La stagione delle colonizzazioni
Proprio il marchese di Rivarolo era appena stato impegnato da un ordine di Carlo Emanuele III, ad avviare le procedure per l’infeudazione di vasti territori demaniali spopolati e incolti, basandosi sulle regole stabilite nel 1686 da una apposita Carta Reale del re di Spagna. I concessionari delle aree del regio demanio dovevano, secondo le direttive regie, aver l’obbligo di introdurre nei territori spopolati una nuova popolazione sia di nazionali che di forestieri. Iniziava così la stagione dei tentativi di colonizzazione di vaste aree della Sardegna, che soffriva una pesante crisi demografica, una attività agricola estensiva, il peso dominante nel territorio della pastorizia brada, e la mortificazione delle entrate fiscali determinata dalla pratica molto diffusa del contrabbando. La cultura fisiocratica, dominante in quel periodo nella azione politico-amministrativa della corte torinese come di quasi tutte le corti d’Europa, per la ricchezza sociale ed economica degli stati e per la “felicità” dei popoli prevedeva, invece, un circolo virtuoso con l’incremento della popolazione, lo sviluppo di una agricoltura intensiva soprattutto per la produzione di cereali, l’intensificazione di scambi commerciali e infine una forte politica fiscale, con l’estirpazione degli sfrosi e l’imposizione di alcuni monopoli, soprattutto per il tabacco.
La colonie tabarchine di Carloforte e di Calasetta
Una combinazione di tempi estremamente fortunata permise allo stesso marchese di Rivarolo di essere al centro dell’operazione di colonizzazione dell’isola di S. Pietro, da cui nacque la comunità carolina con la fondazione di Carloforte. Fu lui a gestire, nell’estate del 1736, le trattative con il religioso padre Domenico Giovannini e il patrone marittimo Domenico Giacomo Rombo, e successivamente con Agostino Tagliafico, delegati della comunità tabarchina a trovare una soluzione per l’insediamento in Sardegna dei coloni dell’isola africana, determinati ad abbandonarla. Sempre a lui si rivolse don Bernardino Genoves y Cerveylon, marchese della Guardia, che si propose quale feudatario dell’isola di S. Pietro, essendo disposto ad accollarsi i pesanti oneri previsti dalla Carta Reale del 1686 a carico dei concessionari. Nell’inverno/primavera del 1738 sbarcarono i 388 coloni provenienti da Tabarka, cui se ne aggiunsero 79 provenienti dalla Liguria, con due curati.
La nuova colonia fu un prodotto “classico” della Carta Reale: un territorio spopolato e disponibile perché demaniale, una popolazione colonizzante e un concessionario. Ma la buona riuscita della colonia fu determinata soprattutto da una felice concomitanza di elementi positivi: isolani che scelsero un’isola disabitata, una comunità già esistente che ha voluto perpetuarsi nel nuovo insediamento, un concessionario non forzato ma che si è autoproposto. Oltre 30 anni dopo ebbe buon esito anche la colonizzazione della parte settentrionale dell’altra isola sulcitana, S. Antioco. I coloni provenivano anch’essi dall’sola tunisina di Tabarka, ma stavolta il concessionario era l’Ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro, conosciuto anche come Ordine Mauriziano, che nel 1758 aveva ricevuto in feudo da Carlo Emanuele III proprio il territorio di S. Antioco. Spettò, quindi, all’Ordine organizzare l’insediamento della nuova colonia che si stabilì a Calasetta a partire dal 1770. Del tutto sfortunato fu il successivo tentativo di introdurre un gruppo di coloni piemontesi nella stessa isola.
Le operazioni di altre nuove infeudazioni per avviare ulteriori insediamenti di colonie nelle aree spopolate dell’interno della Sardegna furono relativamente numerose, ma nessuna fortunata. Questo aspetto dell’azione riformatrice sabauda in Sardegna è stata oggetto di analisi storiografica, e tutti gli studiosi hanno valutato come riuscite solo, e non tutte, le colonizzazioni sul mare, che non hanno impegnato i territori pastorali, che cioè non hanno tentato di rompere o solo modificare gli equilibri preesistenti negli spazi interessati all’intervento di ripopolamento. I territori di volta in volta individuati da colonizzare perché spopolati non sempre erano liberi, ma impegnati da un uso non regolato ma intenso, soprattutto per pascolo brado. Le attività di colonizzazione, quindi, impattarono in un sistema di interessi di cui erano beneficiari non solo singoli pastori, ma anche intere comunità, nobili e possidenti. Il contrasto ai tentativi era particolarmente virulento e talvolta violento, tanto da rendere impossibile lo sviluppo dell’operazione di colonizzazione, e qualche volta non ne permetteva neppure l’avvio.
Salvatore Sanna – Co.Ri.S.Ma