La disputa delle Isole Intermedie
Il bonifacino Antonio Costantini, deputato corso a Parigi, fece parecchie pressioni ed una relazione all’Assemblea Nazionale francese per convincerla a votare l’invasione dell’arcipelago maddalenino, sostenendo con forza che “queste isole non sono difficili da conquistare perché gli abitanti, d’origine corsa, saranno lusingati da essere uniti a quest’isola e, di conseguenza, alla Francia”. Questa convinzione portò probabilmente ad un errore di valutazione da parte francese ed ebbe il suo peso sull’esito della campagna.
Il viceré Vincenzo Balbiano dal canto suo, oltre a mobilitare i vari governatori e le varie guarnigioni costiere ed interne, provvide a nominare il nobile Giacomo Manca di Tiesi, comandante generale delle milizie galluresi, con sede a Tempio. Mons. Michele Pes, vescovo di Ampurias e Civita, a sua volta, attribuì al proprio vicario generale, canonico Antonio Spano Azara, il delicato incarico di tesoriere e responsabile del vettovagliamento delle truppe e delle milizie. Compito assolto non senza difficoltà, sia organizzative che di reperimento del fabbisogno necessario. Alla fine del gennaio del 1793 il vescovo, evidentemente preoccupato per il possibile precipitare della situazione, pubblicò una enciclica con la quale si vietava rigorosamente nella diocesi “l’ingresso de’scritti sediziosi di Corsica”.
Fitte corrispondenze dovettero intercorrere in quel periodo tra la curia ed i vari parroci galluresi. A La Maddalena, nel frattempo, il governatore Giuseppe Riccio, oltre a schierare l’assai modesta e male armata squadra navale comandata dal capitano Felice De Costantin (che nella circostanza dell’assalto assunse poi il comando generale delle operazioni), ottenne per rinforzo della guarnigione un centinaio di uomini del contingente svizzero Courten di stanza a Sassari e di oltre un centinaio di miliziani galluresi, molti dei quali d’origine corsa. Questi ultimi erano accompagnati ed assistiti, non a caso, dal canonico don Bernardino Pes, giunto a La Maddalena appositamente da Tempio “per incoraggiare ed animare quei volenterosi soldati”, pronti a combattere “per la difesa della nostra santissima religione, piissimo sovrano e patria – e come egli stesso scrisse – disposti a sacrificare la vita in difesa di quel posto”.
La scelta di campo dei corso-maddalenini maturò in maniera convincente per i comandanti militari alla fine del novembre 1792 quando, attraverso il sindaco Giò Batta Zicavo ed altri membri del Consiglio Comunitativo, chiesero che, in vista dell’imminente attacco, i loro familiari venissero fatti sfollare in Gallura. Il governatore Riccio, accolta con sollievo tale richiesta che garantiva senza ombra di dubbio la volontà di resistere all’invasore e metteva al riparo da possibili tradimenti (i familiari dei maddalenini potevano all’occorrenza trasformarsi infatti in ostaggi), fece trasferire in Gallura donne, vecchi, bambini ed ammalati, affidandoli alla non sempre impeccabile organizzazione messa su dalla chiesa gallurese che affidò l’incarico al canonico Spano Azara il quale sistemò un centinaio di sfollati-ostaggi a Tempio (tra i quali la stessa moglie del comandante Riccio) ed una cinquantina a Luogosanto.
Che la diocesi di Ampurias e Civita avesse riposto una particolare attenzione sull’arcipelago di La Maddalena lo attesta la sollecitudine con la quale provvide ad istituire, nel gennaio del 1768, la parrocchia di Santa Maria Maddalena, a nominare parroco il canonico Virgilio Mannu e ad autorizzare la costruzione della chiesa. Erano trascorsi appena tre mesi dall’occupazione militare sabauda delle isole dell’Arcipelago e con quegli atti, il vescovo Pietro Paolo Carta, non solo inglobava nella propria giurisdizione ecclesiastica le Isole ed i suoi abitanti corsi, fino ad allora inconfutabilmente orbitanti nelle cure dei parroci di Bonifacio, ma riconosceva altresì la legittimità dell’intervento militare di re Carlo Emanuele di Savoia a discapito dell’agonizzante Repubblica di Genova alla quale, e solo per pochi mesi ancora, la Corsica sarebbe appartenuta prima di essere ceduta alla Francia.
La stessa sollecitudine verso l’arcipelago di La Maddalena, la diocesi di Ampurias e Civita la ebbe, col nuovo vescovo Michele Pes, venticinque anni dopo, nel 1793, in occasione dei drammatici avvenimenti legati al tentativo di occupazione della Sardegna in generale e dell’arcipelago di La Maddalena in particolare, da parte delle truppe rivoluzionarie franco-corse. Com’ è noto, in quell’anno, la Repubblica Francese tentò di occupare la Sardegna con due spedizioni militari provenienti dalla Corsica, indirizzate a nord e a sud dell’Isola. In quell’occasione la mobilitazione della chiesa sarda e di tutto il clero fu notevole. Basti ricordare che nel gennaio del 1793 l’arcivescovo di Cagliari, capo dello Stamento Ecclesiastico, non solo spronò insistentemente il viceré Vincenzo Balbiano (che ricoprì la carica dal 1790 al 1794, regnante Vittorio Amedeo III) a meglio predisporre in tutta l’isola migliori ed adeguate difese contro l’invasione rivoluzionaria, ma gli offrì anche un contributo in denaro, garantendogli, se fosse stato necessario, la vendita degli argenti delle chiese di Cagliari.
La necessità di opporsi alle truppe rivoluzionarie francesi che, al passo della “Marsigliese”, si apprestavano a sconquassare anche la Sardegna, si rendeva necessario, per la Chiesa sarda, sia per salvaguardare la monarchia sabauda e i privilegi feudali ed ecclesiastici che questa garantiva (la maggior parte degli alti prelati erano di famiglia nobile) sia, e per alcuni settori del clero, soprattutto, per respingere oltremare quelle idee di libertà, eguaglianza e fratellanza, allora minacciosamente rivoluzionarie (di portata epocale, che hanno chiuso un mondo per aprire la nostra storia moderna), delle quali oltremodo si temevano gli effetti incontrollabili e le degenerazioni destabilizzanti.
Se le notizie provenienti dal lontano continente francese, concernenti la nazionalizzazione dei beni ecclesiastici, l’obbligo di giuramento del clero alla Costituzione (1790), il ghigliottinamento del re Luigi XVI e della regina (1792), potevano impensierire non poco nobiltà e clero sardo, quelle provenienti dalla vicina Corsica, forse opportunamente amplificate, dovettero sicuramente impressionare anche buona parte della popolazione sarda, quella popolazione che dalla Rivoluzione non poteva trarne, forse, che dei vantaggi. Del resto il comportamento delle raccogliticce truppe franco-corse, pronte ad iniziare l’invasione della Sardegna, e dei poco raccomandabili equipaggi delle navi, non lasciavano presagire nulla di buono. I saccheggi, i furti, le devastazioni da questi impunemente compiuti in Corsica davano sicuramente ragione a chi temeva la nefasta invasione dei “senza Dio” e, dai pulpiti, chiamava a raccolta le popolazioni per proteggere, armi in pugno, “i muddheri, i fiddholi, i jesgi”. Una relazione del console Baretti al viceré Balbiano del gennaio 1793 denunciava ad esempio che le truppe rivoluzionarie, “nel partir da Bastia, bruciarono la chiesa degli Angeli, dopo aver abbattuto le statue de’ santi e calpestato ciò che vi era più sacro”. A queste motivazioni a La Maddalena se ne aggiungevano delle altre legate alla peculiarità della propria recente storia.
Gli abitanti (circa 800) in gran parte nati in Corsica o figli di genitori corsi, sebbene profondamente legati a quella terra vicina, di là delle Bocche di Bonifacio, nella quale abitavano ancora nonni, zii, cugini, fratelli, della quale parlavano orgogliosamente la lingua e ne conservavano le tradizioni, con l’occupazione militare piemontese e con il passaggio alla nuova condizione di sudditi sabaudi, avevano goduto di una sorta di affrancamento, svincolandosi socialmente ed economicamente dal sistema feudale corso. La condizione di sudditi del Re di Sardegna oltre a proteggerli dal rischio, sempre presente, di incursioni barbaresche, offriva loro alternative di lavoro legate alla presenza stessa di truppe (fornitura di carni, pesce, prodotti agricoli ecc.), alla costruzione di fortificazioni e locali militari, al piccolo cabotaggio legale e di contrabbando (in qualche maniera tollerato dalle autorità militari), o all’arruolamento stesso sui Reali Legni. Indubbiamente dovettero essere forti, sofferti e contrastanti i sentimenti all’interno della piccola comunità corso-maddalenina e più d’una volta, in molti, avrà prevalso, dirompente, il richiamo del sangue. Di ciò erano ben consapevoli sia alla corte viceregia di Cagliari che presso i comandi militari di La Maddalena. L’invasione della Sardegna era stata insistentemente richiesta dai rivoluzionari corsi sia per fini ideali sia per motivi economici.
I bonifacini, nell’operazione, erano in prima linea, particolarmente auspicando la riconquista della arcipelago maddalenino. Da buoni corsi non avevano dimenticato i torti subiti 25 anni prima quando i loro servi e parenti avevano abbracciato senza alcuna convincente resistenza la causa dei Savoia.
I maddalenini abili alle armi furono inquadrati in milizie divise in 6 compagnie. Antichi racconti ricordano l’iniziativa del sacerdote Luca Demuro (poi viceparroco di La Maddalena) il quale, con i soldi affidatigli dai maddalenini avrebbe trattato, con i contrabbandieri di Aggius, l’acquisto delle armi indispensabili per la difesa. Si racconta anche che pochi giorni prima dell’assalto francese il parroco Giacomo Mossa avrebbe nascosto, in un terreno nei pressi della stessa chiesa, il modesto tesoro di Santa Maria Maddalena, composto da qualche pezzo d’argento e pochi soldi. La necessità di galvanizzare la popolazione attorno ad un simbolo forte che fosse ideologico e religioso insieme portò il governatore Riccio a chiedere che venisse dipinto uno stendardo da combattimento. L’allestimento del drappo si svolse in tutta fretta, probabilmente nella stessa chiesa parrocchiale. In esso venne raffigurata Santa Maria Maddalena, patrona dell’Arcipelago, ai piedi del Crocifisso, in atto di protezione sull’Isola. Ai lati una scritta recitava: “Per Dio e per il Re vincere o morire”. Su quello stendardo, fortemente rappresentativo della risolutezza che i difensori intendevano opporre all’invasore e delle profonde motivazioni che li animavano, si racconta che ci fu il solenne giuramento dei capi famiglia combattenti, verosimilmente al cospetto di don Giacomo Mossa, dal 1773 parroco di La Maddalena e regio cappellano della guarnigione militare.
Il vessillo sventolò sul forte Sant’Andrea, strategicamente eretto alle spalle dell’abitato, per tutta la durata dell’assalto francese durante il quale lo stesso parroco Mossa, dopo aver sicuramente prestato la necessaria assistenza spirituale ai combattenti ed aver somministrato a chi lo richiedeva, i sacramenti, “assistette al combattimento incoraggiando i difensori”. Di ciò è testimonianza una lettera del viceré Balbiano alla Corte di Torino nella quale, per l’ inaspettata resistenza opposta agli invasori, si raccomandavano “le sovrani grazie” per gli equipaggi delle navi, per i maddalenini e, appunto, per “il vecchio cappellano Mossa”. La conferma della matrice anti religiosa della spedizione franco-corsa, naturalmente ricordata e rimarcata dal clero presente nell’isola, non poté non essere confermata dalle bombe lanciate contro la chiesa parrocchiale, la stessa chiesa dove pochi giorni prima era stato stretto il patto sacro di difesa. Ad incoraggiare ulteriormente i difensori di La Maddalena, militari e civili, galvanizzandoli sia sull’efficacia della resistenza sia sulle “protezioni celesti” contribuì probabilmente l’episodio della bomba che, sfondato il tetto della chiesa, rotolò senza esplodere ai piedi dell’altare.
Successivamente si appurò che la bomba (lanciata da Santo Stefano, pare dallo stesso Napoleone Bonaparte che, come noto, partecipava all’impresa), era scarica. Sul momento, tuttavia, si dovette gridare al miracolo, alla benefica intercessione della Santa Patrona e, in quel momento sicuramente, né il parroco Mossa né i comandanti militari si vollero preoccupare di ridimensionare l’accaduto…!
Sull’altra sponda del braccio di mare che separa La Maddalena dall’Isola madre, sull’attuale costa di Palau, erano intanto giunti, appena avuta notizia delle navi francesi, alcune centinaia tra miliziani e volontari, comandati dal cavaliere Giacomo Manca di Tiesi. Provenivano da Tempio, da Calangianus, da Aggius, da Luras, da Bortigiadas, da Monti. Scendendo verso il mare, per i tortuosi sentieri della Gallura, avevano prelevato presso il santuario di Luogosanto, per farne il loro vessillo, la bandiera di lino raffigurante il volto della Vergine. Donata oltre un secolo prima per ringraziamento per lo scampato pericolo da una incursione barbaresca, allo stesso drappo si faceva ricorso nell’invocare protezione per il nuovo pericolo proveniente dal mare. La bandiera di Nostra Signora di Luogosanto sventolò tra gli uomini in armi ed i preti che la custodivano, rassicurante testimone e a sua volta protettrice, di qua del mare, della tenace resistenza di La Maddalena, dell’eroica impresa di Domenico Millelire, della riconquista dell’isola di Santo Stefano da parte delle truppe sabaude e dei volontari galluresi, del completo ritiro della spedizione franco-corsa. La cacciata dei francesi fu salutato non solo a La Maddalena ed in Gallura ma in tutta la Sardegna come un grande evento, coraggiosamente perseguito dai sardi e benevolmente concesso dalla volontà divina. Pochi giorni dopo la ritirata franco-corsa il viceré Balbiano ordinò per “il secondo giorno di Pasqua” un “solenne Te Deum di ringraziamento”, stabilendo che fosse cantato ”in tutte le chiese parrocchiali del Regno, con l’assistenza de’ governatori, comandanti, ufficiali e nobiltà, e colle solite parate della truppa…”. Cosa che puntualmente dovette avvenire anche a La Maddalena, solennemente officiato dal parroco Mossa, con gli stendardi esposti, al cospetto dei comandanti militari, dei marinai, dei soldati, dei combattenti maddalenini e della commossa popolazione rientrata dallo sfollamento in Gallura.
Quel che per molti maddalenini si festeggiò non fu solo la cacciata degli invasori franco-corsi “senza Dio”, ma anche la loro convincente e duratura adesione al Regno di Sardegna. Cacciati i francesi furono con essi respinte anche le idee che, sebbene contraddittoriamente, essi propugnavano. Libertà, eguaglianza, democrazia erano principi che troppo in anticipo sulla storia volevano attraversare le Bocche di Bonifacio; principi che molto tempo dopo anche la chiesa ha prudentemente elaborato, accolto e in buona parte assimilato.
Il naviglio francese, comandato dal luogotenente di fregata Goyetche, si accosta il 22 febbraio 1793 alla Maddalena, e prende fondo presso Santo Stefano. Le batterie sarde fanno fuoco sul medesimo, che risponde con maggior copia ma con minor fortuna. Comandava la spedizione il generale Colonna Cesari col giovane ufficiale Napoleone Bonaparte, luogotenente colonnello d’artiglieria dei volontari nazionali di Corsica.
Il Bonaparte giunge a collocare in S. Stefano l’unico mortaio d’assedio che si avesse, e costruisce nella notte la sua batteria. La mattina del 23 il Bonaparte in persona trae senza posa sulla Maddalena, appuntando egli stesso i cannoni e dirigendo da per sé il tiro del suo mortaio.
I Sardi non dormono. Spiano e prevedono tutte le mosse del nemico, mandandogli una pioggia di fuoco, che obbliga una delle corvette francesi ad ascondersi fra le alte rocce dopo aver avuto un morto e molti guasti.Da Effemeride sarda di Pietro Meloni – Satta. Dicembre 1894