La vita amministrativa
Il 28 luglio il sindaco Salvatore Vincentelli distribuì le deleghe agli assessori. Il vicesindaco Luigi Papandrea, che, ormai ‘faceva parte per se stesso’, si sarebbe dovuto occupare dell’istruzione. I comunisti Salvatore Magnasco e Giannina Poggi, erano incaricati di sovrintendere ai lavori pubblici e all’assistenza sociale, funzione di vitale importanza visto il momento storico particolare. Mario Pietro Ornano, Giovanni Farese e Marcantonio Bargone, della ‘Lista Cittadina’, erano confermati alle Finanze, all’azienda idroelettrica e all’igiene e sanità.
Non ci fu sufficiente tempo a disposizione di Vincentelli e collaboratori per svolgere un azione amministrativa nuova e radicalmente diversa, rispetto ai canoni consueti [1].
Diversa perché aveva tentato di rendersi indipendente dalla tutela del Ministero della Difesa e della Marina Militare, che avevano garantito lavoro e reddito per la popolazione, ma che, in cambio, avevano imposto dettami e costituito precetti amministrativi che ogni sindaco, opportunisticamente o per dovere, era tenuto a osservare. La Marina Militare era madre, era pane, era punto di riferimento socio-culturale, era supporto finanziario, era strumento per elevare il livello di importanza della città che la ospitava, nel confronto con le realtà limitrofe, era economia diretta e indotta. Era tutto.
Anche i modesti mezzi di comunicazione di cui si disponeva a quell’epoca – i quotidiani sardi ‘La Nuova Sardegna’, ‘L’Unione Sarda’ – non facevano altro che esaltare i progressi della piazzaforte militare, compiuti nel volgere di pochi anni dalla fine della guerra nonostante le pesanti clausole restrittive del trattato di pace. Alla Marina Militare, un deferente e cerimonioso cronista del tempo rivolgeva il suo riconoscente saluto e non risparmiava manifestazioni di gratitudine, facendosi interprete del sentire diffuso, perché l’opera che svolgeva l’istituzione militare s’inquadrava appieno “con la grande bonifica spirituale e morale iniziatasi dopo gli anni terribili della disfatta” [2]. La prosa era magniloquente, non molto diversa da quella adoperata dai ‘velinari ’ dell’Agenzia Stefani o dagli estensori dei testi inseriti a corredo dei documenti filmati dell’Istituto L.U.C.E., insostituibili sistemi di divulgazione del ventennio fascista. Il ruolo della stampa, anche di quella regionale, nel periodo in cui si ‘digeriva’ la dottrina Truman e la politica del containement, era funzionale alla creazione del consenso. “Diamo atto di queste grandi realizzazioni alla Marina Militare – scriveva il corrispondente de ‘La Nuova Sardegna’ da La Maddalena – ben sicuri che saprà continuare per la via intrapresa con la fermezza a lei caratteristica e saprà forgiare come sempre e come ieri, uomini che sappiano rispondere all’appello della Patria in un solo modo ‘presente’” [3].
Il sindaco Vincentelli, da buon socialista, alleato dei comunisti, cercava di impostare invece una linea di condotta mirata alla distinzione tra il livello politico e quello militare e di perseguire con larga autonomia i propri obiettivi.
Passo dopo passo, provvedimento dopo provvedimento, prendeva forma una politica differente, fatta di punti di incontro tra le diverse anime della comunità isolana, di principi condivisibili da tutti. Il bene comune significava realizzare opere pubbliche, adeguare i servizi da rendere alla popolazione, perfezionare l’erogazione dell’acqua e dell’energia elettrica, rendere efficiente il sistema di assistenza sociale, realizzare sistemi più efficienti di ridistribuzione delle ricchezze.
I maggiorenti locali, al contrario, pensavano al modo migliore per rinverdire i fasti della ‘Piccola Parigi’, con la costruzione della diga-ponte, ad esempio, con la realizzazione di alberghi in cui ospitare i primi turisti che scoprivano queste isole di struggente bellezza, magari costruiti su terreni demaniali che dovevano essere ceduti agli stessi imprenditori a prezzi ridicolmente simbolici, sprecavano fiumi di inchiostro e di parole a ragionare intorno alla sterilità delle rocce granitiche e al territorio comunale privo di superfici boschive, se si fosse fatta eccezione per le pinete Caprera [4].
L’amministrazione comunale veniva di continuo attaccata sulla stampa e le critiche, aspre, riflettevano i contenuti della campagna ostile, scatenata senza lesinare gli strumenti di propaganda, da parte della DC, che aveva in pugno anche gli organi di comunicazione.
Comunque, nel corso di cinque mesi qualcosa di ‘popolare’ fu fatto.
Il 31 luglio fu rinnovato il comitato dell’Ente Comunale di Assistenza (ECA) per il quadriennio 1952-55; da una rosa di nomi proposti dalla maggioranza, il consiglio comunale, in una seduta convocata dal sindaco appositamente per l’occorrenza, fece cadere la scelta sugli esponenti comunisti Augusto Morelli – che in seguito diventò presidente dell’Ente – e Pietro Balzano, sui socialisti Manlio Sorba e Giovanni Usai. I membri dell’E.C.A. che non provenivano dall’assemblea civica erano: Maria Massaro, Virgilio Marrone, Giovanni Murru e Maria De Roberto [5].
Nella riunione del 20 settembre, il consiglio comunale, approvò a larghissima maggioranza – con 27 voti favorevoli su 28 votanti – la proposta dell’assessore competente, Giovanni Farese, di contrarre un mutuo con lo stato per consentire il potenziamento della rete idroelettrica del comune.
L’assessore spiegò che l’azienda municipale, di cui egli era supervisore, non traeva i cespiti attesi perché l’attrezzatura era insufficiente e gli impianti vetusti. “Com’è risaputo – disse Farese – l’azienda dovrebbe rappresentare il più efficiente apporto all’economia dell’amministrazione comunale e ciò potrebbe essere soltanto se il complesso degli impianti sarà portato al grado di rispondenza voluto […]. Allo stato attuale, a causa delle deficienze sopra ricordate, una quantità di energia elettrica rappresentante il 51,47%, corrispondenti a kw 507,145, per un importo di sette milioni di lire, annualmente sono praticamente perduti dal comune. Tale perdita […] si dovrebbe aggirare al 15% circa […]” [6].
La perdita era dovuta anche, in parte, al fatto che soltanto una minima aliquota degli utenti era fornita di regolare contatore, oppure si impegnava a pagare a forfait consumi idrici, e questo dava origine ad abusi e a difficoltà di controllo da parte del comune stesso.
L’opera di consolidamento della rete elettrica e degli impianti avrebbero permesso di realizzare un ulteriore introito annuo di sei milioni di lire. Introito che, a sua volta, avrebbe consentito un ammortamento delle spese da sostenere per corrispondere agli interessi del mutuo da contrarre e il rapido realizzo di un cespite elevato, che sarebbe diventato ancora maggiore se si fosse tenuto conto del passivo legato al mancato guadagno, lamentato fintantoché non fossero state realizzate le opere richieste. Sulla falsariga del progetto presentato dalla Compagnia Generale di Elettricità di Milano nello stesso periodo, il comune de La Maddalena aveva fatto elaborare un piano di massima delle opere, che sarebbe stato necessario eseguire, e delle spese, che sarebbe stato opportuno sostenere, per riordinare la rete esterna. Ossia costruire una cabina di trasformazione a levante della città, nel quartiere popolare di Due Strade, risistemare l’impianto della frazione di Moneta con un trasformatore da collegarsi con la linea di alta tensione dell’acquedotto, acquistare i contatori, in modo che tutti gli utenti ne fossero forniti, acquistare i materiali che occorrevano per il collegamento delle due cabine – per la rimessa in efficienza dell’impianto di distribuzione della bassa tensione della città che era utilizzato all’epoca – reperire gli strumenti atti a migliorare il lavoro di manutenzione ordinaria.
Attraverso la legge n. 1030 del 1950, era consentito ai comuni di accendere mutui agevolati, appunto per aumentare e migliorare la produzione di energia elettrica da parte delle aziende municipalizzate. L’amministrazione comunale aveva stimato che sarebbero occorsi 22 milioni di lire per avere un servizio essenziale, servizio che avrebbe posto la città al passo con i tempi, evitato la dispersione di energia che raggiungeva la ragguardevole percentuale del 50% e portato la luce elettrica a quelle case della periferia dove erano usate ancora le candele steariche [7].
Altro servizio essenziale era la fornitura dell’acqua potabile. Il 10 agosto di quello stesso anno, la Giunta comunale, dietro proposta del sindaco Vicentelli, aveva approvato uno schema di convenzione tra il Comune e la Marina Militare per razionalizzare, stavolta, l’utilizzo dell’acquedotto civico e per ripartire le spese per la potabilizzazione dell’acqua. In pieno governo fascista – il 9 febbraio del 1931- la stessa Marina Militare aveva sottoscritto una convenzione con il Ministero dei Lavori Pubblici con cui si impegnava a pagare, per conto dell’amministrazione comunale de La Maddalena, le spese per la costruzione dell’acquedotto. Il Comune, dal canto suo, si era impegnato a provvedere all’esercizio e alla manutenzione di quell’opera pubblica che aveva consentito all’isola di compiere il salto di qualità agognato e di risolvere la crisi idrica, rafforzata dalla particolare condizione geografica, ma anche di mettere a disposizione della Marina tutto il quantitativo d’acqua che fosse stato stimato necessario, dal comando militare, per soddisfare il fabbisogno dell’intera piazzaforte.
Una situazione di sudditanza ‘di fatto’, che l’amministrazione laica e di sinistra non avrebbe potuto tollerare, se non per altro, per ragioni ideologiche e anche di convenienza. Per aggiunta, l’ente militare, in forza di una successiva convenzione – stipulata il 9 agosto 1931 – con il comune, era esonerata dal pagamento di ogni spesa ordinaria e straordinaria per la fruizione del bacino imbrifero, e questo stava a significare che tutta l’acqua che gli occorreva, in tempo di guerra o di pace, poteva ottenerla, a pregiudizio del fabbisogno collettivo, sino a un quantitativo calcolato nei 2/3 della portata dell’invaso. Con il passare degli anni, e con l’aumento dei residenti in divisa, condotti a La Maddalena dagli eventi bellici, i gravami finanziari, che pesavano sulle casse comunali, erano divenuti insostenibili. Con l’intento di alleviare l’onere a carico del Comune, l’amministrazione aveva proposto alla sezione autonoma del Genio la stipula di una nuova convenzione, con cui l’amministrazione militare avrebbe dovuto adoperarsi per contribuire in maniera congrua alle spese generali. L’accordo fu raggiunto e la Marina si impegnò, per l’avvenire, a corrispondere al Comune, un contributo, nella misura di 38 lire per ogni metro cubo d’acqua effettivamente consumato, dietro fatturazione emessa dall’ente erogatore del servizio, a trimestri posticipati [8].
In ossequio ai principi enunciati, in campagna elettorale, i rappresentanti delle forze di sinistra e della ‘Lista Cittadina’, laica e senza un riferimento partitico, puntavano al perseguimento di finalità nobili e di contenuto sociale. Non sempre riuscirono nel loro intento. Ma, almeno, al principio, ci provarono. Il 27 giugno del 1952, a titolo d’esempio, la giunta presieduta dal vicesindaco Luigi Papandrea – nove giorni prima, come sappiamo, il sindaco Larco si era dimesso – aveva deciso di deliberare la richiesta al Provveditore agli Studi, di istituire, per l’anno scolastico 1952-53, una scuola sia nel rione disagiato di Punta Villa, sia nel borgo di Stagnali, nell’isola di Caprera. L’amministrazione comunale, che aveva recepito le istanze che provenivano dagli abitanti delle zone periferiche in questione, dove esistevano parecchi fanciulli in età scolare, aveva deciso di provvedere, con fondi pubblici, al reperimento, alla sistemazione e all’arredamento dei locali da adibire a istituti scolastici e di provvedere affinché gli insegnati avessero potuto svolgere il loro lavoro in ambienti accoglienti e decorosi [9].
A proposito di quella campagna elettorale, uno dei temi forti dei partiti di sinistra e degli alleati liberal-massonici, era stato proprio il risanamento delle casse comunali, dissanguate, si diceva, dalla dissennata gestione operata durante il mandato del sindaco Giuseppino Merella.
La ‘Grande Coalizione’ aveva riscosso il favore degli elettori anche per questo atteggiamento di risolutezza nel denunciare pubblicamente quello che veniva sussurrato nelle pubbliche piazze, nei caffè o nelle sezioni di partito: il denaro pubblico non era stato amministrato in maniera oculata, era stato impiegato in un’unica e ben identificabile direzione, le opere di utilità collettiva nessuno li aveva viste realizzare, perché anche nell’ambito della finanza locale spettava al potente parroco, con cui il sindaco degli anni della ricostruzione si consigliava, l’ultima parola.
Forse anche il denaro del Comune, tanto, ed elargito con troppa nobiltà d’animo, fu offerto a don Salvatore Capula, per dare avvio al grandioso progetto dell’Opera Pia, avversato dalle sinistre e dalla stessa Massoneria? [10]. Difficile fornire una risposta certa al legittimo interrogativo che si erano posti, allora, i maddalenini che non stavano dalla ‘parte giusta ’ della barricata. Fatto sta che, nel corso degli anni, e cioè da quando i terreni dell’ex cimitero degli eroi isolani, ormai sconsacrato – lo era dal 1948 – furono donati dal comune (amministrazione Merella) alla parrocchia, sui quali, come sugli altri che confinavano con il lotto che aveva acquistato don Capula con fondi personali, avrebbe dovuto sorgere l’opera avente carattere educativo e assistenziale per la gioventù isolana, non fu mai stabilito con esattezza quanta parte di quattrini provenisse dallo stato, quanta dalla regione, quanta dai benefattori privati, quanta dalle offerte dei fedeli e quanta da altri imprecisati enti erogatori, fra i quali non era da escludere, appunto, il Comune.
Visto il legame, quasi da figlio devoto verso un padre benedicente, che correva fra il sindaco e il parroco, Merella non poteva sottrarsi dal fornire un valido contributo per una causa, ritenuta in parrocchia, tanto nobile. Il problema vero sarebbe sorto in seguito: le risorse finanziarie a disposizione del parroco non furono sufficienti per portare a compimento l’Opera Pia, che non fu mai inaugurata e resta lì a simbolo muto di una gestione a dir poco sconcertante e sprecona.
Comunque bisognava dare soddisfazione alla gente, e in maniera particolare, a quella parte di elettorato che aveva assegnato la fiducia al fronte anticlericale, proprio perché era stato promesso che la spesa pubblica si sarebbe orientata , come si soleva dire allora, a beneficio dei lavoratori.
Il 20 settembre si tenne una riunione del consiglio comunale, per esaminare, davanti a tutta la cittadinanza, la discussa e controversa situazione finanziaria dell’ente. Il sindaco Salvatore Vincentelli, con grande sorpresa degli avversari politici, fece piazzare alcuni altoparlanti nella piazza Giuseppe Garibaldi, davanti al palazzo municipale, per fornire la maggiore pubblicità possibile all’evento. Era, sempre in relazione ai tempi che correvano, una forma corretta di diffusione al pubblico delle notizie sull’attività amministrativa e, se vogliamo, un segno di partecipazione democratica e di trasparenza.
Dai microfoni installati nel salone consiliare il sindaco ricordò alle persone accorse numerose nell’‘agorà’ isolana, che dal riepilogo presentato dal predecessore all’atto dell’insediamento del consiglio comunale, insediamento avvenuto il 3 giugno successivo, la situazione finanziaria del Comune, considerati i lavori pubblici eseguiti e da eseguire, era risultata deficitaria: si era prodotto un disavanzo di amministrazione, che alla data del 31 maggio dello stesso anno, era risultata essere di oltre 11 milioni di lire.
Si trattava di una cifra ragguardevole per quei tempi, se si considera che la paga di un salariato non superava le 10 mila lire mensili.
Poiché nei primi mesi di gestione della giunta Vincentelli, la ragioneria comunale aveva riscontrato che diversi debiti accesi non figuravano nel verbale di chiusura dell’esercizio precedente, il sindaco stesso chiese l’intervento di un funzionario della prefettura, per predisporre il bilancio per l’esercizio 1952 e per verificare quale fosse stato effettivamente lo stato patrimoniale del comune e in che misura l’ente avesse potuto disporre dei cespiti.
Il contabile incaricato, calcolando i residui attivi e passivi alla data del 31 dicembre 1951, arrivò a stabilire che il ‘buco’ nel bilancio superava i 35 milioni di lire. Al disavanzo aggiunse la differenza tra le spese e le entrate effettive del 1952 (14 milioni di lire circa). Per ottenere il pareggio era necessario contrarre un mutuo pari al deficit accertato.
La voce popolare aveva trovato in tal modo conferma nei dati contabili: il comune era povero, rischiava il tracollo finanziario. Di che era la colpa? Chi aveva dissipato le risorse che servivano per rimettere in piedi la città prostrata dopo tanti anni di guerra? Ovviamente le reazioni furono rapide e, in qualche caso, scomposte, ma non ci fu modo di individuare i colpevoli e di inchiodarli alle loro responsabilità. Gli esponenti democristiani puntarono sul depistaggio e, per difendersi, attaccarono il sindaco che aveva inopportunamente e con il chiaro intento di fare della speculazione politica ascritto al biasimo, davanti ai cittadini, Giuseppino Merella e la sua amministrazione. “Ho eseguito l’esposizione dei fatti con il microfono, perché siamo in tempo di democrazia, non ho fatto alcun commento sui dati esposti dall’ex sindaco, ma ho enunciato i dati come risultano dagli accertamenti del funzionario della prefettura. Tutto il popolo, e non solo quella esigua aliquota che è presente nella sala, ha il diritto di sentire quello che si dice” così replicò Vincentelli ai suoi accusatori [11].
Non sarebbe potuto essere tacciato di demagogia, il primo cittadino, neppure quando aveva pubblicizzato lo stanziamento di 60 milioni di lire, da impegnare per opere pubbliche perché , come soleva dire, “ciò che è speso per i lavoratori è speso bene”. La sua amministrazione non avrebbe potuto accollarsi responsabilità e negligenze attribuibili a chi aveva operato in passato. Salvatore Vicentelli pretendeva che i maddalenini lo avessero giudicato esclusivamente per tutto quello che fosse stato capace di progettare e di realizzare nell’avvenire.
Il Pane del Governo di Salvatore Abate e Francesco Nardini – Paolo Sorba Editore – La Maddalena
NOTE:
[1] Tra i primi provvedimenti va comunque ricordata l’assegnazione di 25 mila lire a favore del comitato festeggiamenti di Santa Maria Maddalena su richiesta del comitato di cui faceva parte l’assessore Farese, laico e, forse, massone, ritenendo che “questa amministrazione non può lesinarsi dall’assunzione di un atto diventato ormai consuetudinario”. Cfr. ACLM, Registro….. Cit., deliberazione n. 146 del 20 luglio 1952.
[2] S. ZOCCHEDDU, La Maddalena e la Marina Militare, in ‘La Nuova Sardegna’. A. 52, n. 260 del 9 novembre 1952.
[3] Ibidem.
[4] S. ZOCCHEDDU, La Maddalena è nuda, in ‘La Nuova Sardegna’. A 52, n. 168 del 19 Luglio 1952; dello stesso autore e nello stesso quotidiano cfr. La Maddalena, ovvero i problemi irrisolti. A. 52, n. 206, 2 settembre 1952.
[5] Cfr. ACLM, Registro cit., deliberazione n. 153 del 31 luglio 1952.
[6] Ibidem.
[7] ACLM, Registro cit, deliberazione n. 211 del 20 settembre 1952.
[8] Ibidem, deliberazione n. 175 del 5 agosto 1952.
[9] Ibidem, deliberazione n. 101 del 27 giugno 1952.
[10] Sull’argomento Opera Pia cfr. G. C. TUSCERI, Il Governatore cit.; C. RONCHI, L’Opera Pia, (titolo provvisorio, in corso di pubblicazione).
[11] ACLM, Registro… Cit., deliberazione n. 210 del 20 settembre 1952.
- Prologo di “Il pane del Governo”
- 1946. Le prime elezioni, ovvero ‘la maggioranza di una minoranza’
- 1946. La democrazia si presenta
- 1947. Gli anni della guerra fredda
- 1948. Le elezioni del 18 aprile
- 1949. L’Italia nella NATO e il Piano Marshall
- Alla vigilia delle elezioni del 26 maggio 1952
- Una maggioranza laica e di sinistra
- Le dimissioni di Renzo Larco
- Colpire le sinistre
- 24 Giugno 1952: dopo i tre suoni di sirena
- 12 luglio 1952 – L’intervento dell’on. Luigi Polano alla Camera dei Deputati
- Le reazioni in città e la difesa dell’Arsenale
- 16 luglio 1952. Al ritorno da Roma
- La libertà di dire la verità
- Un problema nazionale
- La vita amministrativa
- La fine della primavera isolana
- Le elezioni dell’8 marzo 1953. ‘Antò scopa di ferru’
- La diaspora del 1953
- L’amministrazione Carbini
- La ‘destra’ al governo (1953/1956)
- 1956 L’anno del consenso
- 1956 L’ultima offensiva
- Venti anni d’attesa
- Epilogo