Marinaio nizzardo
Sono oramai trascorsi più di duecentodieci anni dalla sua nascita. Ma cosa sono duecentodieci anni. In fondo non sono che due secoli, quasi l’abbraccio di tre generazioni: la prima che ne ha vissuto le gesta, le seconda che ne ha tratto i vantaggi e una terza che quasi non si ricorda più chi egli fosse o meglio, chi sia stato Garibaldi lo si sa, ma che uomo era Beppino: questo ancora non lo si sa altrettanto bene. Seppure sia stato un massone di nome Cleombroto o un semplice affiliato alla giovine Italia ha poca importanza, quello che conta è il sapere che prima di tutto, Garibaldi, era un marinaio, e tale è sempre rimasto dentro al suo intimo di uomo d’azione.
Eppure, ancora prima di divenire quel grande uomo che seppe guardare ben oltre gli orizzonti, carismatico quanto temerario, che fece della sua vita una fonte inesauribile di avvenimenti legati alla libertà nella sua assonanza più pura, egli fu un insegnante. Si, un semisconosciuto insegnante di italiano e francese, e perché no, anche di matematica che si guadagnò da vivere nella città forse più cosmopolita che sia mai esistita: Costantinopoli. Nonostante la sua cultura provenisse da più spiragli e con alterni accostamenti e che mal tollerava le raccomandazioni del suo insegnante, il reverendo Giacone, verso il quale Beppino non nutriva poi molta simpatia anzi, si può dire che il suo anticlericalismo, con molta probabilità, inizio proprio durante quelle lezioni che lui sentiva particolarmente noiose.
Egli fu sopratutto un autodidatta, che architettò la sua vita in un modo talmente avventuroso da rendere quella di alcuni altri, stantia e forse banale. Eppure egli è sempre rimasto fedele al suo ego, i cui principi non si scostarono mai da quella limpida verità legata a filo doppio con la sua idea libertaria e di vita semplice. Grande cacciatore e uomo di avventura, quasi un avventuriero, seppure ha sempre combattuto sotto le insegne di una bandiera e al servizio di nobili ideali che ne giustificassero l’azione, e mai solo per se stesso. Condottiero e cosmopolita di quell’umanità per la quale divenne eroe contro le tirannie, ovunque andasse la sua fama lo precedeva, e questo è un fatto che ha infastidito molti nel suo tempo, e che ancora oggi qualcuno non vede di buon acchito.
Era ancora ragazzo quando rubò la piccola Santa Margareta al padre per andare alla volta del mare di Genova, sospinto dall’avventura che lo porterà poi a condurre le sue imprese lungo il fiumi Uruguay e Paranà nel nuovo mondo, suscitando l’ammirazione dei suoi uomini, e non solo di essi. Se ne avesse avuto la possibilità sarebbe diventato Ammiraglio e non Generale, come poi avvenne, combattendo alla testa dei suoi uomini e compiendo le sue imprese sul patrio suolo. Il Nizzardo altri non era che un grand’uomo, il cui abbraccio si estese nel dar manforte ben oltre ad una singola provincia, bensì guardando all’intera penisola italica, facendosi baluardo del destino di molti e di tanti eroi come lui.
Ma quanti conoscono le sue imprese marinare. Non sono certo molti. Tutti conoscono il Generale che seppe unificare l’Italia, generoso altruista e fedele a quel risorgimento e che allora fece comodo a più d’uno, per avere in cambio poco o nulla e forse, nemmeno la completa gratitudine proprio di quel re per il quale aveva combattuto e al quale aveva dato molto. Persino il grande tessitore né ebbe timore al punto di suggerire al re Sabaudo di estrometterlo dall’azione. Ma l’uomo di Nizza, perché mai obbedì al suo re. Proprio per la sua fedeltà a quei principi che aveva sempre difeso. Così il grande condottiero si ritrovò ad essere contadino muratore e fattore, e si costruisce la sua oasi di pace nella solitudine di Caprera, peraltro acquistata per metà con i proventi dei suoi trascorsi quale comandante di navi mercantili e un discreto lascito del fratello Michele dopo la sua morte. L’altra metà si può dire che l’ebbe poi in dono.
E fu merito di una iniziativa del Times di Londra, che sottoscrisse una raccolta di fondi pro eroe dei due mondi, che gli permise di rilevare la proprietà dei Collins e consentendogli di divenire unico proprietario dell’isola. Molto di più di quanto non ebbe da altri. E qui, in quest’isola solare e ventosa, adagiata nel catino del Mediterraneo e incastonata nel verdeggiante Arcipelago delle isole intermedie al nord della Sardegna, fondò la sua vera Repubblica Democratica e Sociale. Una assonanza di gente tra pescatori contadini mezzadri e fedeli amici. Chissà se il mondo d’oggi sa che per rientrare a Caprera, dopo Teano, il grande condottiero dovette farsi carico di un prestito di ben 3.000 lire per poter pagarsi la traversata, e che mise piede nella sua isola portando con sé i suoi bottini di guerra: un sacco di granaglie, tre cavalli e un gerla di stoccafisso. Ma quando più tardi si recò a Londra con l’intento di acquistare un “Cutter” col quale intendeva poi sviluppare dei commerci di piccolo cabotaggio, fu accolto da una gran folla in delirio; e forse pochi sanno che in quella occasione Garibaldi contribuì con una discreta somma alla raccolta di fondi per la costruzione di un monumento di un altro grande eroe e gentiluomo scozzese, William Wallace, che verrà poi inaugurato a Stirling in Scothia nel 1869.
Troppo pochi quindi si sono occupati dell’uomo, di Peppino il marinaio. Le sue gesta sul fronte del mare furono molte, e anche se molte sono misconosciute, non per questo sono state meno importanti. Ogni marinaio, quando affronta il mare, è come un Generale che affronta un nemico infido e astuto per quanto indomabile, assoluto e potente forse più di lui, ma ogni marinaio sa che può combatterlo e/o tenerlo a bada in un solo modo: affrontandolo con scaltrezza e capacità di intuito. Il mare non è facile e non è un elemento che a tutti si adatta. Ed ora: per tutti coloro che hanno il coraggio di seguirmi, voglio raccontare un’avventura vissuta dal marinaio Peppino, proprio in quel mare così imperioso e sconfinato che non da mai tregua a nessuno.
Siamo negli anni in cui nel nuovo mondo si correva all’oro lungo la rotta di Capo Horn, da Boston San Francisco; e qui: molti degli scafi serviti per il trasporto dei cercatori venivano poi abbandonati nei lidi. “La Carmen” era un brigantino di 400 Tonnellate circa, che batteva bandiera uruguayana e, probabilmente, si trattava proprio di uno di quelli che erano stati dimessi e che fu acquistato da un certo Pietro Denegri, ligure, che lo fece successivamente allestire proprio nelle medesime coste della nuova California. Si trattava di un’imbarcazione le cui dimensioni erano simili più o meno a quelle di una goletta e, tanto per rendere partecipe il lettore di una realtà constatabile, prendo come esempio il Palinuro, un veliero adibito a nave scuola per nocchieri della nostra Marina Militare. Ebbene, fu proprio con un simile bastimento, che un lontano giorno ai primi di Settembre 1853, il nostro Peppino salpò da Callao alla volta di Boston, dopo un periodo di assenza dai mari. Fu proprio dalle autorità marittime di quella città, che Garibaldi ottenne l’abilitazione al comando, acquisendo il brevetto di “Secundo Pilota de Altura”, e ciò gli permise appunto di assumere il comando della “Carmen”.
Il profondo respiro degli oceani irruente e per quanto insidioso, era tutt’altra cosa rispetto al navigare nel mare nostrum tuttavia, l’eroe dei due mondi, affrontò il terribile spartiacque posto alle porte di due oceani, il temibile Horn, non senza un’adeguata esperienza marinara. Garibaldi aveva già ricevuto il battesimo degli oceani e dei mari di mezzo mondo, dove dimostrò non poche capacità di marinaio. L’unica dolente nota era rappresentata dai suoi dolori artritici che a volte gli impedivano di muoversi a suo piacimento sul ponte di coperta. Ciò nonostante, quando la Carmen si trovò ad affrontare l’ira dei flutti alle latitudini del più spaventoso capo del mondo, Garibaldi era là, a combattere contro le raffiche di vento gelido sospinto dai violenti uragani provenienti dall’Ovest, pronto sul cassero e con l’occhio vigile.
A Capo Horn l’esperienza aveva evidenziato che in quel luogo, il regime di maltempo è quasi una costante, e che l’intensità delle tempeste era sicuramente più elevata in estate piuttosto che d’inverno, mentre nei mesi di Aprile Maggio e Giugno, dato si che il sole lascia l’emisfero australe, si entra in un regime di calme relative. Ma dagli inizi di Luglio in poi, le condizioni del tempo cominciano ad essere nuovamente instabili.
Un racconto del mare
Ebbene: ben sapendo quanto poteva essere pericoloso attraversare il capo da ponente, Garibaldi si appropinquò a prendere ugualmente il mare. D’altro canto non aveva scelta, da quando aveva assunto il comando della Carmen, sin dal lontano 1852, in queste nuove vesti di comandante doveva pur attenersi alle disposizioni del suo armatore.
Il suo viaggio inaugurale a bordo della Carmen, Garibaldi lo aveva già effettuato trasportando un carico di guano dalle isole Chincha alla volta di Canton. Ciò gli permise di acquisire una conoscenza più specifica con le attrezzature e le caratteristiche nautiche proprie della nave. Fu una traversata che durò novantaquattro giorni, durante la quale si trovò ad affrontare un tifone violento che, fra le altre cose, lo costrinse anche a sostare alcuni giorni in cabina proprio a causa dei dolori artritici. Colà giunto non trovò compratori, così fu costretto a spostarsi a Amoy dove fortunatamente trovò a chi interessava il guano che aveva trasportato.
Fece poi ritorno a Canton da dove fece poi rotta per Manila nelle Isole Filippine con un carico di generi leggeri, per fare ancora ritorno a Canton. Qui effettuò alcune riparazioni alla nave, tra cui fece ripulire la carena e sostituire alcuni componenti alle alberature. Terminati i lavori salpò alla volta di Callao in Perù con un carico di sete pregiate e vi giunse in soli 142 giorni di navigazione, quasi un record per quei tempi. Secondo dati attendibili quando arrivò era il 24 Gennaio del 1853. Ma fu in occasione del suo secondo importante viaggio diretto a Boston, che Garibaldi ebbe l’opportunità di doppiare il capo Horn.
Dopo i preparativi, Garibaldi salpò alla volta di Valparaìso in Cile, dove imbarcò pannelli di rame, poi veleggiò alla volta di Islay nella provincia peruviana di Arequipa, dove completò il carico imbarcando balle di lana grezza e, finalmente, mise la prora a sud verso l’America meridionale.
“Con un po’ di fortuna e se saremo scaltri nelle manovre… pensava tra se, riusciremo a doppiare il capo, speriamo indenni, e purché le alberature reggano”.
Queste considerazioni derivavano dal fatto che dirigersi alla volta del capo col favore dei venti, il comandante Garibaldi, ben sapeva che più che una utilità, ciò costituiva un certo rischio e cioè: essere sommersi dai flutti che insidiavano la nave da poppa. Se l’andatura non era sufficientemente veloce, si poteva avere la coperta spazzata dai marosi. Questa era una condizione molto pericolosa, per di più, se chi era al timone non era abbastanza scaltro e mal governava la nave, vi era la possibilità di mettersi di traverso e sarebbe stata la fine.
Man mano che la Carmen si avvicinava verso l’estremo lembo della cordigliera delle Ande, dove il profilo della terra cilena si distribuisce in centinaia di isole e isolette, i flutti si infrangono violentemente sospinti dai quaranta ruggenti e i cinquanta urlanti provenienti da Ovest che peraltro, nell’emisfero meridionale fra il 40° e il 50° parallelo, tali famigerati elementi traggono maggior forza dalle vaste depressioni causate dalle enormi masse d’aria fredda proveniente dall’Antartide, che si scontrano con l’aria calda proveniente dal centro degli oceani, provocando una miscela naturale di difficoltà e disperazione, contro la quale generazioni di provetti marinai si sono cimentati.
A quelle latitudini, senza preavviso, il vento improvvisamente rinfrescò aumentando l’intensità con la quale sospingeva le onde a cozzare con sempre maggiore irruenza sul mascone di dritta, facendo sobbalzare la nave paurosamente. Il rollio e il beccheggio aumentarono a dismisura e il loro effetto rendeva sempre più precario l’equilibrio degli uomini in coperta. Il cielo, oramai al crepuscolo, appariva plumbeo e minaccioso. Garibaldi guardò il barometro che scendeva. “Brutto affare… commento con sé stesso”.
Poco dopo il vento, senza preavviso, cambiò direzione. Ora spirava da sud in un turbine sempre più crescente.
“Nostromo… prepararsi a sghindare gli alberetti di velaccio e contro velaccio, c’è troppo vento in quota… non vorrei perderne qualcuno”.
“Sissignore, rispose quest’ultimo… uomini in coperta pronti alle manovre”.
“Tenersi pronti… ribadì poi, mura a dritta. Timoniere… urlò, mantieni la prora al mascone di sopravento di dritta, nostromo… alare le scotte”.
Ora la Carmen avanzava di bolina stretta, ma ben presto sarebbe stato necessario lascare le manovre più al centro, altrimenti la nave sarebbe scesa a latitudini troppo basse col pericolo di incontrare gli Iceberg.
“I venti sicuramente cambieranno ancora di direzione… pensò ancora tra sé Peppino, dovrò stare attento”.
Intanto la pioggia cadeva incessante e gelida senza lasciare scampo a chiunque fosse allo scoperto, scrosciava da ogni parte e sui volti allampanati degli uomini attenti alle manovre, cruenta e implacabile, rendendo le mani scivolose alla presa. Il vecchio brigantino pur se violentemente sballottato dall’infuriare degli elementi avanzava, lento, ma avanzava avvolto da quel turbinio urlante. Ora si impennava arrancando sulla cresta dell’onda, ora precipitando nel profondo baratro del cavo dell’onda in un balletto infinito e senza tregua, dove il vento e le fredde spume grigiaste dell’oceano la facevano da padrone.
“Nostromo… faccia controllare i boccaporti, che siano ben chiusi, mi sembra che la nave sia appesantita, faccia controllare la sentina, e speriamo di non imbarcare acqua”.
“Nostromo… urlò ancora a piena voce, metta altri uomini alle pompe”.
“Sissignore… ribadì urlando per farsi sentire, ora provvedo”.
E intanto i giorni passavano in un tedio senza fine, dove la stanchezza era sovrana e rendeva le membra deboli e le mani intirizzire dal freddo male obbedivano ai comandi della mente. Lo stomaco eccitato a raccare non dava tregua, e gli occhi, bruciati dal salso e dalle raffiche pungenti del vento, stentavano a guardare continuamente a riva per controllare i pennoni e il flettersi degli alberi sotto la sferza incessante del vento. Eppure in quella lotta impari che spinge l’uomo a confrontarsi con sé stesso e per la sua stessa sopravvivenza, nessuno mollava. Poi il vento cambiò ancora direzione, ora soffiava rabbioso e più intenso da Ovest. La vela di maestra era troppo carica e rischiava di flettere troppo l’albero
“Gabbieri… chiamò il comandante, terzarolare la maestra. Timoniere attenzione: vieni una quarta a dritta. Nostromo attento allo scarroccio… bordare i fiocchi. Fate attenzione alla randa che non sfarfalli.
La nave accostò ma il vento di poppa era troppo forte e l’abbrivio della nave insufficiente, e vi era il pericolo che la successione delle onde fosse troppo serrata.
“Nostromo strozzare la randa, attenzione al boma… issatelo bene”.
“Gabbieri a riva, sciogliere i terzaroli alla gabbia di trinchetto.. dobbiamo aumentare l’andatura, siamo troppo lenti”.
Quando la vela si spiegò totalmente, la Carmen sbandò sotto la spinta furiosa del vento sino a che fu quasi impossibile reggersi in piedi sopra il ponte inondato d’acqua, cosicché tutti furono costretti ad aggrapparsi al capodibanda di sopravento poi, quando la nave si risollevò dalla sbandata, nella semioscurità, Garibaldi si issò dal rovescio sulle sartie di maestra sino in coffa, e osservò la testa d’albero di trinchetto dal disotto la relingia di lunata, per vedere più da vicino se questo reggeva allo sforzo. Ingombro dal capotto di navigazione, a fatica si infilò dal passo del gatto sulla piana di coffa e si riposò le braccia dallo sforzo, fintanto che il sibilo assordante del vento si insinuava assordante nell’orifizio delle orecchie. Osservò ancora il flettersi dell’albero sotto lo sforzo delle vele rigonfie di vento e appesantite dalla pioggia poi, attraverso la barricata che circondava la coffa guardò di sotto gli uomini addetti alle pompe che senza fiatare, lavoravano senza sosta. Ridiscese a fatica in coperta e continuò a sorvegliare ogni singolo movimento di ciascun uomo e del suo bastimento. I segni della vecchiaia, sotto il continuo sollecito delle onde cominciavano ad incrinare i legni della Carmen, alcuni comenti in coperta cominciavano a cedere e l’acqua a filtrare disotto. Purtroppo non si poteva fare nulla o poco in quelle condizioni, se non tamponare alla meglio le falle e pompare acqua sperando che reggessero allo sforzo.
“Timoniere… disse ancora, fai attenzione alle raffiche, se i venti da Ovest sono costanti e sufficientemente tesi dobbiamo aspettarci onde elevate da poppa, cerchiamo di evitare le spazzate in coperta”.
“Sissignore… ripeté forte, farò attenzione”.
Fin tanto che il tempo non diede segno di placarsi, Garibaldi e la sua ciurma combatterono con perizia contro le forze della natura, ma fu scaltro anche il timoniere, dietro gli impulsi del suo capitano, a mantenere la nave in rotta nonostante le furiose ondate che insidiavano da poppa, e mantenne la nave sopra la gobba dell’onda e finalmente doppiarono il capo. Occorsero parecchi giorni, ma alla fine vi riuscirono, e quando la Carmen mise la prora in direzione di nord-est, Garibaldi diede ordine al cuoco di preparare un pasto caldo, dopo giorni e giorni di gallette e pesce secco. Finalmente era tornata la calma e la navigazione prese ad essere gradevole e l’aria, per quanto, si intiepidì. In quel dolce sciabordio e pienamente soddisfatto del lavoro compiuto a spese di inenarrabili privazioni, Peppino si pose sul cassero e intonò una romanza per allietare se stesso e chi lo ascoltava. Si, Garibaldi aveva una discreta voce tenorile ed era ben intonato. Di certo non cantò il “Nessun dorma” dalla Thurandot di Puccini, ma qualche vecchia canzone di taverna imparata in chissà quale sperduto porto del mondo in cui aveva sostato. La Carmen risalì la costa Est dell’America verso il nord Atlantico, navigò lungo le coste dell’Argentina dell’Uruguay e del Brasile, attraversò i Carabi e finalmente arrivò a Boston, un pò malconcia, ma abbastanza in asse, dopo alcune riparazioni, da riprendere il suo viaggio alla volta di New York, e qui Garibaldi lasciò il comando a causa di alcune divergenze con l’armatore.
L’occasione per rientrare in Europa gli fu offerta dal “Commonwealt”, un veliero acquistato a Baltimora, e siccome batteva bandiera americana, Garibaldi non poté assumere direttamente il comando della nave che fu affidato ad un prestanome tuttavia, il 16 Gennaio del 1854, Garibaldi salpò con un carico di generi di prima necessità: farina e grano, e l’11 di Febbraio attraccò ai Docks di Londra. Qui, dopo anni di assenza, incontrò nuovamente Mazzini. Fra i due patrioti però non scorreva buon sangue. L’altezzosità e la faziosità del letterato non collimavano molto col Nizzardo. L’uno teorico e accentratore, l’altro pratico e ardimentoso. Non sarebbero mai andati pienamente d’accordo. Comunque Garibaldi, di li a poco, salpò da Londra alla volta di Newcastle dove imbarcò carbone fossile da trasportare in Italia, e finalmente il 6 Maggio dello stesso anno attraccò a Genova. Qui sbarcò dando addio definitivamente alle grandi navigazioni d’oltre oceano, e qui depositò la sua patente di “Capitano di lungo corso”, (matricola 12946) ancora oggi visibile presso la Capitaneria di Porto di Genova.
Ecco quindi chi era Garibaldi, un grande marinaio, e questo fantasiosa narrativa vuol essere un doveroso omaggio a lui dedito, come dedito lo è per tutti gli uomini di mare che possono essere annoverati tra coloro che hanno saputo vincere e doppiare il grande Capo Horn.
Che dire ancora più di quanto non sia già stato detto su di lui. Si, forse c’è ancora una cosa che si potrebbe dire su di lui e cioè: se Abramo Lincon, nell’estate del 1861, avesse sin da subito dichiarato apertamente che si batteva per l’abolizione della schiavitù senza condizioni, cosa che peraltro farà più tardi nel 1865 con l’aggiunta del 13° emendamento legislativo, …con molta probabilità Garibaldi avrebbe accettato l’invito di combattere per gli Stati Uniti d’America. Ma non fu così, e conoscendo l’indole del grande vecchio, si presume l’amarezza che Garibaldi provò quando Vittorio Emanuele II° gli rispose che per lui era libero di partire quando voleva, inesorabilmente, questa risposta gli tolse quel senso di avventura insito nel suo carattere. In cuor suo, come tutti sapevano e sanno ancora oggi, egli anelava un altro sogno… che il suo re, ora che Cavour era morto, gli affidasse un nuovo incarico, nel mentre vi fu solo indifferenza.
Chissà: forse i films che in seguito sono stati prodotti a Hollywood sulla grande epopea secessionista americana, avrebbero avuto degli eroi che indossavano delle camicie rosse garibaldine, in luogo delle giacche blu del 7° cavalleggeri. E lui, il Generale Garibaldi, il grande uomo avvolto nel suo ampio poncio, sarebbe stato di nuovo eroe.