Marianne Sin-Pfältzer
Quando si dice stregata da un’isola. Marianne Sin-Pfältzer, tedesca di Hanau, aveva 24 anni la prima volta che sbarcò in Sardegna. La meta era La Maddalena, dove avrebbe lavorato per breve tempo come educatrice per bambini in una famiglia, e pensò bene di portare con sé una piccola macchina fotografica, con la quale scattò numerose immagini, compresi alcuni ritratti di Clelia Garibaldi, la figlia dell’eroe risorgimentale. Era il 1950, e fu l’inizio di una lunga serie di reportage fotografici nell’isola che ora l’hanno portata a stabilirsi definitivamente a Nuoro. Gli ultimi anni, viveva appartata, custodendo gelosamente un archivio fotografico sterminato, con oltre diecimila immagini selezionate, risalenti in particolare agli anni tra il 1955 e il 1976.
L’editore nuorese Ilisso, dal quale la fotografa era di casa, le ha appena dedicato un volume di grande formato, con un saggio introduttivo dell’antropologo Giulio Angioni e la biografia dell’artista a cura di Salvatore Novellu. Artista, appunto, non solo fotografa. Non tanto perché nel proprio copyright Sin-Pfältzer scriveva sempre fotodesign, ma anche perché nei reportage ha sempre avuto un occhio di riguardo per l’arte e l’artigianato artistico, attività che lei stessa ha praticato.
Le sue immagini sarde, che sono solo una parte di un’avventura fotografica che l’ha portata davvero da un capo all’altro del mondo, sono di una bellezza straordinaria. Documentano un’isola oggi scomparsa appena prima che venisse sepolta, con una malintesa idea di modernità, dalla sopraffazione edilizia che subì negli anni Settanta, come sottolinea efficacemente Giulio Angioni nel suo saggio, quasi un libro nel libro che ci aiuta a capire qualcosa in più di noi e del nostro recente passato.
Il percorso professionale di Marianne Sin-Pfältzer si intreccia necessariamente con quello umano, ed è quello di una giovane tedesca che alla fine della seconda guerra mondiale ha diciannove anni, viene da una famiglia illuminata che ha subìto il nazismo conservando coraggiosamente ambiti di dignità (il padre, medico, non interruppe i rapporti professionali con i suoi pazienti ebrei). Ha perso tutto, compresa la casa nei bombardamenti, ma ha ereditato l’amore per la fotografia dalla madre, la quale dopo la scomparsa prematura del marito, nel 1947, apre un piccolo atelier specializzato soprattutto in ritrattistica.
La vocazione di viaggiatrice di Marianne nasce, probabilmente, anche per necessità. La fotografia non è ancora in cima ai suoi pensieri, ha avviato una piccola attività artigianale legata ai tessuti, sogna anche di diventare musicista. Su segnalazione di un fratello che segue le orme del padre e studia medicina a Roma, si reca all’isola della Maddalena, dove si occupa dell’educazione dei figli di un ufficiale di marina. Ha con sé una piccola Agfa donatale dalla madre, e documenta quanto può, compresa Clelia Garibaldi che morirà pochi anni dopo. Tornata in Germania dopo una permanenza di sei mesi, studia fotografia a Monaco, ma deve lasciare per problemi finanziari e si trasferisce in Francia, prima a Marsiglia poi a Parigi dove comincia a frequentare celebrati atelier fotografici, legati soprattutto al mondo allora emergente della moda. Ma è un ambiente che non la soddisfa, e la spinge a orientarsi verso il reportage, in particolare di tipo etnografico.
Il primo pensiero torna alla Sardegna, dove arriva nella primavera del 1955 armata di una Rolleicord 6X6. Si muove in pullman e in treno, ma soprattutto, in modo inconsueto e certo impavido per una donna all’epoca, in autostop. Direzione Nuoro e la Barbagia: ed è proprio quando cerca un passaggio per Oliena che si imbatte nell’editore cagliaritano Guido Fossataro, il quale le rivela un progetto a cui sta lavorando, il volume “Sardegna quasi un continente”, ricco di fotografie, e la coinvolge nel progetto. Per diversi giorni Marianne accompagnerà il piccolo editore, impegnato nella vendita di libri scolastici, nei luoghi più sperduti della Sardegna. Fotografa in bianco e nero o a colori: sono immagini di luoghi oggi completamente trasformati, irriconoscibili, dove l’elemento umano è sempre presente.
Capisce subito che per spostarsi in Sardegna non si può fare affidamento sui mezzi pubblici (la constatazione varrebbe anche oggi), e con i proventi di diapositive a colori vendute in Germania acquista un’auto e torna nell’isola poco tempo dopo. È una station wagon, un ottimo ripostiglio per la sua attrezzatura ma anche un rifugio per la notte quando si troverà in paesi sperduti dove non ci sono pensioni o alberghi. Nel frattempo in patria le sue foto così esotiche della Sardegna piacciono molto. Le acquistano importanti agenzie che poi le rivendono a editori e pubblicitari. Nell’isola intanto ha allacciato amicizie con il mondo culturale, dallo scrittore Marcello Serra, all’architetto Ubaldo Badas sino all’artista Maria Lai. Il volume di Fossataro esce nel 1958, le sue foto figurano accanto a professionisti del calibro di Mario De Biasi.
Nel 1961 sposa in Germania l’architetto coreano Dong-Sam Sin, ma il matrimonio non dura molto. Conserverà comunque il cognome del marito, che precede il suo da ragazza. Negli anni successivi gira il mondo: reportage negli Usa, poi Haiti, Filippine, Thailandia, Sri Lanka, India, Costa d’Avorio. Negli anni della maturità abbandona la fotografia, anche per il furto dell’intera attrezzatura Hasselblad, e si dedica all’artigianato artistico. L’Ilisso scopre il suo lavoro sulla cultura materiale e la coinvolge nelle proprie monografie, da“Pani” a “Tessuti”. Poi la scelta di stabilirsi definitivamente in Sardegna, attratta da «quell’armonia delle cose e soprattutto della natura» che, dice, aveva sempre cercato dappertutto.