tutti gli anni i barbareschi mareggiavano presso quest’isola, e adunavano quante forze potevano per vincere questi isolani, sempre furono battuti fieramente, ed o spinti in una vergognosa fuga, o arrestati prigionieri”. Evidentemente all’Angius. che si apprestava a preparare le sue note per tutti i comuni della Sardegna, l’attività degli isolani nella lotta contro i barbareschi fu esposta in maniera sommaria, altrimenti avrebbe “proposto” almeno una “particolarità” della quale, oltretutto “…si tenne il dovuto conto”.
Sul far della sera del 2 gennaio 1794 giungeva al porto di Cala Gavetta a vele spiegate la gondola Sardina che il giorno precedente era uscita in esplorazione con la galeotta Serpente, comandata da Giò Bistolfo, per verificare una notizia trapelata dalla Corsica secondo la quale due bastimenti barbareschi avevano fatto scalo a Porto Vecchio. Il comandante della gondola, il piemontese De Revest, era venuto a dar conferma che i pirati erano nel porto corso e che stavano per prendere il mare: fu subito l’allarme generale. Gli uomini delle mezze galere Beata Margherita e Santa Barbara e quelli della galeotta Sultana, capitanata da Cesare Zonza, allertati dai comandanti accorsero alla manovra e, sparsasi la voce, tutta la popolazione era scesa al mare; non pochi furono gli isolani che si offrirono volontari per dar man forte agli equipaggi nella battaglia contro i barbareschi. Il tutto durò poche ore e malgrado fosse già buio la piccola flottiglia mise alla vela alla volta delle Bocche destreggiandosi con grande perizia fra scogli e secche in un’epoca in cui non esistevano fari e segnalamenti. Ed ecco come il mattino successivo il comandante Riccio dava notizia dell’evento al viceré; “Ieri sera, circa le ore otto di Francia, è giunta la gondola la Sardigna stata spedita dal comandante la galeotta nominata il Serpente, che si trovavano insieme in distaccamento dalle parti della Corsica, ed ha portato l’avviso al comandante delle regie mezze galere, cavaliere De Chevillard, che in quelle parti vi si trovavano due bastimenti barbareschi. Cioè un brigantino ed un altro bastimento di scafo catalano; e detto signore, con la più pronta attenzione si è messo alla vela unitamente alle due regie mezze galere, ed una quantità di isolani si sono imbarcati volontariamente sopra le medesime per rinforzo; e spero che se si incontreranno porteranno una gloriosa vittoria”. L’agguato teso nelle acque delle Bocche si rivelò fruttuoso: i due legni barbareschi, appena usciti da Porto Vecchio, furono subito intercettati. Lo scontro avvenne sul far dell’alba; le imbarcazioni dei pirati, che tanto abili erano nelle manovre di sganciamento, accerchiate dalla nostre navi stavolta non ebbero scampo. La lotta fu più che mai cruenta; predata la prima nave ed immobilizzato l’equipaggio, i nostri andarono all’arrembaggio della seconda unità, ma quando erano sul punto di abbordarla, i barbareschi, pur di non cadere in mano agli infedeli, diedero fuoco alla santabarbara. L’esplosione fu immane; la nave affondò in pochi attimi avvolta dalle fiamme con gravi danni alle nostre imbarcazioni, che l’avevano affiancata, e con pesanti perdite per gli uomini che si trovavano sulle murate pronti a balzare sulla preda. Grande vittoria dunque, con la cattura di una grossa nave e di 73 schiavi musulmani; ma una vittoria pagata a caro prezzo, benchè pur sempre minore di quello scontato dai pirati algerini che nello scontro avevano perso due navi e oltre 120 uomini. Immediato il ritorno nell’isola; occorreva dar subito soccorso ai feriti in battaglia e ai tanti ustionati che erano stati raggiunti dalle fiamme con gran da fare per il chirurgo di bordo Bress. Ma poichè il contatto con i barbareschi imponeva l’immediata quarantena degli equipaggi, dei feriti e persino dei morti, la maggior parte di essi venne sbarcata nell’isola di Santo Stefano e ricoverata in alcuni magazzini in disuso che furono riparati in tutta fretta ed improvvisati ad ospedale. In aiuto al Bress venne mandato il medico Alfonsi, in servizio nell’isola, e fu necessario chiedere “…al governatore di Sassari di inviare un chirurgo per soccombere alle veci del chirurgo Alfonsi sino terminata la quarantena”. Numerose poi le donne, quasi tutte mogli o parenti dei feriti, che accorsero a Santo Stefano per prestare la loro opera sottoponendosi anch’esse al rigido regime della quarantena.
Il comandante Riccio, che alla partenza delle navi era stato tanto sollecito da informare il viceré con una lettera scritta sul momento, evidentemente ebbe poi il suo da fare. Soltanto il 10 gennaio successivo, infatti, inviava a Cagliari una lunga missiva dalla quale è facile rilevare che, nella confusione del momento e nello stato di isolamento in cui si trovavano comandanti ed equipaggi, egli era stato sommariamente informato e non era in grado di precisare il numero dei morti e dei feriti. “In adempimento al mio dovere – scriveva il Riccio – debbo partecipare a V.E. che il primo giorno del corrente il prelodato cavaliere de Chevigliard ha fatta una spedizione dalle parti della Corsica delle due galeotte il Serpente, la Sultana e la gondola l’Aquila, ed essendosi ancorati alla Chiappa in Corsica, avendo il comandante del Serpente avuto avviso che in Porto Vecchio si trovavano due grossi bastimenti barbareschi, ha spedito detta gondola a darne avviso al comandante delle regie mezze galere, e detto signore con la più pronta attenzione ha chiamato il suo mondo a bordo, e messosi alla vela unitamente all’altra mezza galera Santa Barbara, si sono anche imbarcati per rinforzo sopra le medesime una quantità di isolani e principalmente quasi tutti li capi dell’isola. La mattina delli tre nello spuntar del sole si sono incontrati con detti due bastimenti barbareschi, ed hanno principiato il combatto, ed ha continuato sino passate le ore dieci, ed hanno fatto preda di uno dei detti bastimenti barbareschi con 72 bestie (ove “bestie” sta per prigionieri fatti schiavi). E l’altro continuava sempre a combattere, finalmente la mezza galera Santa Barbara e le due galeotte li sono andate all’abbordaggio, ed un barbaro ha dato fuoco alla santabarbara e saltati tutti in mare con perdita di vari morti e molti feriti dalla nostra parte, che per non saperne il numero mi rapporto alla relazione che ha fatto a V.E. il cavaliere De Chevigliard”. Dal successivo nutrito scambio di corrispondenze fra La Maddalena e Cagliari, apprendiamo che i morti in battaglia furono sette e 77 i feriti ricoverati a Santo Stefano, compresi sedici prigionieri. Erano rimasti uccisi il nocchiere Stefano Bargone, i marinai Giacomo Marcegà, Poaggia e Tartana, il soldato Mabrè e i remiganti Giò Antonio Uneddu e Giuseppe Tomatis. Nei giorni successivi, nell’improvvisata quarantena di Santo Stefano, spiravano Luigi Reibaldi, Giovanni Zicavo Orzone, i marinai Capriata, Sabbatini e Mirabito, il nocchiere Lo Spasso (Ornano), che era stato decorato con medaglia d’argento nel 1787, e i remiganti Correro e Gavas. Immediate le richieste di soccorso alle famiglie dei caduti e le proposte di premi e ricompense per i valorosi che si erano distinti.
Il 10 gennaio De Chevillard scriveva al viceré da Santo Stefano: “Se V.E. vedesse i nostri feriti, e soprattutto le sfortunate vittime dell’incendio, il suo cuore sensibile e compassionevole fremerebbe d’orrore e di pietà. Mi è impossibile poter dare a V.E. una idea delle tristi sensazioni che mi ha fatto provare l’orrendo spettacolo che ha causato la sfortuna di tante persone. Reclamo ancor per essi la carità e l’appoggio di V.E., così come spero di interessarsi ad essi e procurar loro qualche ricompensa”. Pronti i primi soccorsi alle famiglie dei caduti ammesse subito alla razione di pane giornaliera e a un sussidio di 15 lire per ogni persona a carico; molto cauto invece sulle altre richieste il segretario per gli affari di guerra e marina Di Cravanzana. Questi, il 5 febbraio, in risposta al viceré che aveva inoltrato a Torino le istanze dei maddalenini (i quali avevano chiesto premi e medaglie persino per il sindaco e i consiglieri comunali), dopo aver elogiato l’opera del De Chevillard e avere incaricato il viceré di “…far sentire – a nome di S.M. il re – allo stesso comandante all’oggetto altresì che possa parteciparlo al suddivisato equipaggio, la speciale soddisfazione che le risulta da una così commendevole testimonianza di attaccamento e vivo zelo per il reale suo servizio”, aggiungeva: “In ordine alle ricompense di cui possono ravvisarsi meritevoli gli individui concorsi a tale azione, l’esperienza delle passate circostanze della difesa del regno, avendo fatta conoscere una più prudente cautela nel dispensarle, onde ovviare in seguito alle inopportune rappresentanze e alle soverchie pretese, S.M. ha perciò sospese le sue determinazioni a questo riguardo, e prima di spiegarle vuole avere sott’occhio nota specifica de’ soggetti che si sono distinti, coll’indicazione de’ particolari fatti di ciascuno, e col sentimento contrapposto delle grazie delle quali si credono meritevoli”.
Ad evitare che, come per il passato, quando le medaglie assumevano un carattere puramente commemorativo, venissero proposte con facilità decorazioni, ora che il conferimento delle stesse era stato rigidamente determinato con il regolamento del 21 maggio 1793, il Di Cravanzana proseguiva: “Mentre ora attendo tutti questi riscontri per rassegnarli a S.M., mi giova prevenire V.E. che la M.S., cui preme di conservare in tutto l’energico suo vigore la decorazione delle medaglie d’oro e d’argento, col dispensarle soltanto per i motivi ben discussi ed appurati e ne’ casi contemplati nel regolamento per le medesime che ebbi già a trasmettere alla S.V. non trova affatto a proposito di accordarle ai sindaci e consiglieri della pubblica amministrazione della Maddalena”. E i riconoscimenti per l’eroica impresa si fecero attendere a lungo; forse anche a causa della rivolta cagliaritana che il 28 aprile 1794 aveva provocato la cacciata dei piemontesi e del vicerè Balbiano.
Ben oltre un anno dopo il re approvava i premi e le ricompense delle quali il Di Cravanzana dava comunicazione al viceré Filippo Vivalda con dispaccio del 17 marzo 1795. Tre sole le medaglie: una d’oro per Cesare Zonza, comandante della goletta Sultana, e due d’argento per il nocchiere La Fedeltà (Tomaso Zonza) e per il timoniere La Speranza; promozioni per Giò Bistolfo, comandante del Serpente, Giò Agostino Millelire, Nicolao Barbaro e Giò Ornano; premi in denaro per altri 71 fra sottufficiali e marinai (il glorioso Domenico Millelire che partecipò all’azione, ma che non ebbe stavolta occasione di compiere atti particolarmente eroici, ricevette una gratifica di due mesi di paga), promozione per il cappellano padre Domenico Ferragut ed infine “…ai 24 individui dell’Isola Maddalena concorsi volontariamente al combatto, gratificazione di £.24 per ciascuno, coll’aggiunta di £.12 per ciascuno de’ 3 fra essi rimasti feriti”.
L’episodio dimostra quale fu la vera vocazione dei maddalenini fin dal loro insediamento nelle Isole Intermedie: per la prima volta, difatti, vediamo una comunità sarda che non arretra verso l’interno per sfuggire alle incursioni barbaresche, ma edifica le sue case sul mare senza presidio di una cinta muraria e affronta i pirati sul mare. Ed è proprio nell’impianto urbanistico di città costiera non murata, che non ebbe precedenti in Sardegna se non al tempo dei fenici, che si evidenzia la chiara dimostrazione della padronanza e del sicuro dominio del mare esercitati da questa popolazione.
Numerose dovranno essere ancora le imprese della marineria maddalenina nella lotta contro i barbareschi, lotta che avrà il suo culmine dell’apoteosi della battaglia di Capo Malfatano del 1811, uno degli ultimi scontri contro i pirati africani: un combattimento ancora una volta pagato con un pesante tributo di sangue, ma compensato con nuova gloria per la “squadretta” sarda del Desgeneys e con il conferimento della medaglia d’oro all’isolano Tommaso Zonza.